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sabato 21 marzo 2015

21. Un uomo di luce

Dom Gérard, un uomo di luce

Fr. Étienne O.S.B.
[Il  28 febbraio 2015  si è celebrato il settimo anniversario della morte di Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux. Lo ricordiamo nelle preghiere e lo raccomandiamo a quelle dei lettori. Offriamo di seguito la testimonianza letta da fr. Étienne O.S.B. – uno dei primi monaci a seguire il fondatore nell’avventura monastica di Bédoin e poi di Le Barroux – il 3 marzo 2008, in occasione delle esequie di Dom Gérard. Testo comparso in Reconquête. Revue du Centre Charlier et de Chrétienté-Solidarité, n. 247-248, aprile-maggio 2008, pp. 9-10, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

Tutti quelli che hanno avuto l’occasione d’incontrare Dom Gérard sono rimasti sedotti dalla sua personalità luminosa, in cui dominava la benevolenza e la gioia. Una grande benevolenza verso le persone e una gioia sovrana, che non può venire che da Dio. Aggiungiamo, una meravigliosa libertà d’animo, come un dono del Cielo.
È d’altro canto ciò che mi aveva colpito sin dal mio arrivo a Bédoin, nell’estate 1977. Superando il portone d’ingresso del piccolo priorato, lo rivedo ancora con le braccia aperte ad accogliermi. Ebbi il vivissimo presentimento di essere in presenza di un uomo eccezionale, senza artifici, senza vanità, un uomo di luce e di libertà interiore.

Sì, Dom Gérard sapeva di essere l’erede di una grande tradizione monastica, fonte di civiltà. I punti d’appoggio del suo universo sono delle colonne incrollabili, e attraverso la Regola di san Benedetto e il suo amore per la santa liturgia, si comprendeva che abitavano quest’intelligenza una sapienza antica, una grande filosofia e lo splendore della verità. La fede era per lui una certezza così assoluta come la visione.

Nessuna mediocrità, né verso sé stesso, né verso gli altri: non la sopportava. Esigenze di rigore, di perfezione, di assoluto. Ugualmente, esigenze d’artista. Poiché tutti coloro i quali l’hanno conosciuto sanno che egli era per temperamento un artista, un artista di gran classe, un autentico creatore di eventi, che gioca con il mondo, l’universo, gli uomini e la materia, secondo i doni di Dio, la sua provvidenza e la sua grazia. Come André Charlier, il suo maestro, egli voleva“creare delle condizioni tali per cui l’anima possa fiorire”.

La sua opera, come un monumento sotto i nostri occhi, attesta la forza delle sue intuizioni e del suo genio creatore. Il nostro monastero si eleva nel cielo di Provenza con la sua chiesa abbaziale di grande nobiltà architettonica, la cui purezza e semplicità delle linee la rende degna delle chiese cistercensi. Ogni mattino, attraverso la luce delle finestre, i riflessi del sole vengono come a illuminare questo monumento di preghiere e a dargli tutto il suo significato. Questa sinfonia di luce sui marmi del santuario attorno all’altare, questo arcobaleno all’ora del santo sacrificio della messa, è stato Dom Gérard – artista – a volerlo.
Quest’uomo di desiderio (desiderio desideravi) energico, assoluto, si scontrava talora con le lentezze di questo mondo, con la pesantezza o la pigrizia degli uomini. Volentieri, allora, forzava i tempi e le situazioni, e soprattutto superava gli ostacoli con coraggio, spingendo gli avvenimenti, creando il miracolo al fine di agevolare, se possibile, il trionfo del Regno dei cieli nelle anime.

Gli sono state rimproverate alcune parole, taluni gesti profetici, ma ciò voleva dire dimenticare “che eravamo in tempo di guerra e di legittima difesa”; voleva dire dimenticare che ci sono delle verità essenziali che ogni battezzato ha il dovere di difendere; soprattutto voleva dire dimenticare che ci sono delle situazioni in cui “il credente si deve fare guerriero, obbligatoriamente, e che questa è la prima carità”.

Dom Gérard amava Cristo e la Chiesa; insensati tutti coloro che lo dubitano. Amava le anime e la Francia; tutta la sua vita lo prova. Ha fatto di tutto per ricostruire la cristianità e riconciliare, se possibile, gli uomini fra loro. Ahimè, nel 1988 ha fatto l’esperienza dello scacco e della sofferenza. Nella tempesta che agitava la Chiesa, avrebbe voluto evitare il naufragio di tanti fratelli e amici. Ma “quando vi è un’eclissi, tutto il mondo è nell’ombra”. Anche le vette delle montagne sono nell’ombra. Malgrado ciò, Dom Gérard non sopportava di essere nell’ombra. Se talora si nascondeva, era nella luce. “Pax in lumine” fu la sua scelta e il suo programma per i suoi figli nel chiostro. Li voleva erigere stabili, incrollabili al servizio della santa Chiesa, nella pace e nella luce, al di sopra, al di là degli avvenimenti e delle controversie in cui si affannavano le genti del secolo. “La luce è misericordiosa, la luce non condanna, essa chiarisce, trasforma…”“tutta la vita cristiana consiste nel trasformare la luce in amore”.

Personalmente, dopo più di trent’anni, rimango abbagliato dal canto virginale che si elevava  da quest’anima. Testimone dell’avventura di Bédoin e della fondazione di Le Barroux, conservo nel mio cuore come la purezza d’un canto mistico che è assai raro ascoltare. In questo, collego volentieri Padre Gérard alla grande scuola mistica degli antichi monaci, con san Gregorio di Nissa, sant’Agostino che egli amava tanto, san Bernardo e la sua teologia dell’immagine.

Dom Gérard era un contemplativo super attivo. Apparteneva assai più a quelli che aderiscono, piuttosto che a quelli che analizzano. Come san Bernardo, voleva entrare nella carità di Cristo crocifisso, risuscitato, glorificato. Per lui, “la vita interiore, è Cristo, l’uomo Dio, ed è tutto. Non occorre cercare null’altro: Cristo è Dio manifestato”.

Se Dom Gérard era come il cantore della cristianità, il poeta della grazia e della liturgia, il teologo della luce, egli rimarrà, per ciascuno dei suoi figli nel chiostro, un padre pieno di tenerezza e benevolenza, un padre affettuoso che c’insegnava in parole e in atti lo spirito d’infanzia, il Vangelo, l’abbandono, la confidenza in Dio.
La sua grazia particolare fu probabilmente questa gioia sovrana, questa trasparenza, questa capacità di meravigliarsi davanti al reale, alle opere di Dio e della creazione. Sapersi dimenticare nell’ammirazione è un dono di Dio assai raro. “Se volete essere felici – ci diceva –, occorre interiorizzare la vostra gioia, ed è il segreto di tutta una vita”.
Interiorizzare la propria gioia… ecco non soltanto un consiglio di vita spirituale che egli dava volentieri, ma una vera confidenza, e una confidenza essenziale per tutti quelli che desiderano conoscerlo. Senza volerlo, egli si dona a noi… “interiorizzare la propria gioia”. Tuttavia vi chiedo, cosa rimane in effetti della primavera della sua gioventù se non questa gioia così pura, così limpida, come un dono di Dio nella sua anima? Un dono di Dio e della Vergine Immacolata. “Per te Virgo”.

No, non credo di sbagliarmi dicendo che la Vergine Maria era la fonte profonda della gioia del suo cuore, e forse il segreto di questa vita così feconda. “Per te Virgo”, la sua divisa abbaziale, illumina l’intera sua vita come la stella del mattino in un cielo soleggiato d’oro. Sì, ci confidava, “il Cuore immacolato di Maria è un grande santuario”.
Dio viene a chiamare a sé l’anima di Dom Gérard. Voi, nostri amici e amici di Dom Gérard, ascoltate bene. Dio creatore del mondo ci ama oggi come il primo giorno della creazione. Dio ha creato i corpi e le anime per la sua gloria eterna. L’anima umana, quando abbandona il corpo, come un sole abbagliante, illumina con la sua partenza i giardini degli uomini. L’anima di Dom Gérard non cessa di abbagliarci.

Sì, nell’ora in cui Dio viene a chiamare a sé l’anima di Dom Gérard, preghiamo per lui, e ugualmente preghiamo con lui per tutte le grazie ricevute e per le grazie ancora da ricevere, se davvero come lui vogliamo stabilire il regno di Cristo Dio su questa terra.

AMDG et BVM

martedì 24 febbraio 2015

La questione liturgica. Il Rito Romano Antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Vaticano II

lunedì 23 febbraio 2015

La questione liturgica. Il Rito Romano Antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Vaticano II

È uscita la Seconda edizione riveduta e aggiornata del mio saggio «La questione liturgica. Il rito Romano usus antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Vaticano II», Ed. Solfanelli, pag.136, Euro 11. Sarà presto distribuito nelle librerie.
Ordini via mail: tabulafatiordini@yahoo.it

Il Libro:
Lo scenario della Chiesa di oggi, riformata secondo le applicazioni del Concilio Vaticano II, presenta un mosaico di “criticità” che non sfuggono ai fedeli ed agli studiosi più coinvolti. Esse non hanno risparmiato — anzi vi trovano il loro focus — la Liturgia, culmine e fonte della vita di fede nella sua espressione sacramentale (SC,10), funzione primaria della Chiesa santificante oltre che docente e guidaper i fedeli. In vista dell’annuncio e della testimonianza di Cristo al mondo.
Nel presente saggio viene analizzato sul piano filosofico e teologico lo status quaestionis, in ambito liturgico, della crisi che viene da lontano ma caratterizza l’ultimo cinquantennio. Vengono quindi sviluppati in termini essenziali alcuni dei punti rilevanti di un dibattito ancora aperto, da diffondere ed allargare, al fine di alimentare una “pastorale” secondo la Tradizione che è vita e giovinezza della Chiesa.

L'autore
Maria Guarini, laureata in teologia ed esperta in Comunicazione e nuove tecnologie, ha diretto per anni la Biblioteca e le Relazioni al Pubblico del Ministero delle Comunicazioni. Continua a svolgere un’attività di Operatore dell’Informazione a livello internazionale.
È da tempo impegnata a testimoniare la presenza della Chiesa sulla Rete Internet, nuova frontiera di libertà e crogiolo per la formazione di correnti di pensiero svincolate dalle culture dominanti e tendenti al vero, in quanto radicate nella Tradizione perenne, ritrovando e rivendicando il primato della verità sull’azione, della conoscenza sulla prassi ateoretica. Autrice dei libri «La Chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica dopo il Vaticano II» (DEUI, Rieti 2012) e «Agorà Telematica» (Edizioni Vivere in, Roma 2001).
Presentazione di Mons. Brunero Gherardini

Ho avuto, poco tempo fa, una gradita sorpresa: il testo La questione liturgica di Maria Guarini, un nome non nuovo nell’ambito della teologia e segnatamente della liturgia.
Il testo è dedicato alla questione liturgica, considerata non astrattamente o genericamente, ma in relazione al santo sacrificio della Messa. E più precisamente alla Messa secondo il rito che il Santo Padre Benedetto XVI ha definito straordinario. Il suo contenuto non è, dunque, ciò di cui il titolo potrebbe indurre l’attesa, vale a dire uno studio più o meno scientificamente condotto sul concetto di liturgia, sul suo contenuto e sulle sue singole parti, ma una serie di riflessioni, non raramente e giustamente critiche circa la situazione di fatto determinatasi sulla scia della “creatività” postconciliare, ma protese alla riconquista del terreno perduto. A tale riguardo non si può far altro che applaudire.

È bene poi rilevare il sano equilibrio che la Guarini distribuisce a piene mani nelle sue pagine. Si potrebbe pensare che essa si muova in direzione più tradizionalista che progressista; sono anzi convinto che le cose stiano esattamente così. Tuttavia il suo aperto tradizionalismo non è per lei un “paraocchi”. Ci vede anzi e ci vede bene, tanto se si volge all'indietro, quanto se guarda in avanti. Sa che la liturgia non è “immodificabile”, per usare un suo aggettivo; conosce l’evolversi del fatto liturgico attraverso tanti secoli di storia ecclesiastica e d’adattamento del culto alla sempre più profonda comprensione del mistero in esso e con esso celebrato. E presa dalla bellezza ineffabile e dalla ricchissima simbologia d'ogni azione liturgica, ne trae la conclusione in termini di coerenza cristiana: gettarsi in ginocchio, adorare e ringraziare.

Se è vero che liturgia e fissismo non vanno d’accordo, è altrettanto vero che dell’autentica liturgia non è un ottimo interprete né chi sa o preferisce voltarsi soltanto all’indietro, né chi, guardando in avanti, non ha occhi se non per l’ancor confuso domani.
Se s’è d’accordo su questo, allora si capisce perché né l’archeologismo fine a se stesso, né l’improvvisazione, fosse pur seria, devota ed edificante, potrebbero esser mai vera liturgia. Questa è sempre collegata alle sole due fonti che ne garantiscono l'autenticità: la continuità della sacra Tradizione e la sua proposta ufficiale ad opera del magistero ecclesiastico. Non è senza significato il fatto che la Tradizione perde la sua vitalità quando viene strappata dalle mani di chi, per divina disposizione, ne ha il controllo, la custodia e il compito di ritrasmetterla – ossia il magistero ecclesiastico –, così come viene letteralmente soffocata ogni volta che proprio chi ne ha il controllo, la custodia e il compito di ritrasmetterla è sistematicamente ignorato, se non anche rifiutato, tanto dal fissismo quanto dall'improvvisazione.

Mi sembra che sia questa la griglia attraverso la quale affrontare la lettura del succoso scritto della Guarini. Affacciandosi, infatti, a codesta griglia, s’intuisce il motivo e l’obbiettività sia dei “no” sia dei “sì” che si rincorrono nelle pagine di questo testo; si capisce soprattutto “la funzione e la ragion d’essere della Liturgia” ed il perché della conservazione gelosa della lingua latina come lingua sacra – o meglio liturgica – per eccellenza. Si tratta in realtà della griglia dalla quale traspare tutto il valore – e tutto il significato – del fatto liturgico. Specialmente sul significato non bisogna sorvolare. Guai, anzi, a non assimilarlo progressivamente e sapidamente in tutta la sua portata; ministro e fedeli rischierebbero altrimenti di coinvolgersi in una pura e semplice mess’in scena e nella conseguente recita, nonché di perder il dovuto contatto con l’actio sacra per antinomasia.

Giustamente è messo l'accento sul cosiddetto rinnovamento dal basso. Dico “giustamente” non per provocare nel lettore la consapevolezza, o addirittura la presunzione, d’esser il motore della rinnovata liturgia, e men ancora l’idea che solo dal basso possa insorgere una autentica riforma liturgica. L’accorta Autrice fa capire che un’operazione di tal genere, il cui contenuto attiene all’ambito della fede e, quindi, della divina rivelazione, non potrà né dovrà mai essere, in ultim’analisi, d'iniziativa popolare o personale, ma opera di coloro ai quali Cristo affidò il presente e il futuro della sua Chiesa.

L'importanza dello scritto qui analizzato è data anche dalla “confutazione d’alcuni luoghi comuni”. A dir il vero si tratta non di semplici “frasi fatte” e di “ritornelli” privi del senso del sacro, ma anche e soprattutto di pretestuose ed infondate obiezioni contro la forma classica del Rito Romano. Questa viene felicemente riaffermata anche mediante la critica della “desacralizzazione, banalizzazione, orizzontalità di gesti”, nonché del degrado al quale è pervenuta la deformazione concettuale e pratica d'una liturgia ridotta “a cornice sacrale”.
Importante, anche in ordine alla spesso ripetuta domanda di spiegazione, appare la precisazione sul senso da dare alla cosiddetta “attiva partecipazione”, di cui il Santo Padre ha più volte parlato e all’insegnamento del quale l'Autrice significativamente si aggancia.
In special modo l’importanza dello scritto della Guarini sta nella sua riaffermazione della centralità di Cristo, soggetto ed oggetto, attraverso il ministero ecclesiastico, dell’azione liturgica e della sua preghiera.

Non mancherà qualche lettore che, non nuovo alle tematiche teologiche e al relativo dibattito, troverà nel presente scritto alcune espressioni meno felici, riscattate però dall’evidente intenzione d’aderire con tutt’il cuore e tutta l’anima al dato rivelato, alla Tradizione, alla parola magisteriale della Chiesa. Sotto codesto punto di vista, lo scritto della Guarini ha un’incidenza d’evidente portata esemplaristica e metodologica: non si nega alla discussione, ma del dibattito teologico all’interno d’un legittimo scopo di comprensione e d’approfondimento, trova sempre la soluzione nella Parola della Chiesa.

I miei più vivi complimenti e l’augurio sincero di continuare l’impresa nella direzione seguita: l’unica che consenta al teologo di sfuggire al pericolo d’esser quasi aerem verberans
Brunero Gherardini

18 commenti:


domenica 7 settembre 2014

“Maria Giglio della Trinità”: Domini Sacrarium, Nobile Triclinium et Complementum SS. Trinitatis!: In che cosa consiste, però, questa partecipazione ...

“Maria Giglio della Trinità”: Domini Sacrarium, Nobile Triclinium et Complementum SS. Trinitatis!: In che cosa consiste, però, questa partecipazione ...: AVE MARIA PURISSIMA! Cardinale Ratzinger:  il vero significato della partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia «Partecip...








...La comparsa quasi teatrale di attori diversi, cui oggi è dato assistere soprattutto nella preparazione delle offerte, passa molto semplicemente a lato dell'essenziale. 

giovedì 1 maggio 2014

IL RITO AUTENTICO

Il rito non va cambiato, deve cambiare invece il nostro cuore.

IL RITO AUTENTICO, L'EDUCAZIONE, 
LA CONVERSIONE

 

  Non c'è nessun fatto puramente esterno a noi che possa garantire il rinnovamento della Chiesa o la rinascita della vita cristiana. 

  Quando parliamo della crisi della fede nei tempi moderni, quando desideriamo il rifiorire della vita cristiana del nostro popolo, dobbiamo avere ben presente che non è possibile affidarci a nessun automatismo garantito da qualcosa che accade solo fuori di noi: la rinascita partirà sempre dal nostro nascere di nuovo alla grazia di Dio. Sì, è dalla conversione personale che dobbiamo sperare il rifiorire della Chiesa tra noi.

   È proprio partendo da un errore di prospettiva che si è pensato di diffondere il cristianesimo a suon di riforme. È stato, crediamo, l'errore degli anni conciliari. Cerchiamo di spiegarci.

   C'era bisogno di un rinnovamento della vita cristiana negli anni ’50 e ’60? Certamente sì. C'era bisogno di una maggiore verità nella vita sacerdotale, nei conventi, nelle associazioni laicali, nelle scuole cattoliche, nelle famiglie? Non facciamo fatica ad ammetterlo: un certo formalismo stava mettendo in pericolo la vita di fede... c'era bisogno di una freschezza data dall'autenticità.

  Ma il grave errore è stato quello di illudersi di trovare l'autenticità e la freschezza della vita cristiana in tutta una serie di riforme, che hanno radicalmente cambiato, se non stravolto, il volto della Chiesa. E non ne è venuto fuori un rinnovamento, una primavera, ma un lungo autunno che ha portato fino all'inverno della fede, inverno che ha ucciso la vita di grazia nei nostri paesi, nelle nostre terre di antica cristianità.

  Ci si è messi a cambiare tutto, a modernizzare la messa e con essa tutti gli altri aspetti della vita cattolica, pensando di fermare così la fuga dalle chiese, con il risultato, ed è sotto gli occhi di tutti, che le chiese hanno terminato di svuotarsi; chi è poi rimasto a frequentarle, non è certamente più autenticamente cattolico degli uomini di un tempo.

  Ne è esempio lampante proprio la riforma della Messa: l'hanno cambiata per renderla meno difficile alla gente, per renderla meno pesante. Ne è nato un rinnovamento? No, ma un impoverimento, uno svuotamento ambiguo di contenuto: è come se lo “ scheletrito” nuovo rito della messa non educasse più, lasciando spazio a tutte le nostre piccole e grandi eresie.

  La strada da percorrere era un'altra, quella di un appassionato lavoro quotidiano per educare le anime a vivere della messa, comprendendone l'inestimabile valore e l'incommensurabile bellezza. Occorrevano preti intelligentemente appassionati, comunità ferventi, capaci di preghiera, studio e sacrificio; occorrevano anime commosse. Ci si è invece affidati alla via ingannevole di una riforma esterna che facilitasse i riti per i preti e per i fedeli... illudendosi che accomodando le cose esterne le anime si convertissero. E tutto è crollato in uno spaventoso impoverimento: per inseguire i fedeli senza fervore, si è banalizzata la messa riducendola quasi a un rito degno di una religione puramente naturale.

  E invece la Chiesa aveva bisogno della santità, e la santità nasce dalla conversione personale.

  Il rito non va cambiato, deve cambiare invece il nostro cuore. Il rito deve essere la roccia sicura su cui posare tutta la nostra vita. Per questo siamo tornati alla Tradizione, per questo custodiamo la “Messa di sempre”. Il rito deve custodire la retta fede, la vera preghiera cattolica, deve metterci nella posizione giusta difronte a Dio: solo così la grazia potrà operare la nostra conversione.

  Sono i santi, commossi per l'opera di Dio, che rinnovano la Chiesa e la vita cristiana, e non i giochi umani dei cambiamenti continui.

  Chi vuole i cambiamenti continui è semplicemente un uomo annoiato; e con gli uomini annoiati in cerca di novità esteriori, fossero anche religiose, non si fa una Chiesa santa.

  Il vero movimento liturgico, quello di Gueranger e di Pio X per intenderci, voleva favorire proprio un'autenticità di preghiera nei sacerdoti e nei fedeli. Voleva che le anime immergendosi nella santa liturgia, pregando veramente con la Chiesa, rinascessero ad una vita cristiana più autentica e intelligente. Invece nel movimento liturgico si operò il tradimento, consumato da chi pensava che facilitare equivalesse ad aiutare a pregare: così non fu, ed è sotto gli occhi di tutti il disastro... i cristiani sanno ormai raramente pregare.

  Nulla di esterno può sostituirsi alla nostra conversione, al sincero fervore personale, all'autentico amore per Cristo. Ma la nostra conversione, operata dalla grazia, scaturirà dalla preghiera della Chiesa che la Tradizione ci ha consegnato, che è la preghiera di Cristo stesso.

  Così è necessario anche per noi che:

  1. si torni alla corretta liturgia secondo la tradizione, perché il tesoro della rivelazione pregata non vada perduto;

  2. che sacerdoti e fedeli intelligentemente commossi diventino autentici missionari, educatori alla preghiera secondo il cuore della Chiesa. Se non ci fosse anche per noi questo secondo punto, cadremmo nello stesso tragico errore dei riformatori conciliari: credere che basti tornare a qualcosa di esteriore (fosse anche la messa antica) perché la vita rinasca.

  Che la Madonna ci aiuti ad essere fedeli al nostro compito.

martedì 11 marzo 2014

HANNO CHIUSO IL CIELO


HANNO CHIUSO IL CIELO

Editoriale di Radicati nella fede, foglio di collegamento della chiesa di Vocogno e della cappella dell’Ospedale di Domodossola (dove si celebra la S. Messa tradizionale)
anno VII - MARZO 2014 n. 3

- impaginazione e neretti sono nostri -


È la liturgia che si deve adattare al tempo degli uomini, o è il tempo degli uomini che deve prendere la forma della liturgia cattolica?

Ci sembra che la questione cruciale sia tutta qui.

Un cristianesimo “modernistico” che vede le verità di fede emergere dal profondo della coscienza degli uomini, vorrebbe che la liturgia prendesse le mosse dal vissuto antropologico, dalla vita degli uomini, per celebrare la consapevolezza umana del proprio rapporto con Dio. In fondo è stata questa la linea vincente di questi anni: la liturgia ha sempre di più celebrato l’uomo, anche quando ha celebrato la fede dell’uomo. Insomma, la liturgia si è adattata alla vita del tempo. Risultato? Una tragedia! Dio e le cose eterne praticamente scomparse dalle chiese, per far posto alla fede dei credenti, che esprimono, commentano, interpretano quello che loro vivono nei confronti di Dio. La liturgia riformata parla nel migliore dei casi della Chiesa, ma quasi mai di Dio. E quando parla della Chiesa, lo fa più secondo l’ottica di “Popolo di Dio in cammino” che come “Corpo Mistico di Cristo”.

E guardate che non stiamo parlando di quelle sfacciate para-liturgie tutte sociali e umanamente impegnate dei catto-comunisti degli anni ‘70... parliamo piuttosto di quelle liturgie, di quelle messe, che oggi vanno per la maggiore nell’ufficialità delle diocesi, dove si parla di fede, di comunità credente, di popolo attorno al suo vescovo; di liturgie che celebrano questa comunità, ma nelle quali non si adora Dio presente e non ci si inabissa nel mistero della redenzione. È una sorta di neomodernismo liturgico che ha superato la tentazione marxista del solo impegno del mondo, ma che parlando di fede si sofferma sui credenti, ma non arriva mai a Dio, a Nostro Signore, alle verità eterne, alla questione della salvezza. È come se ci si fosse accorti che non si poteva andare avanti, come anni fa, in un cristianesimo orizzontale, e si è così approdati all'impegno sociale ecclesiale, per edificare la comunità dei credenti. In ogni caso l’errore è sempre lo stesso: partire dall’uomo e chiudere il Cielo.

Ma l’uomo ha proprio bisogno di questa auto-celebrazione della propria fede, o non è fatto piuttosto per inabissarsi in Dio?

No, la liturgia cattolica è cosa totalmente diversa: è l’irruzione del Cielo sulla terra ed è la porta aperta tra il Cielo e la terra!

Se volete tentiamo di dare due eloquenti immagini contrapposte, che dicono due concezioni diverse, molto diverse, del culto: quella di un semplice prete che in una delle tante chiese sparse nell’orbe cattolico celebra, nella quiete della preghiera, rivolto al Crocifisso, l’eterno sacrificio che salva le anime, assistito dalla orante e adorante attenzione dei fedeli, e quella di una rumorosa e festosa comunità, che andando alla messa è preoccupata di “fare comunità esprimendo i propri carismi” (in verità facendo qualcosa perché nelle nuove messe mal si sopporta lo stare fermi) e di mettersi al passo con le direttive dell’operatore pastorale... e che in ultimo farà certo anche la comunione. Sono due concezioni opposte, inconciliabili. Una, quella tradizionale, fa spazio all’azione di Dio, l’altra si sofferma... ma forse, osiamo dire, si ferma all’azione della comunità!

Vedete, le verità di fede non nascono dalla coscienza profonda degli uomini, dal vissuto della comunità che reinterpreta il proprio vissuto alla luce di Dio, ma sono comunicate dalla reale rivelazione di Dio che la Chiesa custodisce e trasmette: la rivelazione discende dal Cielo, non germoglia dalla terra come vorrebbero i modernisti. Così la liturgia porta il Cielo in terra e porta la terra al Cielo. È azione di Dio innanzitutto, e non primariamente azione della Chiesa. La Chiesa riceve l’azione di Dio, la custodisce, la esprime utilizzando certamente tutte le possibilità umane adeguate; salvaguardia la liturgia dalle modifiche errate che possono confondere l’opera di Dio e la trasmette fedelmente custodendola, perché il Cielo resti aperto sugli uomini.

Tutti, praticamente tutti, quando si parla di Movimento Liturgico amano rifarsi a dom Guéranger, il grande abate benedettino che rifondò il monachesimo in Francia dopo la tempesta rivoluzionaria. Con lui si dà inizio al Movimento Liturgico, cioè a quella rinascita dello spirito cristiano che dalla liturgia prende le mosse. Autore prolifico, pensiamo all’Anno Liturgico da lui pubblicato ma non solo, partecipe di tutti i drammi e le battaglie della Chiesa del XIX secolo, ascoltato consigliere di Pio IX... fondatore dell’abbazia di Solesmes.

Ma cosa voleva veramente dom Guéranger? E cosa chiedeva San Pio X, riprendendo con autorevolezza il lavoro del grande benedettino e dando così nuovo vigore proprio al Movimento Liturgico? Volevano che il popolo avesse l’intelligenza delle cose divine (che capisse la liturgia della Chiesa), perché queste penetrassero di nuovo la vita del popolo cristiano. Volevano una grande opera di educazione perché le cose del Cielo tornassero a dare forma alla vita degli uomini.

Ma citiamo dom Guéranger: 

“I misteri del grande sacrificio, dei sacramenti, dei sacramentali, le fasi del ciclo cristiano così feconde in grazia e in luce, le cerimonie, questa lingua sublime che la Chiesa parla a Dio davanti agli uomini; in una parola tutte queste meraviglie torneranno familiari al popolo fedele. L’istruzione cattolica sarà ancora per le masse il grande e sublime interesse che dominerà tutti gli altri; e il mondo tornerà a comprendere che la religione è il primo dei beni per l’individuo, la famiglia, la città, la nazione e per la razza umana tutta intera” (Institutions liturgiques - seconda ediz., t. III cap. 1, pag. 13).


Guéranger, e con lui Pio X con la sua troppo mal citata “partecipazione attiva”, volevano l’esatto contrario di quello che si è fatto dal Concilio in poi. Nel post-concilio la liturgia è stata trasformata per aderire alla vita degli uomini, la Chiesa nel passato ha invece sempre desiderato che la vita degli uomini prendesse forma dalla liturgia cattolica.

Non volevano un abbassamento della liturgia alla vita meramente naturale degli uomini, ma volevano un innalzamento del popolo ai sublimi misteri.

Cosa se ne fa un uomo di una liturgia che gli parla solo delle sue speranze e delle sue fatiche, che gli parla del suo “senso religioso”, ma che non gli parla mai del Cielo?
È su questo equivoco che tragicamente è fallito il Movimento Liturgico.

Occorre tornare a Guéranger e al vero San Pio X. Ma, a quando questo ritorno?

domenica 8 dicembre 2013

Nella Liturgia appare che "la Bibbia è il libro di un popolo e per un popolo; un'eredità, un testamento consegnato a lettori, perché attualizzino nella loro vita la storia di salvezza testimoniata nello scritto. Vi è pertanto un rapporto di reciproca vitale appartenenza tra popolo e Libro: la Bibbia rimane un Libro vivo con il popolo, suo soggetto, che lo legge; il popolo non sussiste senza il Libro, perché in esso trova la sua ragion d'essere, la sua vocazione, la sua identità".




OMELIA DEL SANTO PADRE  Benedetto XVI

Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

La Parola del Signore, risuonata poc’anzi nel Vangelo, ci ha ricordato che nell’amore si riassume tutta la Legge divina. L’Evangelista Matteo racconta che i farisei, dopo che Gesù ebbe risposto ai sadducei chiudendo loro la bocca, si riunirono per metterlo alla prova (cfr 22,34-35). Uno di questi, un dottore della legge, gli chiese: "Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?" (v. 36).
La domanda lascia trasparire la preoccupazione, presente nell’antica tradizione giudaica, di trovare un principio unificatore delle varie formulazioni della volontà di Dio. Era domanda non facile, considerato che nella Legge di Mosè sono contemplati ben 613 precetti e divieti. Come discernere, tra tutti questi, il più grande? Ma Gesù non ha nessuna esitazione, e risponde prontamente: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento" (vv. 37-38).
Nella sua risposta, Gesù cita lo Shemà, la preghiera che il pio israelita recita più volte al giorno, soprattutto al mattino e alla sera (cfr Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,37-41): la proclamazione dell’amore integro e totale dovuto a Dio, come unico Signore.

L’accento è posto sulla totalità di questa dedizione a Dio, elencando le tre facoltà che definiscono l’uomo nelle sue strutture psicologiche profonde: cuore, anima e mente. Il termine mente, diánoia, contiene l’elemento razionale. Dio non è soltanto oggetto dell’amore, dell’impegno, della volontà e del sentimento, ma anche dell’intelletto, che pertanto non va escluso da questo ambito. 

E’ anzi proprio il nostro pensiero a doversi conformare al pensiero di Dio. Poi, però, Gesù aggiunge qualcosa che, in verità, non era stato richiesto dal dottore della legge: "Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso" (v. 39). L’aspetto sorprendente della risposta di Gesù consiste nel fatto che egli stabilisce una relazione di somiglianza tra il primo e il secondo comandamento, definito anche questa volta con una formula biblica desunta dal codice levitico di santità (cfr Lv 19,18). Ed ecco quindi che nella conclusione del brano i due comandamenti vengono associati nel ruolo di principio cardine sul quale poggia l’intera Rivelazione biblica: "Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti" (v. 40).

La pagina evangelica sulla quale stiamo meditando pone in luce che essere discepoli di Cristo è mettere in pratica i suoi insegnamenti, che si riassumono nel primo e più grande comandamento della Legge divina, il comandamento dell’amore. 

Anche la prima Lettura, tratta dal libro dell’Esodo, insiste sul dovere dell’amore; un amore testimoniato concretamente nei rapporti tra le persone: devono essere rapporti di rispetto, di collaborazione, di aiuto generoso.

Il prossimo da amare è anche il forestiero, l’orfano, la vedova e l’indigente, quei cittadini cioè che non hanno alcun "difensore". L’autore sacro scende a dettagli particolareggiati, come nel caso dell’oggetto dato in pegno da uno di questi poveri (cfr Es 20,25-26). In tal caso è Dio stesso a farsi garante della situazione di questo prossimo.

Nella seconda Lettura possiamo vedere una concreta applicazione del sommo comandamento dell’amore in una delle prime comunità cristiane. San Paolo scrive ai Tessalonicesi, lasciando loro capire che, pur avendoli conosciuti da poco, li apprezza e li porta con affetto nel cuore. Per questo egli li addita come un "modello per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia" (1 Ts 1,6-7).
Non mancano certo debolezze e difficoltà in quella comunità fondata di recente, ma è l’amore che tutto supera, tutto rinnova, tutto vince: l’amore di chi, consapevole dei propri limiti, segue docilmente le parole di Cristo, divino Maestro, trasmesse attraverso un suo fedele discepolo. "Voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore – scrive san Paolo – avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove". "Per mezzo vostro – prosegue l’Apostolo - la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede si è diffusa dappertutto" (1 Ts 1,6.8). L’insegnamento che traiamo dall’esperienza dei Tessalonicesi, esperienza che in verità accomuna ogni autentica comunità cristiana, è che l’amore per il prossimo nasce dall’ascolto docile della Parola divina.

E’ un amore che accetta anche dure prove per la verità della parola divina e proprio così il vero amore cresce e la verità risplende in tutto il suo fulgore. Quanto è importante allora ascoltare la Parola e incarnarla nell’esistenza personale e comunitaria!

In questa celebrazione eucaristica, che chiude i lavori sinodali, avvertiamo in maniera singolare il legame che esiste tra l’ascolto amorevole della Parola di Dio e il servizio disinteressato verso i fratelli. Quante volte, nei giorni scorsi, abbiamo sentito esperienze e riflessioni che evidenziano il bisogno oggi emergente di un ascolto più intimo di Dio, di una conoscenza più vera della sua parola di salvezza; di una condivisione più sincera della fede che alla mensa della parola divina si alimenta costantemente! Cari e venerati Fratelli, grazie per il contributo che ciascuno di voi ha offerto all’approfondimento del tema del Sinodo: "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa".
Tutti vi saluto con affetto. Un saluto speciale rivolgo ai Signori Cardinali Presidenti delegati del Sinodo e al Segretario Generale, che ringrazio per la loro costante dedizione. Saluto voi, cari fratelli e sorelle, che siete venuti da ogni continente recando la vostra arricchente esperienza. Tornando a casa, trasmettete a tutti il saluto affettuoso del Vescovo di Roma. Saluto i Delegati Fraterni, gli Esperti, gli Uditori e gli Invitati speciali: i membri della Segreteria Generale del Sinodo, quanti si sono occupati dei rapporti con la stampa. Un pensiero speciale va ai Vescovi della Cina Continentale, che non hanno potuto essere rappresentati in questa assemblea sinodale. Desidero farmi qui interprete, e renderne grazie a Dio, del loro amore per Cristo, della loro comunione con la Chiesa universale e della loro fedeltà al Successore dell’Apostolo Pietro. Essi sono presenti nella nostra preghiera, insieme con tutti i fedeli che sono affidati alle loro cure pastorali. Chiediamo al «Pastore supremo del gregge» (1 Pt 5, 4) di dare ad essi gioia, forza e zelo apostolico per guidare con sapienza e con lungimiranza la comunità cattolica in Cina, a tutti noi così cara.

Noi tutti, che abbiamo preso parte ai lavori sinodali, portiamo con noi la rinnovata consapevolezza che compito prioritario della Chiesa, all'inizio di questo nuovo millennio, è innanzitutto nutrirsi della Parola di Dio, per rendere efficace l'impegno della nuova evangelizzazione, dell’annuncio nei nostri tempi. 

Occorre ora che questa esperienza ecclesiale sia recata in ogni comunità; è necessario che si comprenda la necessità di tradurre in gesti di amore la parola ascoltata, perché solo così diviene credibile l’annuncio del Vangelo, nonostante le umane fragilità che segnano le persone. Ciò richiede in primo luogo una conoscenza più intima di Cristo ed un ascolto sempre docile della sua parola.

In quest’Anno Paolino, facendo nostre le parole dell'Apostolo: "guai a me se non predicassi il Vangelo" (1 Cor 9,16), auspico di cuore che in ogni comunità si avverta con più salda convinzione quest’anelito di Paolo come vocazione al servizio del Vangelo per il mondo.

Ricordavo all’inizio dei lavori sinodali l’appello di Gesù: "la messe è molta" (Mt 9,37), appello a cui non dobbiamo mai stancarci di rispondere malgrado le difficoltà che possiamo incontrare.

Tanta gente è alla ricerca, talora persino senza rendersene conto, dell’incontro con Cristo e col suo Vangelo; tanti hanno bisogno di ritrovare in Lui il senso della loro vita. Dare chiara e condivisa testimonianza di una vita secondo la Parola di Dio, attestata da Gesù, diventa pertanto indispensabile criterio di verifica della missione della Chiesa.

La letture che la liturgia offre oggi alla nostra meditazione ci ricordano che la pienezza della Legge, come di tutte le Scritture divine, è l'amore. Chi dunque crede di aver compreso le Scritture, o almeno una qualsiasi parte di esse, senza impegnarsi a costruire, mediante la loro intelligenza, il duplice amore di Dio e del prossimo, dimostra in realtà di essere ancora lontano dall’averne colto il senso profondo. Ma come mettere in pratica questo comandamento, come vivere l’amore di Dio e dei fratelli senza un contatto vivo e intenso con le Sacre Scritture? Il Concilio Vaticano II afferma essere "necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura" (Cost. Dei Verbum, 22), perché le persone, incontrando la verità, possano crescere nell’amore autentico.

Si tratta di un requisito oggi indispensabile per l’evangelizzazione. E poiché non di rado l'incontro con la Scrittura rischia di non essere "un fatto" di Chiesa, ma esposto al soggettivismo e all'arbitrarietà, diventa indispensabile una promozione pastorale robusta e credibile della conoscenza della Sacra Scrittura, per annunciare, celebrare e vivere la Parola nella comunità cristiana, dialogando con le culture del nostro tempo, mettendosi al servizio della verità e non delle ideologie correnti e incrementando il dialogo che Dio vuole avere con tutti gli uomini (cfr ibid., 21). 

A questo scopo va curata in modo speciale la preparazione dei pastori, preposti poi alla necessaria azione di diffondere la pratica biblica con opportuni sussidi. Vanno incoraggiati gli sforzi in atto per suscitare il movimento biblico tra i laici, la formazione degli animatori dei gruppi, con particolare attenzione ai giovani. È da sostenere lo sforzo di far conoscere la fede attraverso la Parola di Dio anche a chi è "lontano" e specialmente a quanti sono in sincera ricerca del senso della vita.

Molte altre riflessioni sarebbero da aggiungere, ma mi limito infine a sottolineare che il luogo privilegiato in cui risuona la Parola di Dio, che edifica la Chiesa, come è stato detto tante volte nel Sinodo, è senza dubbio la liturgia. 

In essa appare che la Bibbia è il libro di un popolo e per un popolo; un'eredità, un testamento consegnato a lettori, perché attualizzino nella loro vita la storia di salvezza testimoniata nello scritto. Vi è pertanto un rapporto di reciproca vitale appartenenza tra popolo e Libro: la Bibbia rimane un Libro vivo con il popolo, suo soggetto, che lo legge; il popolo non sussiste senza il Libro, perché in esso trova la sua ragion d'essere, la sua vocazione, la sua identità. 

Questa mutua appartenenza fra popolo e Sacra Scrittura è celebrata in ogni assemblea liturgica, la quale, grazie allo Spirito Santo, ascolta Cristo, poiché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la Scrittura e si accoglie l'alleanza che Dio rinnova con il suo popolo.

Scrittura e liturgia convergono, dunque, nell'unico fine di portare il popolo al dialogo con il Signore e all’obbedienza alla volontà del Signore.

La Parola uscita dalla bocca di Dio e testimoniata nelle Scritture torna a Lui in forma di risposta orante, di risposta vissuta, di risposta sgorgante dall’amore (cfr Is 55,10-11).

Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché dal rinnovato ascolto della Parola di Dio, sotto l'azione dello Spirito Santo, possa sgorgare un autentico rinnovamento nella Chiesa universale, ed in ogni comunità cristiana. 

Affidiamo i frutti di questa Assemblea sinodale alla materna intercessione della Vergine Maria. A Lei affido anche la II Assemblea Speciale del Sinodo per l’Africa, che si svolgerà a Roma nell’ottobre del prossimo anno. E’ mia intenzione recarmi nel marzo prossimo in Camerun per consegnare ai rappresentanti delle Conferenze Episcopali dell’Africa l’Instrumentum laboris di tale Assemblea sinodale. Di lì proseguirò, a Dio piacendo, per l’Angola, per celebrare solennemente il 500° anniversario di evangelizzazione del Paese. Maria Santissima, che ha offerto la sua vita come "serva del Signore", perché tutto si compisse in conformità ai divini voleri (cfr Lc 1,38) e che ha esortato a fare tutto ciò che Gesù avrebbe detto (cfr Gv 2,5), ci insegni a riconoscere nella nostra vita il primato della Parola che sola ci può dare salvezza. E così sia!

26.10.2008: CAPPELLA PAPALE PER LA CONCLUSIONE DELLA XII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI.

© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana

giovedì 24 ottobre 2013

Sia lodato Gesù Cristo!


Sua Ecc. Mons. Schneider alla Fondazione Lepanto

mons. Schneider(di Fabrizio Cannone) Il 30 settembre u.s. Sua Ecc. Mons. Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare di Astana in Kazakistan, ha tenuto una seguitissima conferenza presso la Fondazione Lepanto in cui ha presentato il contenuto della sua ultima preziosa opera, Corpus Christi. La Santa Comunione e il rinnovamento della Chiesa (Libreria Editrice Vaticana, 2013, pp. 100, euro 9).

Mons. Schneider ha colpito i numerosi presenti per il suo portamento davvero episcopale e degno di un Successore degli Apostoli, portamento in cui è facile scorgere la perfetta coerenza dell’uomo con l’insegnamento che appassionatamente ha profuso sulla retta ricezione dell’Eucaristia.

Dopo un sentito Sia lodato Gesù Cristo, il prelato ha iniziato la sua conferenza spiegando che lo spirito cristiano autentico è spirito di adorazione e di preghiera. Solo Cristo, ha detto, può adorare degnamente e perfettamente Dio e noi lo possiamo solo ad imitazione del Figlio. 

Tutta la Tradizione, secondo Schneider, dà una importanza capitale alle norme liturgiche le quali debbono essere rispettate da tutti senza eccezione: popolo e celebranti. Nell’Antico Testamento per esempio esistevano delle norme codificate per il culto divino e il Nuovo Testamento, benché fondato sul concetto della giusta libertà dei figli di Dio, possiede uno spirito liturgico chiaro e preciso.

Nella storia gli gnostici, gli albigesi, i calvinisti e certi protestanti hanno contrapposto le norme del culto con il suo spirito, ma si tratta di una falsa contrapposizione: le norme esterne di legge restano fondamentali e senza norme non esiste un vero spirito di adorazione legittima.

D’altra parte la Chiesa di Roma, a detta del Prelato, ha sempre rifiutato l’innovazione liturgica come tale, e ciò in nome della Tradizione Apostolica (così si espressero sia i Papi del medioevo che lo stesso Concilio di Trento). La bolla Quo Primum tempore di san Pio V è affatto contraria alle innovazioni arbitrarie e lo stesso afferma la Sacrosanctum Concilium (n. 50 del Concilio Vaticano II). Non si può negare però che dopo la svolta conciliare furono introdotte ovunque delle novità del tutto sconosciute prima come l’orientamento del celebrante verso l’assemblea, la comunione data da laici e da donne, le letture di laici all’ambone, le chierichette, le danze profane, etc.

Secondo il Vescovo è urgente ripristinare alcuni elementi liturgici che si sono persi nell’ultimo mezzo secolo come il silenzio, la genuflessione, l’incenso, il canto sacro: tutte cose che si trovano come tali nel libro dell’Apocalisse. Tutto ciò deve riportare ad un culto teocentrico e non più antropocentrico, come avviene comunemente oggi, con il celebrante che diventa il solo protagonista del rito.

In tale contesto di risacralizzazione non più procrastinabile, la santa Comunione, che è il Corpo di Cristo, deve essere ricevuta in modo degno e pio, e non come un qualunque cibo. Mons. Schneider parla di «opzione preferenziale per il Povero» per eccellenza, ovvero Gesù Sacramentato, spesse volte esposto al disprezzo e all’indifferenza nelle nostre chiese e basiliche. Davvero oggi Cristo Eucaristico è alla periferia esistenziale della Comunità. 
Il Presule auspica da parte della Santa Sede delle nuove norme che rimettano ordine nella liturgia, nel culto e nella preghiera cristiana. (Fabrizio Cannone)


venerdì 11 ottobre 2013

La sacralità della liturgia, dunque, spinge la costituzione liturgica conciliare a tirare le conseguenze: “Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica”(n. 22 § 3).


"CAMBIARE" LA LITURGIA?

di Mons. Nicola Bux



Oggi è più che manifesto il dissenso sulla natura della liturgia. È essa opera di Dio, in cui egli ha competenza, ha i suoi diritti? Oppure è intrattenimento umano dove fare ciò che noi vogliamo?

Le ombre, gli abusi e le deformazioni – termini usati da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ed effetti della bramosia di innovazione – hanno messo all'angolo la tradizione per cui “ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dar loro il giusto posto” (così Benedetto XVI nella lettera di presentazione ai vescovi del motu proprio "Summorum pontificum").

Senza "traditio" – la consegna di ciò che abbiamo ricevuto, come scrive l'Apostolo – non si sviluppa organicamente il nuovo. Il dissenso si può risolvere solo comprendendo che la liturgia è sacra, cioè appartiene a Dio ed egli vi è presente e opera. 

Ma a chi compete salvaguardare i diritti di Dio sulla sacra liturgia? Alla Sede Apostolica e, a norma di diritto, al vescovo ed entro certi limiti alle conferenze episcopali compete “moderare” la liturgia: così recita il testo latino della costituzione liturgica del Concilio Vaticano II (n. 22, § 1-2).

Che vuol dire “moderare”? Confrontando altri passi del Vaticano II, significa salvaguardare la legittima diversità delle tradizioni in campo liturgico, spirituale, canonico e teologico: si pensi alle liturgie occidentali come la romana e l'ambrosiana e alle numerose liturgie orientali ritenute all'interno dell'unica Chiesa cattolica.

Il termine può essere tradotto anche “regolare”, il che presume che l'operazione avvenga "sotto la direzione" di un'autorità suprema. Da un altro documento del Vaticano II, il decreto sull'ecumenismo (Unitatis redintegratio n. 14), sappiamo che i redattori del testo intendevano "moderante" come "sotto la presidenza", o in francese: "intervenant d’un commun accord" (la traduzione francese è stata fatta dagli estensori del decreto). La formula limita gli interventi romani "ad extra" al sorgere di uno screzio grave circa la fede o la disciplina.

La sacralità della liturgia, dunque, spinge la costituzione liturgica conciliare a tirare le conseguenze: “Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché  di sua iniziativa, in materia liturgica”(n. 22 § 3).

Il Catechismo della Chiesa cattolica ha ulteriormente precisato che “anche la suprema autorità della Chiesa [ossia il papa - ndr] non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia” (n. 1125).

Ha scritto Joseph Ratzinger nella prefazione al libro di Alcuin Reid "Lo sviluppo organico della liturgia", Cantagalli, Siena, 2013:
“Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l'essenza del primato, così come viene sottolineato dai concili Vaticano I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell'antica Tradizione [una delle due fonti della divina rivelazione – ndr),  e il primo garante dell'obbedienza. Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono. La legge cui deve attenersi non è l'agire 'ad libitum', ma l'obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il 'rito', e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l'insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione tra coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di 'paradosis'".
È questo un invito alla riflessione per quanti mettono in giro la voce che papa Francesco stia per “cambiare” la liturgia.

Nel secolo scorso in Russia, il tentativo del patriarca Nikon di cambiare i libri liturgici ortodossi produsse uno scisma. Anche tra i cattolici lo scisma di mons. Lefebvre fu dovuto in buona parte all'aver toccato la liturgia e ne soffriamo tuttora le conseguenze.


venerdì 4 ottobre 2013

Santa Ildegarda di Bingen


LETTERA APOSTOLICA


Santa Ildegarda di Bingen, Monaca Professa dell’ordine di San Benedetto, è proclamata Dottore della Chiesa universale

A perpetua memoria.

1. «Luce del suo popolo e del suo tempo»: con queste parole il Beato Giovanni Paolo II, Nostro venerato Predecessore, definì Santa Ildegarda di Bingen nel 1979, in occasione dell’800° anniversario della morte della Mistica tedesca. E veramente, sull’orizzonte della storia, questa grande figura di donna si staglia con limpida chiarezza per santità di vita e originalità di dottrina. Anzi, come per ogni autentica esperienza umana e teologale, la sua autorevolezza supera decisamente i confini di un’epoca e di una società e, nonostante la distanza cronologica e culturale, il suo pensiero si manifesta di perenne attualità.

In Santa Ildegarda di Bingen si rileva una straordinaria armonia tra la dottrina e la vita quotidiana. In lei la ricerca della volontà di Dio nell’imitazione di Cristo si esprime come un costante esercizio delle virtù, che ella esercita con somma generosità e che alimenta alle radici bibliche, liturgiche e patristiche alla luce della Regola di San Benedetto: rifulge in lei in modo particolare la pratica perseverante dell’obbedienza, della semplicità, della carità e dell’ospitalità. In questa volontà di totale appartenenza al Signore, la badessa benedettina sa coinvolgere le sue non comuni doti umane, la sua acuta intelligenza e la sua capacità di penetrazione delle realtà celesti.

2. Ildegarda nacque nel 1089 a Bermersheim, presso Alzey, da genitori di nobile lignaggio e ricchi possidenti terrieri. All’età di otto anni fu accettata come oblata presso la badia benedettina di Disibodenberg, ove nel 1115 emise la professione religiosa. Alla morte di Jutta di Sponheim, intorno al 1136, Ildegarda fu chiamata a succederle in qualità di magistra. Malferma nella salute fisica, ma vigorosa nello spirito, si impegnò a fondo per un adeguato rinnovamento della vita religiosa. Fondamento della sua spiritualità fu la regola benedettina, che pone l’equilibrio spirituale e la moderazione ascetica come vie alla santità. In seguito all’aumento numerico delle monache, dovuto soprattutto alla grande considerazione della sua persona, intorno al 1150 fondò un monastero sul colle chiamato Rupertsberg, nei pressi di Bingen, dove si trasferì insieme a venti consorelle. Nel 1165, ne istituì un altro a Eibingen, sulla riva opposta del Reno. Fu badessa di entrambi.

All’interno delle mura claustrali curò il bene spirituale e materiale delle Consorelle, favorendo in modo particolare la vita comunitaria, la cultura e la liturgia. All’esterno s’impegnò attivamente a rinvigorire la fede cristiana e a rafforzare la pratica religiosa, contrastando le tendenze ereticali dei catari, promuovendo la riforma della Chiesa con gli scritti e la predicazione, contribuendo a migliorare la disciplina e la vita del clero. Su invito prima di Adriano iv e poi di Alessandro III, Ildegarda esercitò un fecondo apostolato — allora non molto frequente per una donna — effettuando alcuni viaggi non privi di disagi e difficoltà, per predicare perfino nelle pubbliche piazze e in varie chiese cattedrali, come avvenne tra l’altro a Colonia, Treviri, Liegi, Magonza, Metz, Bamberga e Würzburg. La profonda spiritualità presente nei suoi scritti esercita un rilevante influsso sia sui fedeli, sia su grandi personalità del suo tempo, coinvolgendo in un incisivo rinnovamento la teologia, la liturgia, le scienze naturali e la musica.
Colpita da malattia nell’estate del 1179, Ildegarda, circondata dalle Consorelle, si spense in fama di santità nel monastero del Rupertsberg, presso Bingen, il 17 settembre 1179.
3.  Nei suoi numerosi scritti Ildegarda si dedicò esclusivamente a esporre la divina rivelazione e far conoscere Dio nella limpidezza del suo amore. La dottrina ildegardiana è ritenuta eminente sia per la profondità e la correttezza delle sue interpretazioni, sia per l’originalità delle sue visioni. I testi da lei composti appaiono animati da un’autentica «carità intellettuale» ed evidenziano densità e freschezza nella contemplazione del mistero della Santissima Trinità, dell’Incarnazione, della Chiesa, dell’umanità, della natura come creatura di Dio da apprezzare e rispettare.

Queste opere nascono da un’intima esperienza mistica e propongono una incisiva riflessione sul mistero di Dio. Il Signore l’aveva resa partecipe, fin da bambina, di una serie di visioni, il cui contenuto ella dettò al monaco Volmar, suo segretario e consigliere spirituale, e a Richardis di Strade, una consorella monaca. Ma è particolarmente illuminante il giudizio dato da San Bernardo di Chiaravalle, che la incoraggiò, e soprattutto da papa Eugenio III, che nel 1147 la autorizzò a scrivere e a parlare in pubblico. La riflessione teologica consente ad Ildegarda di tematizzare e comprendere, almeno in parte, il contenuto delle sue visioni. Ella, oltre a libri di teologia e di mistica, compose anche opere di medicina e di scienze naturali. Numerose sono anche le lettere — circa quattrocento — che indirizzò a persone semplici, a comunità religiose, a papi, vescovi e autorità civili del suo tempo. Fu anche compositrice di musica sacra. Il corpus dei suoi scritti, per quantità, qualità e varietà di interessi, non ha paragoni con alcun’altra autrice del Medio Evo. 

Le opere principali sono lo Scivias, il Liber vitae meritorum e il Liber divinorum operum. Tutte narrano le sue visioni e l’incarico ricevuto dal Signore di trascriverle. Le Lettere, nella consapevolezza delle stessa autrice, non rivestono una minore importanza e testimoniano l’attenzione di Ildegarda alle vicende del suo tempo, che ella interpreta alla luce del mistero di Dio. A queste vanno aggiunti 58 sermoni, diretti esclusivamente alle sue Consorelle. Si tratta delle Expositiones Evangeliorum, contenenti un commento letterale e morale a brani evangelici legati alle principali celebrazioni dell’anno liturgico. I lavori a carattere artistico e scientifico si concentrano in modo specifico sulla musica con la Symphonia armoniae caelestium revelationum; sulla medicina con il Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum e il Causae et curae; sulle scienze naturali con la Physica. Infine si notano anche scritti di carattere linguistico, come la Lingua ignota e le Litterae ignotae, nei quali compaiono parole in una lingua sconosciuta di sua invenzione, ma composta prevalentemente di fonemi presenti nella lingua tedesca.
Il linguaggio di Ildegarda, caratterizzato da uno stile originale ed efficace, ricorre volentieri ad espressioni poetiche dalla forte carica simbolica, con folgoranti intuizioni, incisive analogie e suggestive metafore.

4.  Con acuta sensibilità sapienziale e profetica, Ildegarda fissa lo guardo sull’evento della rivelazione. La sua indagine si sviluppa a partire dalla pagina biblica, alla quale, nelle successive fasi, resta saldamente ancorata. Lo sguardo della Mistica di Bingen non si limita ad affrontare singole questioni, ma vuole offrire una sintesi di tutta la fede cristiana. Nelle sue visioni e nella successiva riflessione, pertanto, ella compendia la storia della salvezza, dall’inizio dell’universo alla consumazione escatologica. La decisione di Dio di compiere l’opera della creazione è la prima tappa di questo immenso percorso, che, alla luce della Sacra Scrittura, si snoda dalla costituzione della gerarchia celeste fino alla caduta degli angeli ribelli e al peccato dei progenitori. A questo quadro iniziale fa seguito l’incarnazione redentrice del Figlio di Dio, l’azione della Chiesa che continua nel tempo il mistero dell’incarnazione e la lotta contro satana. L’avvento definitivo del regno di Dio e il giudizio universale saranno il coronamento di questa opera.

Ildegarda pone a se stessa e a noi la questione fondamentale se sia possibile conoscere Dio: è questo il compito fondamentale della teologia. La sua risposta è pienamente positiva: mediante la fede, come attraverso una porta, l’uomo è in grado di avvicinarsi a questa conoscenza. Tuttavia Dio conserva sempre il suo alone di mistero e di incomprensibilità. Egli si rende intelligibile nel creato, ma questo, a sua volta, non viene compreso pienamente se viene distaccato da Dio. Infatti, la natura considerata in sé fornisce solo delle informazioni parziali, che non di rado diventano occasioni di errori e di abusi. Perciò anche nella dinamica conoscitiva naturale occorre la fede, altrimenti la conoscenza resta limitata, insoddisfacente e fuorviante.
La creazione è un atto di amore, grazie al quale il mondo può emergere dal nulla: dunque tutta la scala delle creature è attraversata, come la corrente di un fiume, dalla carità divina. Fra tutte le creature, Dio ama in modo particolare l’uomo e gli conferisce una straordinaria dignità, donandogli quella gloria che gli angeli ribelli hanno perduto. L’umanità, così, può essere considerata come il decimo coro della gerarchia angelica. Ebbene, l’uomo è in grado di conoscere Dio in se stesso, cioè la sua individua natura nella trinità delle persone. Ildegarda si accosta al mistero della Santissima Trinità nella linea già proposta da Sant’Agostino: per analogia con la propria struttura di essere razionale, l’uomo è in grado di avere almeno un’immagine della intima realtà di Dio. Ma è solo nell’economia dell’incarnazione e della vicenda umana del Figlio di Dio che questo mistero diventa accessibile alla fede e alla consapevolezza dell’uomo. La santa ed ineffabile Trinità nella somma unità era nascosta ai servitori della legge antica. Ma nella nuova grazia veniva rivelata ai liberati dalla servitù. La Trinità si è rivelata in modo particolare nella croce del Figlio.
Un secondo «luogo» in cui Dio si rende conoscibile è la sua parola contenuta nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Proprio perché Dio «parla», l’uomo è chiamato all’ascolto. Questo concetto offre a Ildegarda l’occasione di esporre la sua dottrina sul canto, in modo particolare quello liturgico. Il suono della parola di Dio crea vita e si manifesta nelle creature. Anche gli esseri privi di razionalità, grazie alla parola creatrice vengono coinvolti nel dinamismo creaturale. Ma, naturalmente, è l’uomo quella creatura che, con la sua voce, può rispondere alla voce del Creatore. E può farlo in due modi principali: in voce oris, cioè nella celebrazione della liturgia, e in voce cordis, cioè con una vita virtuosa e santa. L’intera vita umana, pertanto, può essere interpretata come un’armonia e una sinfonia: mentre l’armonia significa la restaurazione della relazione e la piena esperienza della redenzione, l’attuale esistenza umana con i suoi pericoli, contraddizioni e peccati, corrisponde a una sinfonia, a un insieme di suoni e di accordi allo stesso modo armoniosi e dissonanti. In questa sinfonia Dio fa ascoltare soprattutto la sua misericordia.
5. L’antropologia di Ildegarda prende inizio dalla pagina biblica della creazione dell’uomo (Gen 1, 26), fatto a immagine e somiglianza di Dio. L’uomo, secondo la cosmologia ildegardiana fondata sulla Bibbia, racchiude tutti gli elementi del mondo, perché l’universo intero si riassume in lui, che è formato della materia stessa della creazione. Perciò egli può in modo consapevole entrare in rapporto con Dio. Ciò accade non per una visione diretta, ma, seguendo la celebre espressione paolina, «come in uno specchio» (1 Cor 13, 12). L’immagine divina nell’uomo consiste nella sua razionalità, strutturata in intelletto e volontà. Grazie all’intelletto l’uomo è capace di distinguere il bene e il male, grazie alla volontà egli è spinto all’azione.
L’uomo è visto come unità di corpo e di anima. Si nota nella Mistica tedesca un apprezzamento positivo della corporeità e, anche negli aspetti di fragilità che il corpo manifesta, ella è capace di cogliere un valore provvidenziale: il corpo non è un peso di cui liberarsi e, perfino quando è debole e fragile, «educa» l’uomo al senso della creaturalità e dell’umiltà, proteggendolo dalla superbia e dall’arroganza. In una visione Ildegarda contempla le anime dei beati del paradiso, che sono in attesa di ricongiungersi ai loro corpi. Infatti, come per il corpo di Cristo, anche i nostri corpi sono orientati verso la risurrezione gloriosa, per una profonda trasformazione per la vita eterna. La stessa visione di Dio, nella quale consiste la vita eterna, non si può conseguire in modo definitivo senza il corpo.

L’uomo esiste nella forma maschile e femminile. Ildegarda riconosce che in questa struttura ontologica della condizione umana si radica una relazione di reciprocità e una sostanziale uguaglianza tra uomo e donna. Nell’umanità, però, abita anche il mistero del peccato ed esso si manifesta per la prima volta nella storia proprio in questo rapporto tra Adamo ed Eva. A differenza di altri autori medievali, che vedevano la causa della caduta nella debolezza di Eva, Ildegarda la coglie soprattutto nella smodata passione di Adamo verso di lei.
Anche nella sua condizione di peccatore, l’uomo continua ad essere destinatario dell’amore di Dio, perché questo amore è incondizionato e, dopo la caduta, assume il volto della misericordia. Perfino la punizione che Dio infligge all’uomo e alla donna fa emergere l’amore misericordioso del Creatore. In tal senso, la più precisa descrizione della creatura umana è quella di un essere in cammino, homo viator. In questo pellegrinaggio verso la patria, l’uomo è chiamato ad una lotta per poter scegliere costantemente il bene ed evitare il male.
La scelta costante del bene produce un’esistenza virtuosa. Il Figlio di Dio fatto uomo è il soggetto di tutte le virtù, perciò l’imitazione di Cristo consiste proprio in un’esistenza virtuosa nella comunione con Cristo. La forza delle virtù deriva dallo Spirito Santo, infuso nei cuori dei credenti, che rende possibile un comportamento costantemente virtuoso: questo è lo scopo dell’umana esistenza. L’uomo, in tal modo, sperimenta la sua perfezione cristiforme.

6.  Per poter raggiungere questo scopo, il Signore ha donato i sacramenti alla sua Chiesa. La salvezza e la perfezione dell’uomo, infatti, non si compiono solo mediante uno sforzo della volontà, bensì attraverso i doni della grazia che Dio concede nella Chiesa.

La Chiesa stessa è il primo sacramento che Dio pone nel mondo perché comunichi agli uomini la salvezza. Essa, che è la «costruzione delle anime viventi», può essere giustamente considerata come vergine, sposa e madre e, dunque, è strettamente assimilata alla figura storica e mistica della Madre di Dio. La Chiesa comunica la salvezza anzitutto custodendo e annunziando i due grandi misteri della Trinità e dell’Incarnazione, che sono come i due «sacramenti primari», poi mediante l’amministrazione degli altri sacramenti. Il vertice della sacramentalità della Chiesa è l’eucaristia. I sacramenti producono la santificazione dei credenti, la salvezza e la purificazione dei peccati, la redenzione, la carità e tutte le altre virtù. Ma, ancora una volta, la Chiesa vive perché Dio in essa manifesta il suo amore intratrinitario, che si è rivelato in Cristo. Il Signore Gesù è il mediatore per eccellenza. Dal grembo trinitario egli viene incontro all’uomo e dal grembo di Maria egli va incontro a Dio: come Figlio di Dio è l’amore incarnato, come Figlio di Maria è il rappresentante dell’umanità davanti al trono di Dio.

L’uomo può giungere perfino a sperimentare Dio. Il rapporto con lui, infatti, non si consuma nella sola sfera della razionalità, ma coinvolge in modo totale la persona. Tutti i sensi esterni e interni dell’uomo sono interessati nell’esperienza di Dio: «Homo autem ad imaginem et similitudinem Dei factus est, ut quinque sensibus corporis sui operetur; per quos etiam divisus non est, sed per eos est sapiens et sciens et intellegens opera sua adimplere. [...] Sed et per hoc, quod homo sapiens, sciens et intellegens est, creaturas conosci; itaque per creaturas et per magna opera sua, quae etiam quinque sensibus suis vix comprehendit, Deum cognoscit, quem nisi in fide videre non valet» (Explanatio Symboli Sancti Athanasii: pl 197, 1066). Questa via esperienziale, ancora una volta, trova la sua pienezza nella partecipazione ai sacramenti.

Ildegarda vede anche le contraddizioni presenti nella vita dei singoli fedeli e denunzia le situazioni più deplorevoli. In modo particolare, ella sottolinea come l’individualismo nella dottrina e nella prassi da parte tanto dei laici quanto dei ministri ordinati sia un’espressione di superbia e costituisca il principale ostacolo alla missione evangelizzatrice della Chiesa verso i non cristiani.

Una delle vette del magistero di Ildegarda è l’accorata esortazione a una vita virtuosa che ella rivolge a chi si impegna in uno stato di consacrazione. La sua comprensione della vita consacrata è una vera «metafisica teologica», perché fermamente radicata nella virtù teologale della fede, che è la fonte e la costante motivazione per impegnarsi a fondo nell’obbedienza, nella povertà e nella castità. Nel realizzare i consigli evangelici la persona consacrata condivide l’esperienza di Cristo povero, casto e obbediente e ne segue le orme nell’esistenza quotidiana. Questo è l’essenziale della vita consacrata.
7. L’eminente dottrina di Ildegarda riecheggia l’insegnamento degli apostoli, la letteratura patristica e gli autori contemporanei, mentre trova nella Regola di San Benedetto da Norcia un costante punto di riferimento. La liturgia monastica e l’interiorizzazione della Sacra Scrittura costituiscono le linee-guida del suo pensiero, che, concentrandosi nel mistero dell’Incarnazione, si esprime in una profonda unità stilistica e contenutistica che percorre intimamente tutti i suoi scritti.
L’insegnamento della santa monaca benedettina si pone come una guida per l’homo viator. Il suo messaggio appare straordinariamente attuale nel mondo contemporaneo, particolarmente sensibile all’insieme dei valori proposti e vissuti da lei. Pensiamo, ad esempio, alla capacità carismatica e speculativa di Ildegarda, che si presenta come un vivace incentivo alla ricerca teologica; alla sua riflessione sul mistero di Cristo, considerato nella sua bellezza; al dialogo della Chiesa e della teologia con la cultura, la scienza e l’arte contemporanea; all’ideale di vita consacrata, come possibilità di umana realizzazione; alla valorizzazione della liturgia, come celebrazione della vita; all’idea di riforma della Chiesa, non come sterile cambiamento delle strutture, ma come conversione del cuore; alla sua sensibilità per la natura, le cui leggi sono da tutelare non da violare.
Perciò l’attribuzione del titolo di Dottore della Chiesa universale a Ildegarda di Bingen ha un grande significato per il mondo di oggi e una straordinaria importanza per le donne. In Ildegarda risultano espressi i più nobili valori della femminilità: perciò anche la presenza della donna nella Chiesa e nella società viene illuminata dalla sua figura, sia nell’ottica della ricerca scientifica sia in quella dell’azione pastorale. La sua capacità di parlare a coloro che sono lontani dalla fede e dalla Chiesa rendono Ildegarda una testimone credibile della nuova evangelizzazione.
In virtù della fama di santità e della sua eminente dottrina, il 6 marzo 1979 il Signor Cardinale Joseph Höffner, Arcivescovo di Colonia e Presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, insieme con i Cardinali, Arcivescovi e Vescovi della medesima Conferenza, tra i quali eravamo anche Noi quale Cardinale Arcivescovo di Monaco e Frisinga, sottopose al Beato Giovanni Paolo II la Supplica, affinché Ildegarda di Bingen fosse dichiarata Dottore della Chiesa universale. Nella Supplica, l’Em.mo Porporato metteva in evidenza l’ortodossia della dottrina di Ildegarda, riconosciuta nel XII secolo da Papa Eugenio III, la sua santità costantemente avvertita e celebrata dal popolo, l’autorevolezza dei suoi trattati. A tale Supplica della Conferenza Episcopale Tedesca, negli anni se ne sono aggiunte altre, prima fra tutte quella delle Monache del monastero di Eibingen, a lei intitolato. Al desiderio comune del Popolo di Dio che Ildegarda fosse ufficialmente proclamata santa, dunque, si è aggiunta la richiesta che sia anche dichiarata «Dottore della Chiesa universale».
Con il nostro consenso, pertanto, la Congregazione delle Cause dei Santi diligentemente preparò una Positio super Canonizatione et Concessione tituli Doctoris Ecclesiae universalis per la Mistica di Bingen. Trattandosi di una rinomata maestra di teologia, che è stata oggetto di molti e autorevoli studi, abbiamo concesso la dispensa da quanto disposto dall’art. 73 della Costituzione Apostolica Pastor Bonus. Il caso fu quindi esaminato con esito unanimemente positivo dai Padri Cardinali e Vescovi radunati nella Sessione Plenaria del 20 marzo 2012, essendo Ponente della Causa l’Em.mo Card. Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Nell’Udienza del 10 maggio 2012 lo stesso Cardinale Amato Ci ha dettagliatamente informati sullo status quaestionis e sui voti concordi dei Padri della menzionata Sessione Plenaria della Congregazione delle Cause dei Santi. Il 27 maggio 2012, Domenica di Pentecoste, avemmo la gioia di comunicare in Piazza San Pietro alla moltitudine dei pellegrini convenuti da tutto il mondo la notizia del conferimento del titolo di Dottore della Chiesa universale a Santa Ildegarda di Bingen e san Giovanni d’Ávila all’inizio dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi e alla vigilia dell’Anno della Fede.
Oggi, dunque, con l’aiuto di Dio e il plauso di tutta la Chiesa, ciò è fatto. In Piazza San Pietro, alla presenza di molti Cardinali e Presuli della Curia Romana e della Chiesa cattolica, confermando ciò che è stato fatto e soddisfacendo con grande piacere i desideri dei supplicanti, durante il sacrificio Eucaristico abbiamo pronunziato queste parole: 
«Noi accogliendo il desiderio di molti Fratelli nell’Episcopato e di molti fedeli del mondo intero, dopo aver avuto il parere della Congregazione delle Cause dei Santi, dopo aver lungamente riflettuto e avendo raggiunto un pieno e sicuro convincimento, con la pienezza dell’autorità apostolica dichiariamo  San Giovanni d’Avila, sacerdote diocesano, e Santa Ildegarda di Bingen, monaca professa dell’Ordine di San Benedetto, Dottori della Chiesa universale, Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
Queste cose decretiamo e ordiniamo, stabilendo che questa lettera sia e rimanga sempre certa, valida ed efficace, e che sortisca e ottenga i suoi effetti pieni e integri; e così convenientemente si giudichi e si definisca; e sia vano e senza fondamento quanto diversamente intorno a ciò possa essere tentato da chiunque con qualsivoglia autorità, scientemente o per ignoranza. 

Dato a Roma, presso San Pietro,
col sigillo del Pescatore, 
il 7 ottobre 2012, anno ottavo 
del Nostro Pontificato.

BENEDICTUS PP. XVI