“MA POSSIBILE CHE UN VESCOVO POSSA ESSERE SANTO E AL CONTEMPO NON ORTODOSSO?”
Scrive il padre A. M. Apollonio, in un articolo intitolato: Tonino Bello, la mariologia feriale, e l’ermeneutica della discontinuità:
Nel recentissimo numero di Civiltà Cattolica, 3 ott. 2009, pp. 91-92 si recensiscono ben 4 volumi che presentano la figura di mons. Tonino Bello (1935-1993), Vescovo di Molfetta: due di questi libri parlano di lui, e negli altri due è lui che parla, essendone l’autore. Nella benevola seppur rapida recensione, s’accenna alla sua Mariologia e al fatto che nel 2007 è stato avviato il suo processo di beatificazione. Ora, senza voler entrare in merito alla sua personale santità, vorrei mettere in luce il carattere fuorviante, certamente non esemplare, della sua Mariologia.
La cosa appare contraddittoria: è mai possibile che un Vescovo possa essere ad un tempo santo e non perfettamente ortodosso? Rispondo: ciò sarebbe eccezionalmente possibile solo laddove l’eterodossia s’annidi in una coscienza oscurata da ignoranza soggettivamente invincibile. E questo non è contraddittorio, benché sembri impossibile.
A ben guardare, però, non è nemmeno assolutamente impossibile: nulla è impossibile a Dio, nel bene e, nel male morale, nulla è impossibile all’insipienza umana. E di questa insipienza, nel periodo post conciliare ce n’è stata talmente tanta, da rimanere facilmente coinvolti in una sorta di tragico errore comune, definito da Benedetto XVI “ermeneutica della discontinuità”.
Di questa ermeneutica sbagliata sarebbe rimasto vittima inconsapevole, lo supponiamo, mons. Bello, la cui Mariologia potrebbe tutta riassumersi in questo principio di rottura:prima del concilio la Madonna era vista vicina a Cristo, nella luce della santità divina, ora invece la guardiamo alla luce di questo mondo segnato dal peccato.
Diamo un’occhiata solo ad alcune sue idee mariologiche. Da “Maria donna dei nostri giorni” (supplemento di Jesus, ed. San Paolo, maggio 1993), leggiamo le seguenti affermazioni, che mons. Bello era solito ripetere ai giovani, con il suo pathos travolgente:
«Anche Maria ha sperimentato quella stagione splendida dell’esistenza, fatta di stupori e di lacrime, di trasalimenti e di dubbi, di tenerezza e di trepidazione, in cui, come in una coppa di cristallo, sembrano distillarsi tutti i profumi dell’universo. Ha sperimentato pure lei la gioia degli incontri, l’attesa delle feste, gli slanci dell’amicizia, l’ebbrezza della danza, le innocenti lusinghe per un complimento, la felicità per un abito nuovo» (p. 21).
«Una sera, un ragazzo di nome Giuseppe prese il coraggio a due mani e le dichiarò: “Maria, ti amo”. E lei rispose veloce come un brivido: “Anch’io”… Le compagne… non riuscivano a spiegarsi come facesse a comporre i suoi rapimenti in Dio e la sua passione per una creatura… Poi la sera rimanevano stupite quando, raccontandosi a vicenda le loro pene d’amore sotto il plenilunio, la sentivano parlare del suo fidanzato con le cadenze del Cantico dei Cantici…» (p. 22).
«Santa Maria, donna innamorata.., facci capire che l’amore è sempre santo, perché le sue vampe partono dall’unico incendio di Dio» (p. 23).
COMMENTO
L’errore di fondo è quello della svolta antropologica in Mariologia, che per mons. Bello significa pensare all’adolescenza di Maria secondo il cliché dell’innamoramento giovanile, così come avviene di fatto nella maggior parte dei ragazzi, senza la minima considerazione del deleterio apporto derivante dalla concupiscenza, che tutto intorbidisce in noi, ma che era del tutto assente in Lei.
Quali dubbi di fede poteva mai avere «Colei che non dubitò, ma credette» (SANT’AMBROGIO, Comm. a Lc, 1; cf. SAN Pio X, Ad diem illum)?
Quali trasalimenti, quale ebbrezza della danza, quali lusinghe, quali passioni poteva avere la Tuttasanta (Padri), “l’umile serva del Signore” (cf. Lc 1), che «non conosceva uomo» (cf. Lc 1), perché non voleva conoscerlo, per il suo voto di perpetua verginità ispiratole da Dio sin dalla giovinezza (Duns Scoto, San Tommaso, Giovanni Paolo II)? Quale esperienza poteva avere l’Immacolata di tutte queste cose macchiate dalla concupiscenza, in noi, e che non potevano trovarsi in Lei, immune da ogni disordine derivante dal peccato originale? Sembra che mons. Bello non distingua abbastanza – contro tutta la tradizione patristica e contro il costante magistero della Chiesa – l’amore verginale e santo dell’Immacolata verso san Giuseppe, dall’amore concupiscente delle creature macchiate dalle conseguenze del peccato originale. Dire, poi, soprattutto in questo contesto d’innamoramenti giovanili, che «l’amore è sempre santo», suona proprio un’eresia, perché anche l’impurità è un amore, «l’amor di sé fino al disprezzo di Dio» (sant’Agostino).
Proporre ai giovani una spiritualità del genere, significa divinizzare i loro turbamenti giovanili e spianare la strada per lo sfrenamento della loro lussuria, che è anche un genere di amore. L’Autore usa costantemente un linguaggio ambiguo. Parla di esperienze affettive e sentimentali, che normalmente nei giovani sono – a dir poco – il preludio della passione, impura, attribuendole alla Madonna che è la purissima sempre vergine. E la mistica della sensualità giovanile, di cui la Madonna viene ad essere, più che il modello, la “modella”. Roba da telenovela, una profanazione!
Continua ancora su questa falsa riga il Vescovo di Molfetta:
«Maria, comunque, doveva essere bellissima. Non parlo solo della sua anima… Parlo, anche, del suo corpo di donna» (p. 108). «Vogliamo immaginarla adolescente, mentre nei meriggi d’estate risale dalla spiaggia, in bermuda, bruna di sole e di bellezza» (p. 116).
Proporre la Madonna in questi termini, sopratutto ai giovani, significa ignorare che sono già sazi e nauseati di estetica, di corpi, di “bermuda”, di spiagge, di abbronzature… Hanno sete di Dio, non di queste cose, che gli escono ormai dagli occhi e dagli orecchi. Il mondo li bombarda continuamente con questa “spazzatura” (san Paolo). Non occorre che ci si metta pure un Vescovo. Proporre la Madonna in questi termini sembra l’istigazione ad un’ immaginazione pervertita, che tutto comprende sub specie libidinis, anche ciò che di più puro e più santo vi è in assoluto. Chi mai si consacrerebbe a Dio, nella totale verginità di corpo e spirito, se anche Maria, il paradigma della santità, si trascinasse verso le vanità di questo mondo?
Bisognerebbe dire ancora molte cose, ma non è questo il luogo né il momento adatto. Bastino queste “chicche” per comprendere la gravità della situazione. Se la dottrina di un Vescovo dovrebbe esser per sé ineccepibile, essendo “maestro della fede”, la dottrina di un Vescovo canonizzato dovrebbe esserlo doppiamente, visto che la Chiesa lo addita universalmente come modello esemplare da seguire. Proprio quest’ortodossia esemplare manca, a nostro avviso, al Nostro. Da qui la domanda: ammesso che don Tonino (così si faceva chiamare anche da Vescovo) sia davvero già nella gloria dei Santi in Paradiso, a che giova inserirlo anche nella gloria del Bernini sulla terra?
Testo tratto da: Immaculata Mediatrix, IX (3 – 2009), pp. 296-298.
Così in questo tagliente articolo, tanto tagliente quanto saturo di realismo cristiano, conclude il padre Apollonio. Si resta basiti: non da quel che dice il padre, ma da quello che ha osato dire quel vescovo pugliese.
A TONINO NON PIACE LA MADONNA “RETORICA E MAGNILOQUENTE”
A questa ampia e chiarissima introduzione, vorrei aggiungere altri passi che dal libro indicato, Maria donna dei nostri giorni, non possono che allertare il nostro “sensum fidei” nei confronti dell’identità di Maria Santissima e non certo per farne una dea o una divinità… ma santo cielo!… il dogma dell’Immacolata e il fatto che Maria fosse Immacolata fin dal concepimento, significherà pur qualcosa o no?
Dice san Paolo agli Efesini (1,4), che Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità; ma mentre noi tali dobbiamo diventarlo, Maria, ne è stata preservata; non è certo una icona immobile, ma piuttosto è proprio l’identità viva, il progetto riuscito di Dio, di questo essere “immacolati e santi”.
Mons. Bello, in quel libro (pag.14) spiega la “sua” Maria, che sarebbe una donna “senza retorica”, e sottolinea che Ella, la Madonna, “senza retorica, prega per noi inguaribilmente malati di magniloquenza“. Hai capito! Lascia sconcertati, non soltanto perchè il primo afflitto da “magniloquenza” è, paradossalmente, proprio lui, con quel suo fraseggiare ridondante, ma soprattutto perchè usa il termine “magniloquenza” come a dire che usata per descrivere la grandezza della Vergine è una forma di “malattia e di retorica”. Che sarebbe pure come dire cestiniamo il Trattato della vera Devozione a Maria di san Luigi M. Grignon de Montfort, o il suo Segreto di Maria, o magari cestinianoGlorie di Maria di sant’Alfonso M. de Liguori.
E spiega ancora mons. Bello: “Lo so bene: non è una invocazione da mettere nelle Litanie Lauretane. Ma se dovessimo riformulare le nostre preghiere a Maria, in termini laici, il primo appellativo da darle dovrebbe essere questo: donna senza retorica“. Stando a mons. Bello, dunque, le Litanie sarebbe meglio riformularle più laicamente.
Andrebbe fatto notare che, generalmente, lo sviluppo di una dottrina o della stessa fede della Chiesa va avanti e non indietro. Si arricchisce semmai di nuovi elementi, ma non va a sostituire quelli dottrinalmente già ufficialmente acquisiti con altri di nuovo conio. Nella Tradizione orante e viva della Chiesa si aggiunge, non si toglie: così come, per esempio, il beato Giovanni Paolo II alle Litanie Lauretane aggiunse il Regina della Famiglia, senza mai mettere in dubbio i Titoli onorifici già assunti dalla Vergine stessa in secoli di pietà cristiana.
MARIA CHE LITIGA CON SAN GIUSEPPE, “CHE ERA TACITURNO”. “COPPIA” IN CRISI?
Cosa intenderebbe, per altro, mons. Bello col quel riferimento che fa, nel libro, a “termini laici”?
La risposta, che troviamo nelle analisi agli stessi titoli da lui creati nel libro, è in quel suo associare l’immagine della Vergine Maria ad una donna del nostro tempo, immischiata nelle vicende del mondo in termini laici, e con un fare naturalmente laico… in Maria (come spiega a pag.11), “donna feriale”, e dove aggiunge: “Come tutte le mogli avrà avuto anche lei momenti di crisi nel rapporto con suo marito, del quale, taciturno com’era, non sempre avrà capito i silenzi…“
Diciamo subito che san Giuseppe ne esce maluccio! Ma quanto all’incomprensione, la risposta la troviamo in Luca, quando entrambi si accorsero che Gesù non era con loro, si spaventarono. Ritrovatolo, nel vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi “non compresero” le sue parole.
Partì dunque con loro e tornò a Nazareth e stando loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
Perché allora inventare una immagine falsata di Maria e Giuseppe quando una risposta ce l’abbiamo nel Vangelo? Dove, dunque, i Vangeli lasciano intravvedere “momenti di crisi con Giuseppe”? Leggeremo poi al termine di queste riflessioni cosa ne pensa san Bernardo di Chiaravalle.
Ora, pur volendo lasciare a mons. Bello la poetica visione di una Famiglia di Nazareth comune, assimilata a tutte le famiglie di questo mondo, come di fatto lo era, perchéinsinuare il dubbio sul rapporto fra Maria e Giuseppe e affiancarlo alle gravi crisi fra i coniugi di oggi, dal momento che, Maria e Giuseppe, nulla hanno a che vedere con le motivazioni per le quali entrano in crisi i coniugi post-moderni? Le principali ragioni di crisi del matrimonio, della famiglia, dei coniugi, infatti provengono dai tradimenti, dalle infedeltà, dall’incapacità di mantenere fede ad una promessa data, dal non conoscere che cosa è amare e cosa è l’amore, dall’inseguire le mode del tempo, dall’allontanarsi da Dio, dal non pregare più in famiglia.
QUELLA SUA MARIA “CASALINGA” CONTRAPPOSTA A QUELLA “TEOLOGICA”
Un pò difficile pensare la Famiglia di Nazareth in “momenti di crisi” simili; mentre diverso è portare la Santa Famiglia nel nostro doloroso tempo quale modello, e i due Santi Genitori ci richiamano invece alla realtà ed alla verità coniugale, condividendone senza dubbio le battaglie e le lotte, ma mai assecondando la confusione di questi tempi e mai giustificandone gli errori e i peccati.
Su questa Maria “donna feriale”, il Bello conclude con questa preghiera a pag.13:
“…aiutaci a comprendere che il capitolo più fecondo della teologia non è quello che ti pone all’interno della Bibbia e della patristica, della spiritualità o della liturgia, dei dogmi….Ma è quello che ti colloca all’interno della Casa di Nazareth dove, tra pentole e telai, tra lacrime e preghiere, tra gomitoli di lana e rotoli della Scrittura, hai sperimentato, in tutto lo spessore della tua antieroica femminilità, gioie senza malizia, amarezze senza disperazioni, partenze senza ritorni“.
A parte la bellezza poetica che nessuno discute (e che, ammettiamolo, in modo inquietante ricalca l’arte retorica di Nichi Vendola), ci viene spontanea una domanda: ma perché contrapporre quel capitolo teologico che La preleva dall’interno della Bibbia, dalla patristica, La segue nella spiritualità e nella liturgia, La insegna nei dogmi, con fare negativo, quasi fosse estraneo a quel Suo essere invece all’interno della Casa di Nazareth con tutte le preoccupazioni del suo tempo?
I due capitoli non sono forse un unico capitolo della vita e dell’identità stessa di Maria Santissima? E non si corre il rischio di togliere qualcosa alla sua identità invocando una Madonna esclusivamente nel capitolo proposto da mons. Bello?
IL MAGNIFICAT “È IL CANTO DELLA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE”
“Tu che nella casa di Elisabetta pronunciasti il più bel canto della teologia della liberazione, ispiraci l’audacia dei profeti.”Ma la ciliegina sulla torta la troviamo in “Maria, donna missionaria” alle pagg. 35-38, dove nella conclusione leggiamo:
Il Magnificat è dunque un canto della “teologia della liberazione”. Si, senza dubbio è una teologia della liberazione, ma in quali termini? E perché usare un termine del quale ben sappiamo la condanna che l’allora cardinale Ratzinger, Prefetto dell’Ortodossia, per volontà del pontefice sottoscrisse con un documento ufficiale?
La preghiera invocazione di mons. Bello, in queste tre pagine, è un continuo rimprovero alla Chiesa che, secondo Bello, non sarebbe affatto sulla stessa scia missionaria della Vergine Maria, ecco alcune espressioni:
- la Chiesa si attarda all’interno delle sue tende dove non giunge il grido dei poveri;
- la Chiesa si adagia sulle posizioni raggiunte, scuotila (…) nomade come te, mettile nel cuore una grande passione per l’uomo…
Preghiere del genere sono sempre auspicabili, intendiamoci, ma perché presentare sempre la Chiesa come una sorta di peccatrice, meretrice, adultera e mai come quella che professiamo nel Credo: santa? La prima passione che dovremmo avere non dovrebbe essere “ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente; ama il prossimo tuo come te stesso”?
Si ha come la sensazione che mons. Bello abbia dimenticato TUTTA la storia della Chiesa bimillenaria e si sia concentrato esclusivamente su una faccia della medaglia, quella degli uomini che rendono senza dubbio opaca la santità di questa Sposa. Ancora una volta si associa la Chiesa in quanto tale (ossia santa e fedele nella sua dottrina, nei dogmi, nella liturgia, nei sacramenti, nella stessa mariologia, insomma complessivamente nella sua Tradizione) a chi, abitando nella Chiesa, piuttosto tradisce, invece che rispettarli, tali elementi di santità. Ancora una volta, si confendono le due nature della Chiesa: quella umana e quella soprannaturale; la sua Persona col suo personale.
UNA MARIOLOGIA LAICA
Nel riflettere su questa situazione veramente spiacevole e che non può non metterci a disagio perché resta assai palese e forte l’affetto filiale che Bello nutriva per la Vergine Maria, mi viene in mente che fra i primi beatificati del suo pontificato, Benedetto XVI ne ha proclamato uno, padre Charles de Foucauld. Il quale insegnava questa regola di vita: “Per formare dei discepoli non basta il fascino, non è sufficiente un carisma, ci vuole una dottrina”.Ci appare questo monito, molto eloquente per spiegare l’ambiguità delle riflessioni, seppur poetiche, di mons. Bello sulla Vergine Maria! In tali riflessioni manca sovente un insegnamento dottrinale univoco, anzi, delle volte notiamo un superamento dottrinale, un indirizzo assai pericoloso ed ambiguo nello spingere il fedele a vivere una mariologia “laica”, come se la mariologia ecclesiale della Tradizione fosse d’impedimento all’autentica comprensione di Maria e del ruolo della Famiglia di Nazareth.
E’ senza dubbio vero che senza estrapolare i vari passi da tutto il contesto del pensiero mariano di mons. Bello non vi troveremo affatto una eresia conclamata, ma qui sta forse l’inganno più grande: apparentemente non vi è eresia, però ciò che si avanza è, alla fine, una nuova dottrina in rottura con la mariologia della Tradizione. Ed è difficile restare a guardare e tacere di fronte alle mille domande che certe frasi impongono sia alla fede genuina della Chiesa sia alla ragione dell’intelletto di chi legge e vorrebbe meditare ponendosi non queste, ma altre domande su se stessi, sulla personale inclinazione, già facile di questi tempi, ad abbandonare la sana dottrina per rincorrere nuove immagini, nuove dottrine, “nuovi pruriti” come li definisce san Paolo.
E L’EUCARESTIA DIVENTÒ SOLO… “PANE”
Così come nelle bellissime, stilisticamente, pagine dedicate a Maria, donna del pane, pagg. 47-50 nelle quali, impeccabilmente, mons. Bello descrive il corretto e bellissimo accostamento fra “il pane quotidiano” che imploriamo nel Padre Nostro e il pane eucaristico. Tuttavia, in queste pagine la parola Eucaristia non viene mai usata e l’accostamento resta invischiato esclusivamente nel “pane della tavola”, un frammisto che rischia di confondere i fedeli, ancora una volta, su questa tendenza post-conciliare che ha ridotto l’altare dell’eucaristia esclusivamente ad una mensa comune. Se è vero, infatti, come spiega Benedetto XVI nella Sacramentum Caritatis e nel suo Lo Spirito della liturgia, che l’altare si trasforma in mensa eucaristica DOPO il Sacrificio, la tendenza errata, spiega il papa, è quella di trasformare l’altare in una mensa prima ancora del Sacrificio e di ridurre l’eucaristia esclusivamente all’accostamento del pane quotidiano. In questo mondo si è persa la dimensione del Sacrificio, del senso del sacro, e si è elevato il pane quotidiano al di sopra di ogni sacramento, una priorità che non conduce ad alcuna conversione e fa guardare all’eucaristia come ad un simbolo il cui senso si riduce esclusivamente all’attivismo per ottenere pane quotidiano dimenticando la dimensione sacramentale del Pane Eucaristico.
In questi tempi di crisi economica, dove ci sono persone ridotte, non solo retoricamente, alla fame, si tende spesso a nascondere che la Chiesa è ovunque nel mondo a compiere e a vivere la missionarietà del “pane quotidiano”. Perché, allora, continuare a dipingere una Chiesa quasi assente dalle opere di Carità? Ciò che in concreto è preoccupante per il cattolicesimo è che si sta verificando una gravissima crisi liturgica che sminuisce il Pane Eucaristico, laddove, per essere più “buoni” agli occhi del mondo, si finisce per ridurre l’eucaristia esclusivamente all’attivismo sociale, penalizzandola nella sua dimensione sacra e di adorazione.
Questa devastante disassociazione tra la fede e le opere, c’è da dire, proviene direttamente da una mariologia progressista.
E IL CARD.RATZINGER CON DISCREZIONE CORRESSE LA MARIA “CASALINGA” DI BELLO
E’ significativo che al libro di mons. Bello del 1993 segua, nel 1997, quello dell’allora cardinale Ratzinger Maria Chiesa nascente che, leggendo con molta attenzione, appare come una vera e propria correzione all’audace mariologia progressista di mons. Bello. Non a caso Ratzinger inizia e finisce il libro con citazioni bibliche, diversamente da come lo comincia e lo finisce Bello, senza alcuna citazione diretta, ma usando la Bibbia solo come spunto innovativo, quasi di rilettura e re-interpretazione della stessa.
Tanto per fare qualche esempio, a pag. 18, come a rispondere a mons. Bello, scrive Ratzinger:
“Il pensare tipologico dei Padri verrebbe fondamentalmente frainteso, se dovesse ridurre Maria ad una semplice e quindi sostituibile esemplificazione di fatti teologici. Il senso del typos (carattere) resta invece garantito se la Chiesa, tramite la figura singolare e non permutabile di Maria, diviene riconoscibile nella sua fisionomia personale. In teologia non si deve ricondurre la persona alla cosa, ma questa a quella. Una ecclesiologia puramente strutturale fa necessariamente degenerare la Chiesa a programma di azione. (..) A questo punto riconosco la verità nell’affermazione ‘Maria vincitrice di ogni eresia’: dove esiste questo radicamento affettivo ivi vige l’unione ex toto corde, dal profondo del cuore… e diventa impossibile la fusione della cristologia in un programma-Gesù … rivolto all’essere ateistico e del tutto rivolto alle cose materiali…”
A pag. 63, Ratzinger chiarisce la sintesi dell’autentica interpretazione del Magnificat, anche qui come se volesse rispondere all’audacia di mons. Bello, dice:
“Maria ha vissuto così profondamente nella parola dell’Antica Alleanza, che questa è divenuta in modo del tutto spontaneo la sua propria parola. La Bibbia era così pregata e vissuta da Lei, era così ruminata nel Suo cuore, che Ella vedeva nella Parola Divina la sua stessa vita (…) e la Sua parola si era unita a quella di Dio”. E, citando sant’Ambrogio, prosegue Ratzinger: “Magnificare il Signore significa voler far grandi non se stessi, il proprio nome, il proprio io, allargarsi ed esigere spazio, ma dare spazio a Lui, fare grande Lui e il Suo Nome perchè Egli sia sempre e più maggiormente conosciuto nel mondo (…) il Magnificat è un canto che ci dice che è necessario rendersi liberi per Lui, questo è il vero e proprio esodo che i Padri della Chiesa e Massimo il Confessore ci spiegano lungamente”.
E così anche a riguardo dell’incomprensione descritta da mons. Bello e che abbiamo sopra riportato, anche qui Ratzinger sembra rispondere per correggerlo, a pag. 60:
“Ma essi non compresero le sue parole. Anche per il credente le parole di Dio non sono comprensibili sin dal primo momento. Chi esige dal messaggio cristiano l’immediata comprensione banale e mediocre, sbarra la via a Dio! Dove non c’è l’umiltà del mistero accolto, la pazienza che accetta in sè ciò che non si comprende, spiega Ratzinger, là il seme della parola è caduto sulla pietra, non ha trovato la buona terra! Ma se invece lo conserva nel modo migliore, con tutta umiltà e lascia che lentamente, con i tempi di Dio, si apra alla comprensione attraverso la sofferenza di una attesa, senza pretendere delle spiegazioni banali e mediocri, là il seme cade nella terra buona e Maria, infatti, custodisce tutte queste parole nel suo cuore. La parola custodire qui significa attraverso, cioè attraverso Dio stesso, Maria stessa, e di conseguenza questa Parola viene così mantenuta fedelmente e renderà frutto a suo tempo”.
Una piccola curiosità: in tutto il libro di Ratzinger, scritto cinque anni dopo quello di mons. Bello, fra le tante citazioni fatte, nessuna, neppure una proviene dalle nozioni astratte di don Tonino Bello e della “sua” Maria. Non ne traiamo alcuna conclusione, ma documentiamo solo un fatto eloquente.
LA MARIA DELLE “VAMPE” MATRIMONIALI DI DON TONINO, DIMENTICA CHE GIUSEPPE ERA IL “CASTISSIMO SPOSO”
Riguardo al rapporto fra Maria e Giuseppe, che mons. Tonino Bello fa scendere nella quotidianità del nostro tempo attribuendo alla Vergine “momenti di crisi e di sconforto” di coppia, come avviene per molte famiglie di oggi, san Bernardo di Chiaravalle la pensa diversamente. Nella sua Seconda Omelia, spiegando la titubanza di Giuseppe nel prendere Maria con sé, prima del sogno rivelatore, ne descrive la grandezza e l’innamoramento casto che manterrà per tutta la vita che vivrà come membro della Sacra Famiglia.
San Bernardino spiega che Giuseppe, comprendendo bene quanto egli fosse peccatore e quanto fosse santa la giovane Maria, si riteneva indegno di essere chiamato alla guida di questa famiglia e con una Donna di tale grandezza, diventandone lo sposo. La vedeva, spiega san Bernardino, portare in sé la Presenza Divina, e lui aveva timore di non essere all’altezza di proteggerli abbastanza; ma san Giuseppe venerava già la Sposa Immacolata e, fidandosi di Dio che lo aveva chiamato per proteggerla e per proteggere la vita del Divino Fanciullo, si affida egli stesso alla Vergine Sposa ponendosi così da subito a servirla e ad onororala senza mai procurarle dispiaceri.
“Giuseppe – conclude san Bernardino-, era l’uomo giusto, perciò procurati di valutare che grande uomo sia stato tanto da ricevere da Dio il compito di essere Sposo di una Vergine di cui Dio ne fece il proprio Tempio, e lo volle padre putativo del Suo Divin Figlio, e considera anche il significato del suo nome arricchimento che il Signore stesso volle mettere al fianco della Piena di Grazia, e se nella Vergine Maria si compì la promessa, in Giuseppe troviamo il primo discepolo della Beata Madre e il terzo discepolo del Signore: la prima Discepola fu, infatti, la stessa Madre, la seconda santa Elisabetta che lo riconobbe Signore e a Lei Madre del suo Signore, il terzo è san Giuseppe, custode e discepolo di entrambi”.
DISTINGUIAMO LA MARIOLOGIA DELLA TRADIZIONE DALLA MARIOLOGIA PROGRESSISTA
Per concludere queste riflessioni possiamo chiederci: che differenza c’è fra la Mariologia della Tradizione e la mariologia progressista?
A quando abbiamo detto fin qui, quale prova della differenza, possiamo dire che nella Mariologia della Tradizione, l’incontro fra Dio e l’uomo, attraverso l’esempio di Maria, è una reciproca esperienza, una reciproca “penetrazione”, una trasformazione ontologica (ossia trasformazione, discorso dell’essere); avviene una conversione, un moto continuo che sfocia in Dio, un moto che Dio, pur “muovendo ed azionando” per primo, attende da Maria il “sì” della compiutezza, affinché tale moto si attivi, e da questo “sì” dipenderà il sì o il no di tutti gli uomini con tutto ciò che questo comporta.
Nella mariologia progressista, al contrario, pur partendo dal “sì” di Maria, l’incontro fra l’uomo e Dio diventa sentimento e sentimentale, superficiale e mediocre, non chiede all’uomo il massimo dello sforzo, ma il minimo; non chiede necessariamente una conversione, ma una sorta di stabilimento di un “sì-ma” racchiuso nelle capacità esclusivamente umane senza la necessità di dottrine. Insomma, dialogare, discutere, METTERSI SEMPRE AL CENTRO per difendere le proprie opinioni.
La Mariologia della Tradizione non viene citata dai teologi progressisti quale valida dottrina per affrontare le tematiche odierne e gli scritti dei Santi, dei Padri e dei Dottori della Chiesa, vengono re-interpretati a seconda della situazione del momento, del tempo e delle mode non di rado laicissime. In essa vi è una ostinazione all’archeologismo cristiano denunciato da Pio XII, un modo difettoso di ritornare alle radici cancellando però lo sviluppo dottrinale e teologico di certi periodi della Chiesa, specialmente del Medioevo e dei tempi di san Tommaso d’Aquino e dei suoi scritti, preferendo una re-interpretazione della Bibbia libera da vincoli dottrinali e dogmatici. Una mania con tutti i crismi del protestantesimo, insomma.
AMDG et BVM