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giovedì 23 luglio 2015

Santa Cristina di Bolsena, Martire

Santa Cristina di Bolsena Martire
Bolsena, IV secolo
Le varie versioni della «Passio» di Cristina sono discordanti. Quelle greche la dicono originaria di Tiro, le latine di Bolsena. A suffragare questa seconda ipotesi sta il fatto che nella cittadina laziale – di cui la santa è patrona – fin dal IV secolo si è sviluppato un cimitero sotterraneo intorno al sepolcro di una martire Cristina. Il racconto della «Passio» è considerato favoloso e narra di una undicenne che il padre fece rinchiudere in una torre con dodici ancelle per preservarne la bellezza. In realtà questa misura venne adottata dal genitore, di nome Urbano, ufficiale dell’imperatore, per costringere la figlia ad abiurare la fede che aveva abbracciato: il cristianesimo. Alla morte del padre – che già aveva fatto più volte torturare la figlia, pur di farla ritornare agli antichi culti – le autorità si accanirono ancora di più su di lei, mettendola a morte. 
Patronato: Mugnai
Etimologia: Cristina = seguace di Cristo
Emblema: Palma, Ruota
Martirologio Romano: A Bolsena nel Lazio, santa Cristina, vergine e martire

Cristina fa parte di quel gruppo di sante martiri, la cui morte o i supplizi subiti si imputano ai padri, talmente snaturati e privi di amore, da infliggere a queste loro figlie i più crudeli tormenti e dando loro la morte, essi che l’avevano generate alla vita.


Sono un po’ interdetto davanti a questi casi, come ad esempio per s. Barbara, perché credo che sia frutto di tradizioni agiografiche di un tempo lontano, in cui si intendeva impressionare il devoto con racconti forti.



Da scavi archeologici eseguiti fra il 1880 e il 1881 nella grotta situata sotto la Basilica di Santa Cristina a Bolsena, si è accertato che il culto per la martire era già esistente nel IV secolo; dal fondo della grotta-oratorio si apre l’ingresso alle catacombe, che contengono una sua statua giacente in terracotta dipinta e il sarcofago dove furono ritrovate le reliquie del corpo della santa.




Al tempo dell’imperatore Diocleziano (243-312) la fanciulla di nome Cristina, figlia del ‘magister militum’ di Bolsena, Urbano, era stata rinchiusa dal padre insieme con altre dodici fanciulle, in una torre affinché venerasse i simulacri degli dei come se fosse una vestale.



Ma l’undicenne Cristina in cuor suo aveva già conosciuto ed aderito alla fede cristiana, si rifiutò di venerare le statue e dopo una visione di angeli le spezzò.
Invano supplicata di tornare alla fede tradizionale, fu arrestata e flagellata dal padre magistrato, che poi la deferì al suo tribunale che la condannò ad una serie di supplizi, tra cui quello della ruota sotto la quale ardevano le fiamme.



Dopo di ciò fu ricondotta in carcere piena di lividi e piaghe; qui la giovane Cristina venne consolata e guarita miracolosamente da tre angeli scesi dal cielo.



Risultato vano anche questo tentativo, lo snaturato ed ostinato padre la condannò all’annegamento, facendola gettare nel lago di Bolsena con una mola legata al collo.



Prodigiosamente la grossa pietra si mise a galleggiare invece di andare a fondo e riportò alla riva la fanciulla, la quale calpestando la pietra una volta giunta, lasciò (altro prodigio) impresse le impronte dei suoi piedi; questa pietra fu poi trasformata in mensa d’altare.



Di fronte a questo miracolo, il padre scosso e affranto morì, ma le pene di Cristina non finirono, perché il successore di Urbano, il magistrato Dione, infierì ancora di più.



La fece flagellare ma inutilmente, poi gettare in una caldaia bollente piena di pece, resina e olio, da cui Cristina uscì incolume, la fece tagliare i capelli e trascinare nuda per le strade della cittadina lagunare, infine trascinatala nel tempio di Apollo, gli intimò di adorare il dio, ma la fanciulla con uno sguardo fulminante fece cadere l’idolo riducendolo in polvere.



Anche Dione morì e fu sostituito dal magistrato Giuliano, che seguendo i suoi predecessori continuò l’ostinata opera d’intimidazione di Cristina, gettandola in una fornace da cui uscì ancora una volta illesa; questa fornace chiamata dal bolsenesi ‘Fornacella’, si trova a circa due km a sud della città; in un appezzamento di terreno situato fra la Cassia e il lago, nel Medioevo fu inglobata in un oratorio campestre.



Cristina fu indomabile nella sua fede, allora Giuliano la espose ai morsi dei serpenti, portati da un serparo marsicano, i quali invece di morderla, presero a leccarle il sudore, la tradizione meno realistica della leggenda, vuole che i serpenti si rivoltarono contro il serparo mordendolo, ma Cristina mossa a pietà, lo guarì.



Seguendo le ‘passio’ di martiri celebri come s. Agata, la leggendaria ‘Passio’ dice che Giuliano le fece tagliare le mammelle e mozzare la lingua, che la fanciulla scagliò contro il suo persecutore accecandolo. Infine gli arcieri, come a s. Sebastiano, la trafissero mortalmente con due frecce. 



Questo il racconto leggendario della ‘Passio’ redatta non anteriore al IX secolo, il cui valore storico è quasi nullo, precedenti ‘passio’ greche sostenevano che Cristina, il cui nome latino significa “consacrata a Cristo”, fosse nata a Tiro in Fenicia, ma si tratta di un errore dovuto al fatto che la prima ‘passio’ fu redatta in Egitto e che per indicare la terra degli Etruschi chiamati Tirreni dai Greci, si usava l’abbreviazione ‘Tyr’ interpretata erroneamente come Tiro.



Le reliquie ebbero anche loro un destino avventuroso, furono ritrovate nel 1880 nel sarcofago dentro le catacombe poste sotto la basilica dei Santi Giorgio e Cristina, chiesa risalente all’XI secolo e consacrata da papa Gregorio VII nel 1077.

Le reliquie del corpo, anzi di parte di esso sono conservate in una teca, parte furono trafugate nel 1098 da due pellegrini diretti in Terrasanta, ma essi giunti a Sepino, cittadina molisana in provincia di Campobasso, non riuscirono più a lasciare la città con il loro prezioso carico, per cui le donarono agli abitanti.

Questo l’inizio del culto della santa molto vivo a Sepino, le reliquie costituite oggi solo da un braccio, sono conservate nella chiesa a lei dedicata; le altre reliquie furono traslate tra il 1154 e 1166 a Palermo, che proclamò la martire sua patrona celeste, festeggiandola il 24 luglio e il 7 maggio; la devozione durò almeno fino a quando non furono “scoperte” nel secolo XVII le reliquie di santa Rosalia, diventata poi patrona principale. A Sepino, s. Cristina viene ricordata dai fedeli ben quattro giorni durante l’anno

A Bolsena, s. Cristina viene festeggiata con una grande manifestazione religiosa, la vigilia della festa il 23 luglio sera, nella oscurata piazza antistante la basilica, viene portato in processione il simulacro della santa posto su una ‘macchina’ a forma di tempietto, contemporaneamente sulla destra del sagrato si apre il sipario di un palchetto illuminato, dove un quadro vivente rappresenta in silenzio una scena del martirio e ciò si ripete in ogni piazza e su altrettanti piccoli palchi dove giunge la processione; la manifestazione è chiamata “I Misteri di s. Cristina”.

La processione cui partecipa una folla di fedeli, si svolge per strade e piazze di Bolsena, finché arriva in cima al paese nella Chiesa del Santissimo Salvatore, lì la statua si ferma tutta la notte e la mattina del 24, giorno della festa liturgica di s. Cristina, si riprende la processione di ritorno con le stesse modalità e giungendo infine di nuovo nella Basilica a lei dedicata.

I “Misteri” sono una manifestazione religiosa che sin dal Medioevo, onora alcuni santi patroni in varie città d’Italia specie del Centro.

Bisogna infine qui ricordare che la Basilica di S. Cristina possiede l’altare che come già detto è formato dalla pietra del supplizio della martire e che proprio su quest’altare nel 1263 un sacerdote boemo, che nutriva dubbi sulla verità della presenza reale del Corpo e Sangue di Gesù nell’Eucaristia, mentre celebrava la Messa, vide delle gocce di sangue sgorgare dall’ostia consacrata, che si posarono sul corporale e sul pavimento, l’evento fu riferito al papa Urbano IV, che si trovava ad Orvieto, il quale istituì l’anno dopo la festa del Corpus Domini.

La ‘passione’ di santa Cristina ha costituito un soggetto privilegiato da parte degli artisti di ogni tempo, come Signorelli, Cranach, Veronese, Dalla Robbia, i quali non solo la rappresentarono in scene del suo martirio con i suoi simboli, la mola, i serpenti, le frecce, ma arricchirono con le loro opere di pittura, scultura e architettura, la basilica a lei dedicata, maggiormente dopo avvenuto il miracolo eucaristico.



Autore: Antonio Borrelli

sabato 5 ottobre 2013

Straziante ed eloquente al mille per cento! SONO I VANGELI DELLA FEDE ! Santi e Sante Martiri pregate per noi!


Sera del 24 – 11 - 1946
I Martiri e le loro conquiste.

Vedo un luogo che per costruzione e per personaggi molto mi ricorda il Tullianum nella visione della morte del piccolo Castulo ( Ne I quaderni del 1944, pag. 152.) Mi ricorda anche altri luoghi romani come le celle dei circhi dove ho visto ammassati i cristiani prossimi ad essere gettati ai leoni. Ma non è né l’uno né l’altro luogo. 

Le muraglie sono con le solite robuste pietre squadrate sovrapposte. La luce 

è poca e triste come filtrasse da feritoie e si mescolasse al lume incerto di una
fiammella ad olio insufficiente a rischiarare l’ambiente. Il luogo è sempre, di
certo, una carcere, e carcere di cristiani, ma, a differenza degli altri luoghi
che ho visto, questo ambiente fosco e triste non è tutto chiuso da porte e
muraglie. Ha in un angolo un ampio corridoio che si diparte dallo stanzone 
e va chissà dove. Anche il corridoio, un poco curvo come facesse parte di 
una larga elissi, è con le solite pietre quadrangolari e malamente 
rischiarato da una fiammella. Il luogo è vuoto. Però al suolo, un suolo 
che pare di granito, sparso di grossi sassi a far da sedili, sono degli indumenti.
Un rumore sordo, come di mare in tempesta che si senta lontano dalla riva, 
viene da non so dove. Delle volte è più fievole, talora è forte. Ha quasi del boato.

Forse per effetto delle pareti a curva che lo devono raccogliere e amplificare
come per eco. È un rumore strano. Delle volte mi sembra fatto da onde di 
mare o da una grande cascata d’acque, delle volte mi pare di sentirlo fatto 
di voci umane e penso sia folla che urla, altre fa dei suoni inumani durante 
i quali l’altro rumore si sospende per esplodere poi più forte... Ora uno 
scalpiccio di passi, di molti passi, viene dal corridoio ellittico che si illumina 
vivamente come se altri lumi vi venissero portati, e col rumore 
dei passi un rammarichio fievole di creature sofferenti...



Poi ecco la tremenda scena. Preceduto da due uomini colossali, anzianotti,
barbuti, seminudi, muniti di torce accese, viene avanti un gruppo di creature
sanguinanti, parte sorrette, parte sorreggenti, parte addirittura portate. Ho
detto: creature. Ma ho detto male. Quei corpi straziati, mutilati, aperti, quei
volti dalle guance segnate da atroci ferite che hanno dilaniato le bocche sino
all’orecchio, o spaccato una guancia sino a mostrare i denti infissi nella
mandibola, o cavato un occhio che spenzola fuor dall’orbita priva della 
palpebra ormai inesistente, o che è mancante affatto come per una barbara 
ablazione, quelle teste scoperchiate del cuoio capelluto come se un ordigno 
crudele le avesse scotennate, non hanno più aspetto di creature. 
Sono una visione macabra come un incubo, sono come un sogno di pazzia... 

Sono la testimonianza che nell’uomo si cela la belva e che essa è pronta 

ad apparire e a sfogare i suoi istinti approfittando di ogni pretesto che 
giustifichi la belluinità. Qui il pretesto è la religione e la ragion di stato. 
I cristiani sono nemici di Roma e del divo Cesare, sono gli offensori degli 
dèi, perciò i cristiani siano torturati. E lo sono. Che spettacolo! 
Uomini, donne, vecchi, fanciullini, giovinette sono là alla rinfusa in attesa 
di morire per le ferite o per un nuovo supplizio.

Eppure, tolto il lamento inconscio di coloro che la gravità delle ferite fa
insensati, non si sente una voce di rammarico. Quelli che li hanno condotti si
ritirano lasciandoli alla loro sorte, e allora si vede che i meno feriti cercano
di soccorrere i più gravi e chi appena può va a curvarsi sui morenti, chi non
può farlo stando ritto si trascina sulle ginocchia o striscia al suolo cercando
l’essere a lui più caro o quello che sa più debole di carne e forse di spirito. 

E chi può ancora usar le mani cerca dare soccorso alle forme denudate 

ricoprendole con le vesti che erano al suolo, oppure raccogliendo le membra 
dei languenti in positure che non offendano la modestia e stendendo su esse 
qualche lembo di veste. 
E alcune donne raccolgono nel grembo i bambini morenti, e forse 
non sono i loro, che piangono di dolore e paura. Altre si trascinano 
presso giovinette coperte soltanto delle chiome disciolte e cercano rivestire 
le forme verginali con le candide vesti trovate al suolo. E le vesti si intridono 
di sangue, e odor di sangue satura l’aria dell’ambiente mescolandosi al fumo 
pesante del lume ad olio. 

E dialoghi pietosi e santi si intrecciano sommessi.


“Soffri molto, figlia mia?” chiede un vecchio dal cranio scoperchiato della cute
che pende sulla nuca come una cuffia caduta e che non può vedere perché 
non ha più per occhi che due piaghe sanguinanti, rivolgendoli ad 
una che sarà stata una florida sposa ma che ora non è che un mucchio di 
sangue, stringente al petto aperto, con l’unico braccio che ancor lo può fare, 
in un disperato gesto di amore, il figliolino che sugge il sangue materno in 
luogo del latte che non può più scendere dalle mammelle lacerate.
“No, padre mio... Il Signore mi aiuta... Se almeno venisse Severo... Il
bambino... Non piange... non è forse ferito... Sento che mi cerca il petto...
Sono molto ferita? Non sento più una mano e non posso... non posso guardare
perché non ho forza più di vedere... La vita... se ne fugge col sangue... Sono
coperta, padre mio?...”.
“Non so, figlia. Non ho occhi più...”.

Più oltre è una donna che striscia al suolo sul ventre come fosse un serpente.
Da uno squarcio alla base delle coste si vedono respirare i polmoni. “Mi senti
ancora, Cristina?” dice curvandosi su una giovinetta nuda, senza ferite, ma col
color della morte sul viso. Una corona di rose è ancor sulla sua fronte sopra i
capelli morati disciolti. È semi svenuta.
Ma si scuote alla voce e carezza materna, e raduna le forze per dire:
“Mamma...”. La voce è un soffio. “Mamma! Il serpente... mi ha stretta così...
che non posso più... abbracciarti... Ma il serpente... è nulla... La vergogna...
Ero nuda... Mi guardavano tutti... Mamma... son vergine ancora anche 
se... anche se gli uomini... mi hanno vista... così?... Piaccio ancora a Gesù?...”.
“Sei vestita del tuo martirio, figlia mia. Io te lo dico: piaci a Lui più di
prima...”.
“Sì... ma... coprimi, mamma... non vorrei più esser vista... Una veste per
pietà...”.
“Non ti agitare, mia gioia... Ecco. La mamma si mette qui e ti nasconde... Non
posso più cercarti la veste... perché... muoio... Sia lode a Ge...”. E la donna
si rovescia sul corpo della figlia con un grande fiotto di sangue, e dopo un
gemito resta immobile. Morta? Certo agli ultimi respiri.
“La madre mia muore... Non è vissuto nessun prete per darle la pace?...” 
dice la giovinetta sforzando la voce.
“Io vivo ancora. Se mi portate...” dice da un angolo un vecchio dal ventre
aperto completamente...
“Chi può portare Cleto da Cristina e Clementina?” dicono in diversi.
“Forse io posso, ché ho buone le mani e forte ancora sono. Ma dovrei essere
condotto perché il leone mi ha levato gli occhi” dice un giovane bruno, alto e
forte.
“Ti aiuto io a camminare, o Decimo” risponde un giovinetto poco ferito, uno 
dei più illesi.
“E io e mio fratello ti aiuteremo a portare Cleto” dicono due robusti 
uomini nel fior della virilità, anche essi poco feriti.
“Dio vi compensi tutti” dice il vecchio prete sventrato mentre lo trasportano
con precauzione. E deposto che è presso la martire prega su di lei, e
agonizzante come è trova ancora il modo di raccomandare l’anima 
ad un uomo che, scarnificato nelle gambe, muore di dissanguamento al 
suo fianco. E chiede a quello cieco che lo ha portato se non sa nulla di Quirino.
“È morto al mio fianco. La pantera gli ha aperto la gola per il primo”.


“Le belve fanno presto all’inizio. Poi sono sazie e giuocano soltanto” dice un
giovinetto che si dissangua lentamente poco lontano.
“Troppi cristiani per troppo poche belve” commenta un vecchio che si zaffa 
con un cencio la ferita che gli ha aperto il costato senza ledergli il cuore.
“Lo fanno apposta. Per godere poi di un nuovo spettacolo. Certo lo stanno
ideando ora...” osserva un uomo che sorregge con la destra l’avambraccio
sinistro quasi staccato da una zannata di belva.

Un brivido scuote i cristiani.
La giovinetta Cristina geme: “I serpenti no! È troppo orrore!”.
“È vero. Esso ha strisciato su me leccandomi il viso con la lingua viscida...
Oh! Ho preferito il colpo d’artiglio che mi ha aperto il petto ma che ha ucciso
il serpente, al gelo dello stesso. Oh!” e una donna si porta le mani vacillanti
e insanguinate al volto.
“Eppure tu sei vecchia. Il serpente era serbato alle vergini”.
“Hanno satireggiato sui nostri misteri. Prima Eva sedotta dal serpente, poi i
primi giorni del mondo: tutti gli animali”.
“Già. La pantomima del Paradiso terrestre... Il direttore del Circo è stato
premiato per essa” dice un giovane.

“I serpenti, dopo averne stritolate molte, si sono gettati su noi finché
aprirono alle belve e fu il combattimento”.
“Ci hanno cosparse di quell’olio e i serpenti ci hanno sfuggite come preda di
cibo... Che sarà ora di noi? Io penso alla nudità...” geme una poco più che
fanciulla.
“Aiutami, Signore! Il mio cuore vacilla...”.
“Io confido in Lui...”.
“Io vorrei che Severo venisse, per il bambino...”.
“È vivo tuo figlio?” chiede una madre molto giovane che piange su ciò che 
era il figlio suo e che ora non è che un pugnello informe di carne: un 
piccolo tronco, solo tronco, senza testa, senza membra.
“È vivo e senza ferite. Me lo sono messo dietro la schiena. La belva ha
squarciato me. E il tuo?”.
“Il suo piccolo capo dai ricci leggeri, i suoi occhietti di cielo, le sue
piccole guance, le manine di fiore, i piedini che imparavano appena 
a camminare sono ora nel ventre di una leonessa... Ah! che era 
femmina e certo sa cosa è essere madre e non seppe avere pietà di me!…”.

“Voglio la mamma! La mamma voglio! È rimasta col padre là per terra... 
E io ho male. La mamma mi farebbe guarire la pancina!...” piange un 
bambino di sei, sette anni, al quale un morso o una zampata ha 
aperto nettamente la parete addominale, e agonizza rapidamente.
“Ora andrai dalla mamma. Ti ci porteranno gli angeli del cielo tuoi fratellini,
piccolo Lino. Non piangere così...” lo conforta una giovane sedendosi al suo
fianco e carezzandolo con la mano meno ferita. Ma il bambino soffre sul duro
pavimento e trema, e la giovane, aiutata da un uomo, se lo prende sui ginocchi 
lo sorregge e ninna così.


“Vostro padre dove è?” chiede Cleto ai due fratelli che lo hanno portato 
insieme all’accecato.
“È divenuto cibo del leone. Sotto i nostri occhi. Mentre già la belva gli
mordeva la nuca disse: ‘Perseverate’. Non disse di più perché ebbe la testa
staccata...”.
“Ora parla dal Cielo. Beato Crispiniano!”.
“Beati fratelli! Pregate per noi”.
“Per l’ultima lotta!”.
“Per l’ultima perseveranza”.
“Per amor di fratelli”.

Non temete. Essi, perfetti già nell’amore, tanto che il Signore li 
volle nel primo martirio, sono ora perfettissimi perché viventi nel 
Cielo, e del Signore altissimo conoscono e riflettono la Perfezione. 
Le spoglie loro, che abbiamo lasciate sull’arena, sono solamente 
spoglie. Come le vesti che ci hanno levate.
Ma essi sono in Cielo. Le spoglie sono inerti. Ma essi vivi sono. 
Vivi e attivi.
Essi sono con noi. Non temete. Non abbiate preoccupazione per 
come morrete. Gesù lo ha detto: ‘Non preoccupatevi delle cose 
della terra. Il Padre vostro sa di che avete bisogno’. Sa la vostra 
volontà e la vostra resistenza. Tutto sa e vi sovverrà. Ancora 
un poco di pazienza, o fratelli. E poi è la pace. Il Cielo si 
conquista con la pazienza e con la violenza. Pazienza nel dolore. 
Violenza verso le nostre paure d’uomini. Stroncatele. È l’insidia 
del Nemico infernale per strapparvi alla Vita del Cielo. Respingete 
le paure. Aprite il cuore alla confidenza assoluta. Dite: ‘Il Padre 
nostro che è nei Cieli ci darà il nostro pane quotidiano di fortezza 
perché sa che noi vogliamo il suo Regno e moriamo per esso 
perdonando ai nostri nemici’
No. Ho detto una parola di peccato. Non ci sono nemici per i 
cristiani. Chi ci tortura è nostro amico come chi ci ama.
Ci è anzi duplice amico. Perché ci serve sulla terra a testimoniare 
la nostra fede, e ci veste della veste nuziale per il banchetto eterno. 
Preghiamo per i nostri amici. Per questi nostri amici che non sanno 
quanto li amiamo. Oh! veramente in questo momento noi siamo 
simili a Cristo perché amiamo il nostro prossimo sino a morire 
per esso. Noi amiamo. Oh! parola! Noi abbiamo imparato ciò che è 
essere dèi. Perché l’Amore è Dio, e chi ama è simile a Dio, è 
veramente figlio di Dio. Noi amiamo evangelicamente non 
coloro dai quali attendiamo gioie e compensi, ma coloro che ci 
percuotono e ci spogliano anche della vita. Noi amiamo col 
Cristo dicendo: ‘Padre, perdonali perché non sanno ciò che fanno’
Noi col Cristo diciamo: ‘È giusto che si compia il sacrificio 
perché siamo venuti per compierlo e vogliamo che si compia’. 
Noi col Cristo diciamo ai superstiti: ‘Ora voi siete addolorati. 
Ma il vostro dolore si muterà in gaudio quando ci saprete in 
Cielo. Noi vi porteremo dal Cielo la pace in cui saremo’
Noi col Cristo diciamo: ‘Quando ce ne saremo andati manderemo 
il Paraclito a compiere i suoi misteriosi lavori nei cuori di quelli 
che non ci hanno capito e che ci hanno perseguitato perché 
non ci hanno capito’. Noi col Cristo non agli uomini ma al Padre 
affidiamo lo spirito perché lo sostenga col suo amore nella 
nuova prova. Amen”. Il vecchio Cleto, sventrato, morente, ha parlato 
con una voce così forte e sicura che un sano non avrebbe tale. Ed ha trasfuso 
il suo spirito eroico in tutti. Tanto che un canto dolce si leva da quelle 
creature straziate...


“Dove è mia moglie?” interroga una voce dal corridoio interrompendo il canto.
Severo! Sposo mio! Il bambino è vivo! Te l’ho salvato! Ma a tempo giungi...
perché io muoio. Prendi, prendi Marcellino nostro!”.
L’uomo si fa avanti, si curva, abbraccia la sposa morente, raccoglie il bambino
dalla mano tremante di lei e le due bocche, che si sono santamente amate, si
uniscono un’ultima volta in un unico bacio deposto sulla testolina innocente.
Cleto... Benedici... Muoio...”. Sembra che la donna abbia proprio trattenuto la
vita sino all’arrivo dello sposo. Ora si abbatte in un rantolo fra le braccia
del marito al quale sussurra: “Va’, va’... per il bambino... a Puden...”. La
morte le tronca la parola...
“Pace ad Anicia” dice Cleto.
“Pace!” rispondono tutti.
Il marito la contempla stesa ai suoi piedi, svenata, squarciata... Delle lacrime
gli cadono dagli occhi sul viso della morta. Poi dice: “Ricordati di me, o mia
sposa fedele!...”. Si volge al vecchio suocero: “La porterò nella vigna di Tito.
Caio e Sostenuto sono qui fuori con la barella”.

“Vi fanno passare?”.
“Sì. Chi ha ancora parenti fra i vivi avrà sepoltura...”.
“Col denaro?”.
“Col denaro... e anche senza. Ognuno che vuole può venire a raccogliere i 
morti  e a salutare i vivi. Sperano così che la vista dei martiri indebolisca quelli
che ancor liberi sono e li persuada a non farsi cristiani, e sperano che le
nostre parole... indeboliscano voi. Chi non ha parenti andrà al carnaio... Ma i
nostri diaconi nella notte ricercheranno i resti...”.

“Si prepara forse il nuovo martirio?”.
“Sì. Per questo fanno passare i parenti e anche per questo nella notte i martiri
verranno sepolti. Essi saranno occupati nello spettacolo...”.
“Così a tarda ora? Che spettacolo mai nella notte?”.
“Sì. Quale spettacolo?”.
“Il rogo. Quando sarà notte piena...”.
“Il rogo!... Oh!...”...
“A coloro che sperano nel Signore le fiamme saranno come la dolce rugiada
dell’aurora. Ricordate i giovinetti di cui parla Daniele (Daniele 3, 19-90). Essi andarono cantando fra le fiamme. La fiamma è bella! Purifica e veste di luce. Non le immonde belve. Non i lubrici serpenti. Non gli impudichi sguardi sui corpi delle vergini. La fiamma! Se resto di peccato è in noi, ci sia la fiamma del rogo simile al fuoco del Purgatorio. Breve purgatorio e poi, vestiti di luce, andiamo a Dio. A Dio: Luce, noi andremo! Fortificate i vostri cuori. Volevano essere luce al mondo pagano. I fuochi del rogo siano il principio della luce che noi daremo a questo mondo delle tenebre” dice ancora Cleto.

Dei passi pesanti, ferrati, nel corridoio. “Decimo, sei vivo ancora?” chiedono
due soldati apparendo nella stanza.
“Sì, compagni. Vivo. E per parlarvi di Dio. Venite. Perché io non posso venire a
voi, perché non vedrò mai più la luce”.
“Infelice’’ dicono i due.
“No. Felice. Io sono felice. Non vedo più le brutture del mondo. Entrando dalle
mie pupille le lusinghe della carne e dell’oro non mi potranno più tentare.
Nelle tenebre della cecità temporanea io vedo già la Luce. Dio vedo!...”.
“Ma non sai che fra poco sarai arso? Non sai che perché ti amiamo avevamo
chiesto di vederti, per farti fuggire se vivo eri ancora?”.
“Fuggire? Così mi odiate da volermi levare il Cielo? Non eravate così nelle
mille battaglie che sostenemmo fianco a fianco per l’Imperatore. Allora a
vicenda ci spronavamo ad essere eroi. Ed ora voi, mentre io mi batto per un
Imperatore eterno, immenso nella sua Potenza, mi consigliate alla viltà? Il
rogo? E non sarei morto volentieri fra le fiamme, durante gli assalti ad una
città nemica, pur di servire l’imperatore e Roma: un uomo mio pari, ed una 
città che oggi è e domani non è più? Ed ora che do l’assalto al Nemico più vero 
per servire Dio e la Città eterna dove regnerò col mio Signore, volete 
che io tema le fiamme?”.
I due soldati si guardano sbalorditi.

Cleto parla di nuovo: “Il martire è l’unico eroe. Il suo eroismo è eterno. Il
suo eroismo è santo. Non nuoce col suo eroismo a nessuno. Non emula gli stoici dagli stoicismi aridi. Non i crudeli dalle violenze inutili e nefande. Non
prende tesori. Non usurpa poteri. Dà. Dà del suo. Le sue ricchezze... Le sue forze... La sua vita... È il generoso che si spoglia di tutto per dare. Imitatelo. Servi supini di un crudele che vi manda a dare morte e a trovare la morte, passate alla Vita, a servire la Vita, a servire Dio. Forseché, caduta l’ebbrezza della battaglia, quando il segnale impone silenzio nel campo, voi avete mai sentito la gioia che sentite essere nel vostro compagno? No. Stanchezza, nostalgia, paura della morte, nausea di sangue e di violenze... Qui... guardate! Qui si muore e si canta. Qui si muore e si sorride. Perché noi non moriremo ma vivremo. Noi non conosciamo la Morte ma la Vita, il Signore Gesù”.

Entrano ancora quei due nerboruti uomini venuti al principio con le torce. Sono
con loro altri due uomini vestiti pomposamente. Le torce fumigano tenute alte
dai due. Gli altri che sono con loro si chinano a guardare i corpi...

“Morto... Anche questo... Costei agonizza... Il fanciullo ghiaccia già... Il
vecchio morrà fra breve... Questa?... Il serpente le ha schiacciato le costole.
Osserva, schiuma rosa è già alle labbra...” si consultano fra loro.
“Io direi... Lasciamoli morire qui”.
“No. Il giuoco è già fissato. Il Circo si riempie nuovamente...”.
“Gli altri delle carceri basterebbero”.
“Troppo pochi! Procolo non ha saputo regolare le masse. Troppi ai leoni. 
Troppo pochi per i roghi...”.
“Così è... Che fare?”.
“Attendi”. Uno si porta in mezzo alla stanza e dice: “Chi di voi è meno ferito
sorga in piedi”.
Si alzano una ventina di persone.
“Potete camminare? Reggervi in piedi?”.
“Lo possiamo”.
“Tu sei cieco” dicono a Decimo.
“Posso essere guidato. Non mi private del rogo, poiché penso che a questo
pensate” dice Decimo.
“A questo. E vuoi il rogo?”.
“Lo chiedo in grazia. Sono un soldato fedele. Guardate le cicatrici delle mie
membra. Per premio del mio lungo fedele servizio all’Imperatore, datemi il
rogo”.
“Se tanto ami l’Imperatore, perché lo tradisci?”.
“Non tradisco né l’Imperatore né l’Impero, perché non faccio atti contro la loro
salute. Ma servo il Dio vero che è l’Uomo Dio e l’Unico degno di essere servito
sino alla morte”.
“O Cassiano, con simili cuori i tormenti sono vani. Io te lo dico. Non facciamo
che coprirci di crudeltà senza scopo...” dice un intendente del Circo al
compagno.
“È forse vero. Ma il divo Cesare...”.
“E lascia andare! Voi che camminate, uscite di qui! Attendeteci presso le
uscite. Vi daremo delle vesti nuove”.
I martiri salutano quelli che restano. Un giovinetto si inginocchia per essere
benedetto dalla madre. Una fanciulla col suo sangue appone una crocetta 
come fosse un crisma sulla fronte della madre che la lascia per salire al rogo.
Decimo abbraccia i due commilitoni. Un vecchio bacia la figlia morente e si
avvia sicuro. Tutti prima di uscire si fanno benedire dal prete Cleto... I passi
dei morituri si allontanano nel corridoio.
“Voi rimanete ancora qui?” chiedono gli intendenti ai due soldati.
“Sì. Rimaniamo”.
“Per qual motivo? È... pericoloso. Costoro corrompono i fedeli cittadini”.
I due soldati scrollano le spalle.

Gli intendenti se ne vanno mentre entrano dei fossori con delle barelle per
portare via i morti. Vi è un poco di confusione perché con i fossori sono anche
i parenti dei morti e dei morenti e vi sono lacrime o addii fra questi e i
malvivi. I due soldati ne approfittano per dire a un fanciullo: “Fingiti morto.
Ti porteremo in salvo”.
Tradireste voi l’imperatore mettendovi in salvo mentre egli ha fiducia in voi
per la sua gloria?”.
“No certo, fanciullo”.
E neppure io tradisco il mio Dio che è morto per me sulla Croce”.
I due soldati, letteralmente sbalorditi, si chiedono: “Ma chi dà loro tanta
forza?”. E poi, col gomito appoggiato alla muraglia, a sostenere il capo,
restano meditabondi osservando.

Tornano gli intendenti con schiavi e con barelle. Dicono: “Siete ancora pochi
per il rogo. I meno feriti si siedano almeno”.
I meno feriti!... Chi più chi meno sono tutti agonizzanti. E non possono sedersi più. 
Ma le voci pregano: “Io! Io! Purché mi portiate…”.

Vengono scelti altri 11...
“Voi beati! Prega per me, Maria! A Dio, Placido! Ricordati di me, o madre!
Figlio mio, chiama l’anima mia presto! Sposo mio, ti sia dolce il morire!...”. I
saluti si incrociano...
Le barelle vengono portate via.

“Sorreggiamo i martiri col nostro pregare. Offriamo il duplice dolore delle
membra e del cuore che si vede escluso dal martirio per essi. Padre nostro...”.
Cleto, che è paurosamente livido ed è morente, raccoglie le forze per dire il
Pater.

Entra uno trafelato. Vede i due soldati. Arretra. Rattiene il grido che aveva
già sulle labbra.
“Puoi parlare, uomo. Non ti tradiremo. Noi, soldati di Roma, chiediamo di 
essere soldati di Cristo”.
“Il sangue dei martiri feconda le zolle!” esclama Cleto. E rivolto al
sopraggiunto chiede: “Hai i misteri?”.
“Sì. Ho potuto darli agli altri un momento prima che fossero portati nell’arena.
Ecco! “.
I soldati guardano stupiti la borsa di porpora che l’uomo si leva dal seno.
“Soldati. Voi ci chiedete dove noi troviamo la forza. Ecco la forza! Questo è il
Pane dei forti. Questo è Dio che entra a vivere in noi. Questo...”.
“Presto! Presto, o padre! Io muoio... Gesù... e morirò felice! Vergine, martire
e felice!” grida Cristina ansante negli spasimi della soffocazione.

Cleto si affretta a spezzare il pane e a darlo alla giovinetta che si raccoglie
quieta chiudendo gli occhi.
“Anche a me... e poi... chiamate i servi del Circo. Io voglio morire sul
rogo...” gorgoglia un fanciullo dalle spalle dilaniate e dalla guancia aperta
dalla tempia alla gola che sanguina.
“Puoi inghiottire?”.
“Posso! Posso. Non mi sono mai mosso né ho mai parlato per non morire... 
prima della Eucarestia. Speravo... Ora...”.
Il prete gli dà una mollichina del Pane consacrato. E il fanciullo cerca di
inghiottire. Ma non riesce. Un soldato si china impietosito e gli sorregge il
capo mentre l’altro, trovata in un angolo un’anfora con ancora un sorso d’acqua 
nel fondo, cerca di aiutarlo ad inghiottire versandogli l’acqua stilla a stilla fra 
le labbra.
Intanto Cleto spezza le Specie e le dà ai più vicini. Poi prega i soldati di
trasportarlo per distribuire ai morenti l’Eucarestia. Poi si fa ricondurre dove
era e dice: “Il nostro Signore Gesù Cristo vi ricompensi per la 
vostra pietà”.

Il fanciullino che stentava a inghiottire le Specie ha un breve affanno, si
dibatte... Un soldato impietosito lo prende fra le braccia. Ma mentre lo fa, un
fiotto di sangue sgorga dalla ferita del collo e bagna la lorica lucente.
“Mamma! Il Cielo... Signore... Gesù...”. Il corpicino si abbandona.
“È morto... Sorride...”.
“Pace al piccolo Fabio!” dice Cleto che impallidisce sempre più.
“Pace!” sospirano i morenti.

I due soldati parlano fra loro. Poi uno dice: “Sacerdote del Dio vero, termina
la tua vita mettendoci nella tua milizia”.
“Non mia... Di Cristo Gesù... Ma... non si può... Prima... bisogna essere
catecumeni...”.
“No. Sappiamo che in caso di morte viene dato il battesimo”.
“Voi siete... sani...”. Il vecchio ansa...
“Noi siamo morenti perché... Con un Dio quale è il vostro che vi fa tanto santi,
a che restare a servire un uomo corrotto? Noi vogliamo la gloria di Dio.
Battezzaci: io Fabio, come il piccolo martire; e il mio compagno Decimo 
come il nostro glorioso commilitone. E poi voleremo al rogo. A che vale la vita del
mondo quando si è compresa la Vita vostra?”.
Non c’è più acqua... nessun liquido... Cleto fa giumella della sua tremula mano, 
raccoglie il sangue che goccia dalla sua atroce ferita: 

“Inginocchiatevi... Io ti battezzo, o Fabio, nel nome del Padre, del 

Figlio, dello Spirito Santo... Io ti battezzo, o Decimo, nel nome 
del... Padre... del Figlio... dello Spirito... Santo... Il Signore sia con 
voi per la Vita... eterna...Amen!...”.

Il vecchio sacerdote ha finito la sua missione, la sua sofferenza, la sua vita... 
È morto...
I due soldati lo guardano... Guardano per qualche tempo quelli che muoiono
lentamente, sereni... sorridenti fra le agonie, rapiti nell’estasi eucaristica.
“Vieni, Fabio. Non attendiamo un attimo ancora. Con simili esempi è sicura la
via! Andiamo a morire per il Cristo!”. E rapidi corrono via per il corridoio
incontro al martirio e alla gloria.

Nel locale i gemiti si fanno sempre più lievi e più pochi... Dal Circo torna il
fragore che era all’inizio. La folla torna a rumoreggiare in attesa dello
spettacolo.