mercoledì 29 gennaio 2020

Dott. Daniele De Ruvo medico chirurgo che segue il "Life 120"

Dott. Osvaldo Catucci medico chirurgo che segue il "Life 120"

“Il signor parroco ha dato di matto”

Mercier

Public Domain

“Monsieur le curé fait sa crise” è il breve racconto spirituale del noto redattore de “La Vie” (già autore di un ottimo saggio sul celibato ecclesiastico): nelle peripezie di un parroco stufo di essere ridotto a funzionario, si tracciano insieme una tagliente analisi dei mali della Chiesa cattolica nei nostri contesti secolarizzati e un’ispirata proposta per “gettare il cuore oltre l’ostacolo”

L’ho letteralmente divorato: me lo sono trangugiato tutto d’un fiato nel pomeriggio di Pasqua. E mentre lo mandavo giù, senza poter staccare gli occhi dalle pagine, una dietro l’altra, condivo la lettura con qualche lacrima e con molti sorrisi.
Monsieur le curé fait sa crise (“Il signor parroco ha dato di matto”, tradotto dalla San Paolo, ndrè un breve romanzo del giornalista francese Jean Mercier (scrive prevalentemente su La Vie). Un “conte spirituel”, lo ha definito la sua collega Marie-Lucile Kubacki, facendo una chiara allusione ai “contes philosophiques” di Voltaire: come quelli condensavano in poche pagine leggibili da tutti una visione del mondo sintomatica di molte implicazioni e gravida di altrettante conseguenze (spesso corrosive); così questo offre, in una narrazione leggiadra e avvincente, uno spaccato realistico e tagliente della realtà ecclesiale della Francia contemporanea. Si capisce facilmente: anche in questo caso, come in quello, sono possibili molti livelli di lettura, ma i pamphlet volterriani non sono certo i parenti più stretti del Nostro; su La Vie la collega di Mercier ha qualificato con l’aggettivo “doncamillesco” il “racconto spirituale” edito in Francia da Quasar.
Niente va più per il verso giusto, nella parrocchia di Sainte-Marie aux-Fleurs di Saint-Germain-La-Villeneuve – si legge in quarta di copertina –: i membri del gruppo floreale si tirano i capelli, gira contro il parroco una petizione firmata dai fedeli, il vescovo è scontento, la cappella di Santa Gudule rischia la demolizione, dei vandali hanno profanato il confessionale e la vecchia Marguerite sente parlare i morti… senza contare che il parroco è scomparso stamattina.
Malgrado l’innegabile ed evidente venatura di giallo, però, don Benjamin (il protagonista del romanzo) resta irriducibile a preti-detective come il chestertoniano padre Brown o il nostrano don Matteo (che dell’altro è discendente diretto), ed è anche immancabilmente più postmoderno del granitico don Camillo, di guareschiana memoria. Seppure talvolta usa parole e maniere forti, che ricordano quelle del confratello di Brescello, non arriva mai alle mani; e quand’anche si trova a investigare, non è sui problemi altrui che investiga, ma sui propri.
Il signor parroco dà di matto, dovrebbe infatti suonare il titolo italiano del romanzo, e dà di matto proprio perché non ritrova più il senso del proprio ministero in un contesto invaso dalle edere parassitarie della burocrazia e sottomesso ai diktat di psicologia e pedagogia, che una volta si presentavano come scienze ausiliarie dell’attività pastorale. Un povero prete, al giorno d’oggi, cammina su uno stretto sentiero insidiato a sinistra dall’erosione di una società ormai dissolta nel nichilismo e a destra dagli spuntoni di un cattolicesimo reazionario e ottuso, che s’insospettisce di fronte alla parola “misericordia” e sembra non vivere che per combattere nemici – a costo di fabbricarsene di immaginari.
Già in questo si vede la sapienza analitica di Mercier, che fa filare snella la barchetta del suo racconto come tra le insidiose Scilla e Cariddi dei soliti progressismi e fissismi: don Benjamin è l’eroe della storia e non fa mistero di una sensibilità schiettamente conservatrice, ma questo non gli basta per evitare il “fuoco amico” degli attivisti vicini alla Manif pour Tous francese, che pretendono da lui una dedizione esorbitante a paranoiche campagne di Kulturkampf (svolte perlopiù mediante petizioni online). Le sue figure di riferimento sono l’anziano padre spirituale – un vecchio saggio provato nel lungo crogiolo del post-concilio francese – e un giovane confratello, anche più conservatore di lui ma insopportabilmente più carismatico nella pastorale, specialmente in quella giovanile e vocazionale.
Poi c’è il rapporto col vescovo, con cui aveva prima avuto una relazione profonda ma che gli anni sembrano aver trasformato in un grigio burocrate anaffettivo: quando don Benjamin viene convocato in episcopio e segretamente spera che i suoi studi biblici vengano alfine premiati con l’agognato posto di docente in seminario, il Vescovo si limita a una sommaria rampogna per l’insulto con cui il prete aveva telefonicamente apostrofato la “responsabile della formazione catechetica in diocesi” (tutta fuffa postsessantottina in salsa di paroloni pseudoscientifici). A quel punto “il signor parroco dà di matto”.
uno si aspetterebbe il fugone con la vecchia fiamma, il sit-in davanti all’episcopio o perlomeno la stesura di un duro J’Accuse contro l’establishment ecclesiale. Niente di tutto questo: don Benjamin [attenzione: segue piccolo spoiler!] abbandona il cellulare per non essere rintracciato, prende qualche vestito e qualche paramento liturgico, il breviario e la Bibbia, e si nasconde in una baracca situata in fondo al giardino, al confine del territorio parrocchiale. Era il regno del suo predecessore, che aveva il pollice verde, ma per essere sicuro di non farsi stanare in poche ore il prete rispolvera le sue reminiscenze di muratura, che lo zio carpentiere gli aveva trasmesso in gioventù… e mura la porta del capannone, finendo recluso.
La bizzarra protesta prende una piega inattesa quando, mentre tutti cercano il parroco (e un giornalino locale prova ad alzare qualche quattrino speculando sulle ipotesi d’indagine), qualcuno passa accanto al muro di cinta del territorio parrocchiale e lo sente cantare il Benedictus delle Lodi da una grata di aerazione della baracca, che spunta praticamente al livello del terreno sulla strada. L’imprevisto prende corpo e all’improvviso tutti vogliono andare a inginocchiarsi davanti a quella grata: prima per interpellare il parroco – che fino al giorno prima era un erogatore di servizi ma certo non un soggetto di aspettative e bisogni – sulle ragioni della sua protesta; poi, all’improvviso, per rovesciare in quel buco en plein air i pesi della loro coscienza e riceverne in cambio l’assoluzione.
Così l’oscuro paesino di provincia diventa all’improvviso la capitale del sacramento dimenticato, e sui giornali nazionali e internazionali si parla dell’inedito ammutinamento di questo moderno emulo di Giuliana di Norwich (il quale a sua volta scatenerà un fenomeno emulatorio). Se il testo andasse avanti su questa falsariga, lo si potrebbe prendere per un romanzetto apologetico del sacramento della Penitenza. E lo si sminuirebbe non poco. La maturità umana e spirituale dell’autore, infatti, emerge soprattutto nella variazione che a questo punto Mercier impone al racconto: è troppo raffinata la sua conoscenza delle dinamiche della vita interiore, perché egli si accontenti di trasformare il suo don Benjamin in un novello Curato d’Ars. Il paragone c’è, naturalmente, ma viene presto rovesciato nel ridicolo: proprio la fitta trama degli incontri e delle relazioni in cui il parroco è inserito esige che l’intreccio si dipani ulteriormente, ben oltre la (geniale, oltre che divertente) situazione del prete che riesce a fare il prete solo quando abbandona i compiti del ministero.
Dire di più sarebbe davvero anticipare troppo, al lettore, e non è questo qui il mio scopo: a me preme solo salutare nel libro di Jean Mercier un’opera della cui intelligenza ecclesiologica e del cui talento narrativo c’era pressante bisogno. Vi si ritroveranno i sacerdoti, che si vedranno raccontare da un laico lo spaesamento in cui una certa psicopolizia sessantottina, sotto i veli del mitologico “spirito del Concilio”, ancora vorrebbe relegarli; vi si ritroveranno i vescovi, che hanno cessato di essere signori locali ma che, poiché non sono (ancora) diventati quei pastori eminenti proclamati dalla Christus Dominus, si s-contentano di galleggiare nel mantenimento di un non meglio precisabile status quo; vi si ritroveranno gli operatori pastorali tutti, che vedono l’actuosa participatio del Vaticano II incarnarsi mostruosamente nella loro larvata clericalizzazione; e vi si riconosceranno tutti i laici che sempre più scambiano la vita del cattolico impegnato con l’impegno autoassunto di dare ogni giorno pagelle di cattolicità dal Papa in giù.
Soprattutto, però – ma questo starà in larga parte nelle capacità promozionali dell’editrice italiana – sarà data a molti l’occasione di scoprire l’essenza del cristianesimo, il cuore della proposta della Chiesa, ciò che in termini desueti e forse respingenti si direbbe “l’Evangelo”. Certo, la cultura in cui tutti siamo immersi è indifferente e spietata. Lo sappiamo, ma Mercier ha il merito di ricordarci con queste sue pagine delicate che essa è tale perché nessuno ha mai versato «sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino delle speranza» (Prefazio comune VIII). I passi in cui si narra lo spontaneo e naturalissimo inginocchiarsi delle persone, lontane o vicine (e anzi spesso i “vicini” si rivelano incredibilmente lontani), davanti alla grazia di Cristo, rivelano una lunga frequentazione della miseria umana e della misericordia divina, di cui l’autore sembra a qualche titolo esperto. Proprio mentre alcune circostanze vengono demitizzate della loro aura ieratica (Mercier rivela che spesso don Benjamin si pulisce le unghie, nel confessionale, …e anche il naso!); dalle pagine del romanzo la lucetta rossa che brilla accanto al dimenticato tabernacolo trema di nostalgia nel lettore. Si avverte il sapore della riconciliazione, s’intravede il profetico miraggio di una Chiesa libera da mode culturali e vassallaggi intellettuali, in cui l’afflato collegiale tra gli ordini del clero (e al loro interno) non sia un astratto teorema celeste.
Gli snodi della seconda parte del racconto spirituale di Mercier – che non a caso in Francia è noto per un ottimo saggio sul celibato ecclesiastico – mettono a fuoco le risorse colpevolmente inutilizzate nella vita del clero non-più-giovane, non-più-attivo, non-più-performante: contro gli scarti prodotti da paradigmi che non sanno gestire il deficit del “capitale umano”, il racconto di Mercier fa brillare l’imprevedibile creatività dello Spirito di Cristo, che sceglie le cose e le persone deboli e inermi per far ammutolire (di meraviglia e di vergogna) tutte le istanze che pretendono di progettare la società (e la Chiesa) sul metro del profitto. E fa tutto questo, il libro di Mercier, con scintillante e ispirata fantasia.
AMDG et DVM

La vista... è tremenda



QUADERNI DEL 1944 CAPITOLO 246


29 gennaio 1944

   Avrei qui da dirle due cose che la interessano certo e che avevo deciso di scrivere non appena tornata dal sopore. Ma siccome c’è dell’altro più pressante, scriverò poi.

   Ciò che io vedo questa sera:

   Una immensa estensione di terra. Un mare, tanto è senza confini. Dico "terra" perché vi è della terra come nei campi e nelle vie. Ma non vi è un albero, non uno stelo, non un filo d’erba. Polvere, polvere e polvere.
   Vedo questo ad una luce che non è luce. Un chiarore appena disegnato, livido, di una tinta verde-viola quale si nota in tempo di fortissimo temporale o di eclissi totale. Una luce, che fa paura, di astri spenti. Ecco. Il cielo è privo di astri. Non ci sono stelle, non luna, non sole. Il cielo è vuoto come è vuota la terra. Spogliato l’uno dei suoi fiori di luce, l’altra della sua vita vegetale e animale. Sono due immense spoglie di ciò che fu.
   Ho tutto l’agio di vedere questa desolata visione della morte dell’universo, che penso sarà dello stesso aspetto dell’attimo primo1, quando era già cielo e terra ma spopolato il primo d’astri e la seconda nuda di vita, globo già solidificato ma ancora inabitato, trasvolante per gli spazi in attesa che il dito del Creatore le donasse erbe e animali.
   Perché io comprendo che è la visione della morte dell’universo? Per una di quelle "seconde voci" che non so da chi vengano, ma che fanno in me ciò che fa il coro nelle tragedie antiche: la parte di indicatrici di speciali aspetti che i protagonisti non illustrano di loro. È proprio quello che le voglio dire e che le dirò dopo.
   Mentre giro lo sguardo su questa desolata scena di cui non comprendo la necessità, vedo, sbucata non so da dove, ritta nel mezzo della piana sconfinata, la Morte2. Uno scheletro che ride con i suoi denti scoperti e le sue orbite vuote, regina di quel mondo morto, avvolta nel suo sudario come in un manto. Non ha falce. Ha già tutto falciato. Gira il suo sguardo vuoto sulla sua messe e ghigna.
   Ha le braccia congiunte sul petto. Poi le disserra, queste scheletriche braccia, e apre le mani senza più altro che ossa nude e, poiché è figura gigante e onnipresente - o meglio detto: onnivicina - mi appoggia un dito, l’indice della destra, sulla fronte. Sento il ghiaccio dell’osso pontuto che pare perforarmi la fronte ed entrare come ago di ghiaccio nella testa. Ma comprendo che ciò non ha altro significato che quello di voler richiamare la mia attenzione a ciò che sta avvenendo.
   Infatti col braccio sinistro fa un gesto indicandomi la desolata distesa su cui ci ergiamo essa, regina, ed io unica vivente. Al suo muto comando, dato con le dita scheletriche della mano sinistra e col volgere a destra e a manca ritmicamente il capo, la terra si fende in mille e mille crepe e nel fondo di questi solchi scuri biancheggiano bianche cose sparse che non comprendo che siano3.
Mentre mi sforzo di pensare che sono, la Morte continua ad arare col suo sguardo e il suo comando, come con un vomere, le glebe, e quelle sempre più si aprono fino all’orizzonte lontano; e solca le onde dei mari privi di vele, e le acque si aprono in voragini liquide.
   E poi da solchi di terra e da solchi di mare sorgono, ricomponendosi, le bianche cose che ho visto sparse e slegate. Sono milioni e milioni e milioni di scheletri che affiorano dagli oceani, che si drizzano su dal suolo. Scheletri di tutte le altezze. Da quelli minuscoli degli infanti dalle manine simili a piccoli ragni polverosi, a quelli di uomini adulti, e anche giganteschi, la cui mole fa pensare a qualche essere antidiluviano. E stanno stupiti e come tremanti, simili a coloro che sono svegliati di soprassalto da un profondo sonno e non si raccapezzano del dove si trovano.

   La vista di tutti quei corpi scheletriti, biancheggianti in quella "non luce" da Apocalisse, è tremenda.

   E poi intorno a quegli scheletri si condensa lentamente una nebulosità simile a nebbia sorgente dal suolo aperto, dagli aperti mari, prende forma e opacità, si fa carne, corpo simile a quello di noi vivi; gli occhi, anzi le occhiaie, si riempiono d’iridi, gli zigomi si coprono di guance, sulle mandibole scoperte si stendono le gengive e le labbra si riformano e i capelli tornano sui crani e le braccia si fanno tornite e le dita agili e tutto il corpo torna vivo, uguale a come è il nostro.

   Uguale, ma diverso nell’aspetto. Vi sono corpi bellissimi, di una perfezione di forme e di colori che li fanno simili a capolavori d’arte. Ve ne sono altri orridi, non per sciancature o deformazioni vere e proprie, ma per l’aspetto generale che è più da bruto che da uomo. Occhi torvi, viso contratto, aspetto belluino e, ciò che più mi colpisce, una cupezza che si emana dal corpo aumentando il lividore dell’aria che li circonda. Mentre i bellissimi hanno occhi ridenti, viso sereno, aspetto soave, e emanano una luminosità che fa aureola intorno al loro essere dal capo ai piedi e si irradia all’intorno.

   Se tutti fossero come i primi, l’oscurità diverrebbe totale al punto di celare ogni cosa. Ma in virtù dei secondi la luminosità non solo perdura ma aumenta, tanto che posso notare tutto per bene.
   I brutti, sul cui destino di maledizione non ho dubbi poiché portano questa maledizione segnata in fronte, tacciono gettando sguardi spauriti e torvi, da sotto in su intorno a sé, e si aggruppano da un lato ad un intimo comando che non intendo ma che deve esser dato da qualcuno e percepito dai risorti. I bellissimi pure si questi bellissimi, cantano un coro lento e soave di benedizione a Dio.
   Non vedo altro. Comprendo di aver visto la risurrezione finale4.

   Quello che le volevo dire all’inizio è questa cosa. Lei oggi mi diceva come avevo potuto sapere i nomi di Hillel e Gamaliele e quello di Sciammai5.
   È la voce che io chiamo "seconda voce"6, quella che mi dice queste cose. Una voce ancor meno sensibile di quella del mio Gesù e degli altri che dettano. Queste sono voci - glie l’ho detto7 e glie lo ripeto - che il mio udito spirituale percepisce uguali a voci umane. Le sento dolci o irate, forti o leggere, ridenti o meste. Come se8 uno parlasse proprio vicino a me. Mentre questa "seconda voce" è come una luce, una intuizione che parla nel mio spirito. "Nel", non "al" mio spirito. È una indicazione.

   Così, mentre io mi avvicinavo al gruppo dei disputanti e non sapevo chi era quell’illustre personaggio che a fianco di un vecchio disputava con tanto calore, questo "che" interno mi disse: "Gamaliele - Hillel". Si. Prima Gamaliele e poi Hillel. Non ho dubbi. Mentre pensavo chi erano costoro, questo indicatore interno mi indicò il terzo antipatico individuo proprio mentre Gamaliele lo chiamava a nome. E così ho potuto sapere chi era costui dal farisaico aspetto.
   Oggi questo indicatore interno mi fa comprendere che io vedevo l’universo dopo la sua morte. E così molte volte nelle visioni. È quello che mi fa capire certi particolari che da me non afferrerei e che sono necessari di capirsi.
   Non so se mi sono spiegata bene. Ma smetto perché comincia a parlare Gesù.

   
   Dice Gesù:

   Quando il tempo sarà finito e la vita dovrà essere unicamente Vita nei cieli, il mondo universo tornerà, come hai pensato9, ad essere quale era all’inizio, prima d’esser dissolto completamente. Il che avverrà quando io avrò giudicato.
   Molti pensano che dal momento della fine al Giudizio universale vi sarà un attimo solo. Ma Dio sarà buono sino alla fine, o figlia. Buono egiusto.
   Non tutti i viventi dell’ora estrema saranno santi e non tutti dannati. Vi saranno fra quei primi coloro che sono destinati al Cielo ma che hanno un che da espiare. Ingiusto sarei se annullassi ad essi l’espiazione che pure ho comminata a tutti coloro che li hanno preceduti trovandosi nelle loro medesime condizioni alla loro morte.
   Perciò, mentre la giustizia e la fine verranno per altri pianeti, e come faci su cui uno soffia si spegneranno uno ad uno gli astri del cielo, e oscurità e gelo andranno aumentando, nelle mie ore che sono i vostri secoli - e già si è iniziata l’ora dell’oscurità, nei firmamenti come nei cuori- i viventi dell’ultima ora, morti nell’ultima ora, meritevoli di Cielo ma bisognosi di mondarsi ancora, andranno nel fuoco purificatore. Aumenterò gli ardori di quel fuoco perché più sollecita sia la purificazione e non troppo attendano i beati di portare alla glorificazione la loro carne santa e di far gioire anche la stessa vedendo il suo Dio, il suo Gesù nella sua perfezione e nel suo trionfo.
   Ecco perché hai visto la terra priva di erbe e alberi, di animali, di uomini, di vita, e gli oceani privi di vele, distesa ferma di acque ferme poiché non sarà più necessario ad esse il moto per dar vita ai pesci delle acque, come non più necessario calore alla terra per dar vita alle biade e agli esseri. Ecco perché hai visto il firmamento vuoto dei suoi luminari, senza più fuochi e senza più luci. Luce e calore non saranno più necessari alla terra, ormai enorme cadavere portante in sé i cadaveri di tutti i viventi da Adamo all’ultimo figlio di Adamo.
   La Morte, mia ultima ancella sulla Terra, compirà il suo ultimo incarico e poi cesserà d’essere essa pure. Non vi sarà più Morte. Ma solo Vita eterna. Nella beatitudine o nell’orrore. Vita in Dio o vita in Satana per il vostro io ricomposto in anima e corpo.
   Ora basta. Riposa e pensa a Me.»

   E anche questa sera, che non volevo scrivere perché ero sfinita, ho dovuto scrivere 12 facciate!... Senza commenti.
   Dimenticavo dirle che i corpi erano tutti nudi ma che non faceva senso, come se10 la malizia fosse morta essa pure: in loro e in me. E poi, ai corpi dei dannati faceva schermo la loro oscurità e a quello dei beati faceva veste la loro stessa luce.
Perciò, ciò che è animalità in noi scompariva sotto l’emanazione dello spirito interno, signore ben lieto o ben disperato della carne.

   1 Genesi 1,1-2.
   2 1 Corinzi 15, 26.
   3 Ezechiele 37, 1-14.
   4 l Corinzi 15, 35-58.
   5 Si riferisce all’episodio da noi indicato a pag. 79.
   6 A pag. 79, primo capoverso.
   7 Ad esempio, il 13 maggio 1943, ne « I quaderni del 1943»; pag. 57.
   8 se è aggiunto da noi
   9 Al punto richiamato dalla nota 1
   10 se è aggiunto da noi

AMDG et DVM