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domenica 2 aprile 2017

MA E' SEMPRE CON NOI. Grazie Karol



L'unico che teneva saldamente in mano le redini della Mia Chiesa
Attraverso di lui vi ho dato disposizioni, 
vi ho fatto da guida
Lui stesso vi è stato d'esempio in tutto


martedì 3 gennaio 2017

Cari confratelli sacerdoti: Il ministero sacerdotale è essenzialmente missionario: ciò significa essere mandati per gli altri, come Cristo fu mandato dal Padre suo, per la causa del Vangelo, ad evangelizzare.

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SANTA MESSA PER I SACERDOTI AMERICANI
OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II
Filadelfia - Giovedì, 4 ottobre 1979

Cari confratelli sacerdoti.
1. Celebrando questa messa, che riunisce insieme i presidenti degli organismi presbiterali, o Consigli, di tutte le diocesi degli Stati Uniti, il tema vitale che s’impone alla nostra riflessione è uno solo: il sacerdozio e la sua importanza centrale nella missione della Chiesa. Nell’enciclica Redemptor Hominis ho descritto tale compito con le seguenti parole: “Il compito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare della nostra, è di dirigere lo sguardo dell’uomo, di indirizzare la coscienza e l’esperienza di tutta l’umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della Redenzione, che avviene in Cristo Gesù” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 10).
I Consigli presbiterali costituiscono una struttura nuova nella Chiesa, voluti dal Concilio Vaticano II e dalla recente legislazione della Chiesa. Questa nuova struttura dà una concreta espressione all’unità del Vescovo e dei presbiteri nel servizio pastorale del gregge di Cristo, e assiste il Vescovo nel suo compito specifico di governare la diocesi, fornendogli il consiglio di collaboratori rappresentativi scelti tra il presbiterio. La concelebrazione dell’odierna Eucaristia vuol essere un segno di conferma del bene compiuto dai vostri Consigli presbiterali durante gli anni passati, ed al tempo stesso un incoraggiamento a continuare con entusiasmo e decisione a perseguire quest’importante meta qual è quella di “promuovere la conformità della vita e dell’azione del popolo di Dio con il Vangelo” (Ecclesiae sanctae, 16 § 1). Ma al disopra di tutto il desiderio che questa messa costituisca una speciale occasione per parlare, attraverso di voi, a tutti i miei fratelli sacerdoti di questa nazione intorno al nostro sacerdozio. Con grande amore ripeto le parole che vi ho scritto il Giovedì Santo: “Per voi io sono Vescovo, con voi sono sacerdote”.
La nostra vocazione sacerdotale ci è stata data da Gesù stesso. È una chiamata personale e individuale: siamo stati chiamati per nome, come Geremia. È una chiamata al servizio; siamo mandati a predicare la Buona Novella di Dio, a dedicare “la cura del pastore al gregge di Dio”. È chiamata a una comunione di intenti e di azione: costituire un unico sacerdozio con Gesù e fra di noi, proprio come Gesù e il Padre sono una cosa sola: un’unità così ben simboleggiata in questa messa concelebrata.
Il sacerdozio non è soltanto un compito assegnatoci: è una vocazione, una chiamata a cui prestare continuamente ascolto. Ascoltare questa chiamata e rispondere generosamente a quanto essa comporta è compito di ogni sacerdote, ma è anche responsabilità del Consiglio Presbiterale. Questa responsabilità significa approfondire e comprendere il sacerdozio così come Cristo lo ha istituito, così come egli ha voluto che fosse e che rimanesse, così come la Chiesa fedelmente lo spiega e lo trasmette. Fedeltà alla chiamata al sacerdozio significa costruire questo sacerdozio insieme col popolo di Dio mediante una vita di servizio in accordo con le priorità apostoliche: concentrare tutto “nella preghiera e nel ministero della Parola” (At 6,4).
Nel Vangelo di San Marco la vocazione sacerdotale dei Dodici Apostoli è come un bocciolo, la cui fioritura dispiega tutta una teologia del sacerdozio. Nel pieno del ministero di Gesù, noi leggiamo che egli “salì sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui ed anche per mandarli a predicare“; poi il passo evangelico elenca i nomi dei Dodici Apostoli (Mc 3,13-14). Noi qui scorgiamo tre aspetti significativi della chiamata di Gesù: per prima cosa egli chiamò i suoi primi sacerdoti individualmente e per nome; li chiamò al servizio della sua Parola, perché predicassero il Vangelo; e li fece suoi compagni, associandoli all’unità di vita e di azione che egli condivide col Padre nel più profondo della vita trinitaria.

2. Esploriamo questa triplice dimensione del nostro sacerdozio riflettendo sulle odierne letture bibliche. Infatti il Vangelo colloca nella tradizione della vocazione profetica la chiamata dei Dodici Apostoli da parte di Gesù. Quando un sacerdote riflette alla vocazione di Geremia all’ufficio profetico, rimane al tempo stesso rassicurato e scosso: “Non temere... perché io sono con te per proteggerti”, dice il Signore a tutti quelli che chiama, “ecco, metto le mie parole sulla tua bocca”. Chi non resterebbe confortato nell’udire queste rassicuranti parole divine? Quando noi consideriamo perché sono necessarie queste parole rassicuratrici, non vediamo forse in noi stessi quella stessa riluttanza che ritroviamo nella risposta di Geremia? Come lui, talvolta, il nostro concetto di questo ministero è troppo legato alla terra: manchiamo di fiducia in Colui che ci chiama. Possiamo anche rimanere attaccati a una nostra visione del ministero, pensando che esso dipenda troppo dai nostri talenti e capacità, ed a volte dimenticando che è Dio che ci chiama, come chiamò Geremia dal grembo materno. La cosa principale non è né il nostro lavoro né la nostra capacità; siamo chiamati a pronunciare le parole di Dio, non le nostre; ad amministrare i sacramenti che egli ha affidato alla Chiesa; chiamare il popolo ad un amore che egli per primo ha reso possibile.
Perciò arrendersi alla chiamata di Dio dev’essere compiuto con estrema fiducia e senza riserve. La nostra resa alla volontà di Dio dev’essere totale: il sì detto una volta per sempre modellandosi sul sì detto da Gesù stesso. Come ci dice San Paolo: “Come Dio mantiene la sua parola, io dichiaro che la mia parola verso di voi non è ora sì e ora no, ma in lui c’è stato il sì” (2Cor 1,18-19).
Questa chiamata di Dio è una grazia: è un dono, un tesoro “che noi abbiamo in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” (2Cor 4,7). Ma questo dono non è dato al sacerdote prima di tutto per lui stesso, è anzi un dono di Dio all’intera Chiesa e per la sua missione nel mondo. Il sacerdozio è un segno sacramentale stabile il quale dimostra che l’amore del Buon Pastore per il suo gregge non verrà mai meno. Nella mia lettera ai sacerdoti, lo scorso Giovedì Santo, ho sviluppato quest’aspetto del sacerdozio come dono di Dio: il nostro sacerdozio – dicevo – “costituisce un particolare “ministerium”, cioè è “servizio” nei riguardi della comunità dei credenti. Non trae però origine da questa comunità, come se fosse essa a “chiamare” o a “delegare”. Il sacerdozio sacramentale è, invero, dono per questa comunità e proviene da Cristo stesso, dalla pienezza del suo sacerdozio” (Giovanni Paolo II, Epistula ad universos Ecclesiae Sacerdotes adveniente Feria V in Cena Domini anno MCMLXXIX, 8 aprile 1979, 4).
In quest’offerta di doni al suo popolo è il divin donatore a prendere l’iniziativa; è lui che chiama “chi lui stesso ha stabilito”.
Di qui, quando riflettiamo all’intimità tra il Signore e il suo profeta, il suo sacerdote – un’intimità che sgorga come risultante dalla chiamata con la quale egli ha preso l’iniziativa – noi siamo in grado di comprendere meglio certe caratteristiche del sacerdozio e renderci conto della loro rispondenza con la missione della Chiesa d’oggi come con quella del passato:
a) Il sacerdozio è per sempre – “Tu es sacerdos in aeternum” – noi non riprendiamo il dono una volta offerto. Non è possibile che Dio, il quale ha dato impulso a dire sì, ora voglia udire no!
b) Né deve sorprendere il mondo che la chiamata di Dio mediante la Chiesa continui a proporci un ministero celibatario di amore e di servizio, sull’esempio di Nostro Signore Gesù Cristo. L’amore di Dio, infatti, ci ha toccati nelle profondità del nostro essere. E dopo secoli di esperienze, la Chiesa sa quanto profondamente convenga che i preti possano dare questa concreta risposta nelle loro vite per esprimere la totalità del sì che hanno detto al Signore quando questi li chiamò per nome, al proprio servizio.
c) Il fatto che una chiamata personale, individuale al sacerdozio sia data dal Signore agli “uomini da lui prescelti” è in accordo con la tradizione profetica. Ciò dovrebbe aiutarci a comprendere che la tradizionale decisione della Chiesa di chiamare al sacerdozio degli uomini, e non chiamare delle donne, non comporta una dichiarazione di diritti umani né esclusione delle donne dalla santità e dalla missione della Chiesa. Piuttosto questa decisione esprime il convincimento della Chiesa circa questa particolare dimensione del dono del sacerdozio, mediante il quale Dio ha scelto di pascere il suo gregge.

3. Cari fratelli: “Il gregge di Dio è in mezzo a voi; dedicate ad esso le cure del pastore”. Com’è strettamente legato all’essenza della nostra comprensione del sacerdozio il compito di pastore; nella storia della salvezza questa è un’immagine ricorrente della cura di Dio per il suo popolo. E solo nell’ufficio di Gesù, il Buon Pastore, può essere compreso il nostro pastorale ministero come sacerdoti. Ricordate come, nel chiamare i Dodici, Gesù li chiamò ad essere i suoi compagni precisamente “per mandarli a predicare la Buona Novella”. Il sacerdozio è missione e servizio; esso è mandato da Gesù per “prodigare al suo gregge una cura di pastore”. Questa caratteristica del sacerdote – per richiamare una bella espressione su Gesù come “uomo-per-gli-altri” – ci mostra il senso genuino del “prodigare una cura di pastore”. Esso sta a indicare la consapevolezza dell’umanità al mistero di Dio, alla profondità della redenzione che si realizza in Cristo Gesù. Il ministero sacerdotale è essenzialmente missionario: ciò significa essere mandati per gli altri, come Cristo fu mandato dal Padre suo, per la causa del Vangelo, ad evangelizzare. Secondo le parole di Paolo VI, “evangelizzare significa portare la Buona Novella a tutti gli strati dell’umanità... e rinnovarli” (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 18). Alla base e al centro del suo dinamismo, l’evangelizzazione contiene una chiara enunciazione che la salvezza sta in Gesù Cristo, Figlio di Dio. Il suo nome, il suo insegnamento, la sua vita, le sue promesse, il suo regno e il suo mistero noi proclamiamo al mondo. E l’efficacia di questa nostra proclamazione e quindi il vero successo del nostro sacerdozio dipendono dalla nostra fedeltà al Magistero mediante il quale la Chiesa custodisce “il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi” (2Tm 1,14).
Come modello di ogni ministero e apostolato nella Chiesa, il ministero sacerdotale non dev’essere mai concepito in termini di cosa acquisita; in quanto dono, esso è un dono che dev’essere proclamato e condiviso con gli altri. Non lo si vede chiaramente nell’insegnamento di Gesù, quando la madre di Giacomo e Giovanni domandò che i suoi due figli sedessero alla destra e alla sinistra nel suo regno? “I capi delle nazioni dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo fra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,25-28).
Proprio come Gesù fu perfettamente un uomo-per-gli-altri, dandosi completamente sulla croce, così il sacerdote è soprattutto servo e “uomo-per-gli-altri” quando agisce in persona Christi nell’Eucaristia, guidando la Chiesa in quella celebrazione in cui si rinnova il Sacrificio della Croce. Perciò nel quotidiano sacrificio eucaristico della Chiesa la Buona Novella, che gli Apostoli furono inviati ad annunziare, viene predicata nella sua pienezza; l’opera della nostra redenzione viene rinnovata.
Quanto perfettamente i Padri del Concilio Vaticano II afferrarono questa verità fondamentale nel loro decreto sulla vita e ministero sacerdotale: “Gli altri sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere di apostolato, sono strettamente uniti alla Sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati... Per questo l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione” (Presbyterorum Ordinis, 5). Nella celebrazione dell’Eucaristia noi sacerdoti siamo proprio nel cuore del nostro ministero di servizio, nel “prodigare al gregge di Dio una cura di pastore”. Tutti i nostri sforzi pastorali sono incompleti fin quando il nostro popolo non sarà guidato alla piena ed attiva partecipazione al Sacrificio Eucaristico.

4. Ricordiamo come Gesù chiamò i Dodici come suoi compagni. La chiamata al servizio sacerdotale include l’invito a una particolare intimità con Cristo. L’esperienza vissuta dei sacerdoti in ogni generazione li ha portati a scoprire nelle loro vite e nel loro ministero l’assoluta centralità della loro unione personale con Gesù, dell’essere suoi compagni. Nessuno può, in effetti, portare agli altri la Buona Novella di Gesù se egli stesso per primo non si è fatto suo costante compagno attraverso la preghiera personale, se non ha appreso da Gesù il mistero che deve annunziare.
Questa unione con Gesù, modellata sulla sua unità col Padre, riveste un’ulteriore intrinseca dimensione, come mostra la sua preghiera durante l’Ultima Cena: “Perché siano una cosa sola, Padre, come noi” (Gv 17,11). Il suo sacerdozio è uno, e questa unità dev’essere attuale ed effettiva tra i compagni da lui scelti. Di qui l’unità tra i sacerdoti, vissuta in fraternità ed amicizia, diventa esigenza e parte integrante della vita d’un prete.
L’unità tra i sacerdoti non è un’unità o fraternità fine a se stessa. Essa è per amore del Vangelo, per simboleggiare, nell’attuazione del sacerdozio, l’essenziale direzione alla quale il Vangelo chiama tutti quanti: l’unione d’amore con lui e vicendevolmente con gli altri. E solo questa unione può garantire pace, giustizia e dignità ad ogni essere umano. Senza dubbio è questo il significato soggiacente alla preghiera di Gesù, quando egli continua: “Prego anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola come tu, Padre, sei in me ed io in te” (Gv 17,20-21). Perciò come potrà il mondo credere che il Padre ha mandato Gesù se non vede in modo tangibile che coloro i quali credono in Cristo hanno ascoltato il suo comandamento di “amarsi a vicenda”? E come potranno i credenti essere assicurati che questo amore è concretamente possibile, se non hanno l’esempio dell’unità dei loro sacerdoti, di coloro che Gesù stesso si forma nel sacerdozio come suoi compagni?
Miei fratelli sacerdoti: non abbiamo forse toccato il cuore dell’argomento: il nostro zelo per il sacerdozio stesso? Esso è inseparabile da quello per il servizio del popolo. Questa Messa concelebrata – la quale simbolizza così bene l’unità del nostro sacerdozio – offre a tutto il mondo la testimonianza di quell’unità per la quale Gesù pregò il Padre suo a nostro vantaggio. Ma non deve diventare una pura manifestazione passeggera, che renderebbe sterile la parola di Gesù. Ogni Eucaristia rinnova questa preghiera per l’unità: “Ricordati, Signore, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra; rendila perfetta nell’amore in unione con il nostro Papa Giovanni Paolo, il nostro vescovo e tutto l’ordine sacerdotale”.
I vostri Consigli Presbiterali, come nuove strutture nella Chiesa, forniscono una meravigliosa opportunità di testimoniare visibilmente l’unico sacerdozio che voi partecipate con i vostri Vescovi e vicendevolmente, e per dimostrare che cosa dev’essere al centro del rinnovamento di ogni struttura ecclesiale: l’unità per la quale Cristo ha pregato.

5. All’inizio di questa omelia io vi ho addebitato il compito di assumere la responsabilità del vostro sacerdozio, un compito per ciascuno di voi personalmente, un compito da dividere con tutti i sacerdoti e che riguarda in modo particolare i vostri Consigli Presbiterali. La fede di tutta la Chiesa esige di avere ben chiara la comprensione esatta del sacerdozio e del suo posto nella missione della Chiesa. Così la Chiesa dipende da voi nell’approfondire sempre più questa comprensione, e per metterla in pratica nelle vostre vite e nel vostro ministero. In altre parole: per partecipare il dono del vostro sacerdozio alla Chiesa rinnovando la risposta che avete già data all’invito di Cristo: “Vieni, seguimi”, offrendo completamente voi stessi, come aveva fatto lui.
A volte sentiamo dire: “Pregate per i sacerdoti”. E oggi io rivolgo queste parole come un appello, come un’invocazione a tutti i fedeli della Chiesa negli Stati Uniti. Pregate per i sacerdoti, affinché ognuno di essi voglia costantemente ripetere il suo sì alla vocazione ricevuta, rimanere saldo nel predicare il messaggio evangelico, e fedele per sempre come compagno di Nostro Signore Gesù Cristo.

Cari fratelli sacerdoti, poiché rinnoviamo il mistero pasquale e stiamo come discepoli ai piedi della Croce insieme con Maria, la Madre di Gesù, permettetemi di affidarvi ad essa. Nel suo amore troveremo la forza per la nostra debolezza, la gioia per i nostri cuori.

mercoledì 14 dicembre 2016

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II, SAN GIOVANNI DELLA CROCE

VIAGGIO APOSTOLICO IN SPAGNA
CELEBRAZIONE DELLA PAROLA IN ONORE DI SAN GIOVANNI DELLA CROCE
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Segovia, 4 novembre 1982

1. “Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore di esse . . . se sono
colpiti dalla loro potenza e attività, pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati . . .; se, stupiti per la loro bellezza . . . pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza” (Sap 13, 5.4.3).
Abbiamo proclamato queste parole del libro della Sapienza, cari fratelli e sorelle, nel corso di
questa celebrazione in onore di san Giovanni della Croce, accanto al suo sepolcro. Il libro della Sapienza ci parla della conoscenza di Dio per mezzo delle creature; della conoscenza dei beni visibili che rivelano il loro Artefice; della notizia che porta fino al Creatore partendo delle sue opere.

Potremmo benissimo mettere queste parole sulle labbra di Giovanni della Croce e comprendere il
senso profondo che ad esse ha voluto dare l’autore sacro. Sono parole di un saggio e di un poeta che ha conosciuto, amato e cantato la bellezza delle opere di Dio; ma soprattutto, parole di un teologo e di un mistico che ha conosciuto il suo Autore; e che attinge con incredibile radicalità alla fonte della bontà e della bellezza, addolorato per lo spettacolo del peccato che rompe l’originario equilibrio, offusca la ragione, paralizza la volontà, impedisce la contemplazione e l’amore verso
l’Autore della creazione.

2. Rendo grazie alla Provvidenza che mi ha concesso di venire a venerare le reliquie e ad evocare la figura e la dottrina di san Giovanni della Croce, al quale debbo tanto nella mia formazione spirituale. Ho imparato a conoscerlo sin dalla mia giovinezza e sono entrato in un dialogo intimo con questo maestro della fede, con il suo linguaggio e il suo pensiero, fino a culminare con l’elaborazione della mia tesi di dottorato su “La fede in san Giovanni della Croce”. Fin d’allora ho trovato in lui un amico e maestro, che mi ha indicato la luce che brilla nell’oscurità, per camminare sempre verso Dio, “senza altra luce né guida / che quella che nel cuore ardeva / Codesta mi guidava / più certo che la luce del meriggio” (S. Giovanni della Croce, Notte Oscura, 3-4).
In questa occasione saluto cordialmente i membri della provincia e diocesi di Segovia, il loro Pastore, i sacerdoti e i religiosi e religiose, le autorità e tutto il popolo di Dio che vive qui, sotto il cielo limpido della Castilla, così come coloro che sono venuti dai dintorni e dalle altre parti della Spagna.

3. Il santo di Fontiveros è il grande “maestro dei sentieri che conducono all’unione con Dio”. I suoi scritti continuano ad essere attuali e in certo qual modo spiegano e complementano i libri di santa Teresa di Gesù. Egli indica le vie della conoscenza mediante la fede, perché soltanto tale
conoscenza nella fede dispone l’intelletto “all’unione col Dio vivente”.
Quante volte, con una convinzione che sgorga dall’esperienza ci dice che la fede è il mezzo
proprio e adatto per l’unione con Dio!
È sufficiente citare un celebre testo del secondo libro della Salita al Monte Carmelo: “La fede è
essa sola il mezzo più vicino e proporzionato perché l’anima si unisca a Dio . . . perché così come Dio è infinito, essa ce lo propone infinito; e così come Egli è Trino e Uno, ce lo propone Trino e Uno . . . e così per questo solo mezzo, si manifesta Dio all’anima in divina luce, che eccede ogni intendimento. E perciò quanta più fede ha l’anima in Dio, tanto più unita è a Lui” (S. Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, II, 9, 1)
Con questa insistenza sulla purezza della fede, Giovanni della Croce non vuol negare che la
conoscenza di Dio si possa raggiungere gradualmente partendo dalle creature, come insegna il libro della Sapienza e ripete san Paolo nella Lettera ai Romani (cf. Rm 1, 18-21; cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 4, 1). Il dottore mistico insegna che nella fede è anche necessario privarsi delle creature, sia di quelle che si percepiscono per mezzo dei sensi che di quelle che si raggiungono con l’intelletto, per unirsi in una maniera conoscitiva con lo stesso Dio. Questa via che conduce all’unione, passa attraverso la “notte oscura” della fede.

4. L’atto di fede si concentra, secondo il santo, in Gesù Cristo, il quale, come ha affermato il
Vaticano II, “è contemporaneamente il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (Dei
Verbum, 2). Tutti conoscono la meravigliosa pagina del dottore mistico su Cristo come Parola
definitiva del Padre e totalità della rivelazione, in quel dialogo tra Dio e gli uomini: “Egli è tutto il
mio parlare e la mia risposta, Egli è tutta la mia visione e la mia rivelazione. In Lui vi ho già
parlato, risposto, manifestato e rivelato, donandolo a voi come fratello, compagno e maestro, prezzo e premio” (S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, II, 22, 5).

E così raccogliendo noti testi biblici (cf. Mt 17, 5; Eb 1, 1), riassume: “Perché nel donarci, come ci ha dato, il Figlio suo, che è una Parola sua e non ne ha un’altra, ci ha detto tutto ed in una volta sola in questa unica Parola, e non ha più niente da dire” (S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, II, 22, 3). Per questo la fede è la ricerca amorosa del “Dio nascosto” che si rivela in Gesù Cristo, l’Amato (cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, I, 1-3.11).
Per di più, il dottore della fede non tralascia di puntualizzare che “Il Cristo lo troviamo nella
Chiesa”, Sposa e Madre; e che nel suo magistero troviamo la norma sicura della fede, la medicina
delle nostre ferite, la fonte della grazia: “E così”, scrive il santo, “in tutto ci dobbiamo lasciar
guidare dalla legge di Cristo uomo e della Chiesa e i suoi ministri, umanamente e visibilmente, e
tramite questa via rimediare alla nostra ignoranza e pigrizia spirituale; poiché in questa via
troveremo abbondante medicina per ogni cosa” (S. Giovanni della Croce, Salita del Monte
Carmelo, II, 22, 7).

5. In queste parole del dottore mistico troviamo una dottrina di assoluta coerenza e modernità.
Giovanni della Croce invita l’uomo di oggi, angosciato dal significato dell’esistenza, spesso
indifferente alla predicazione della Chiesa, forse scettico riguardo alle mediazioni della rivelazione di Dio, ad una ricerca onesta, che lo conduca fino alla fonte stessa della rivelazione che è il Cristo, la Parola e il Dono del Padre. Lo persuade a prescindere da tutto quello che potrebbe essere un ostacolo per la fede e lo colloca davanti a Cristo. Davanti a Colui che rivela e offre la verità e la vita divina nella Chiesa, la quale nella sua visibilità e nella sua umanità è sempre Sposa di Cristo,
il suo Corpo Mistico, garanzia assoluta della verità della fede (cf. S. Giovanni della Croce, Fiamma viva d’amore, Prol., 1).
Per questo esorta ad intraprendere una ricerca di Dio nella preghiera, affinché l’uomo “si renda
conto” della sua limitatezza temporale e della sua vocazione all’eternità (cf. S. Giovanni della
Croce, Cantico spirituale, 1, 1). Nel silenzio della preghiera si realizza l’incontro con Dio e si
ascolta quella Parola che Dio ci dice in eterno silenzio e che nel silenzio deve essere ascoltata (cf. S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 104). Un grande raccoglimento e un
abbandono interiore, uniti al fervore della preghiera, aprono le profondità dell’anima “al potere purificatore dell’amore divino”.

6. Giovanni della Croce seguì le orme del Maestro, che si ritirava a pregare in luoghi solitari (cf. S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, III, 44, 4). Amò la solitudine sonora dove si ascolta la musica silente, il rumore della fonte che sgorga e zampilla anche se è notte. Lo ha fatto durante le lunghe veglie di preghiera ai piedi dell’Eucarestia, quel pane vivo che dona la vita e che porta fino alla sorgente dell’amore trinitario.
Non si possono dimenticare le immense solitudini del Duruelo, l’oscurità e nudità del carcere di Toledo, i paesaggi andalusi della Peñuela, del Calvario, de los Mártires, a Granada. La bella e sonora solitudine segoviana dell’eremo, nelle rocce di questo convento fondato dal santo. Qui si sono consumati dialoghi d’amore e di fede; fino a quell’ultimo, commovente, che il Santo confidava con queste parole dette al Signore che gli offriva il premio per le sue opere: “Signore, quello che voglio è che Voi mi doniate di patire per Voi, e che sia io disprezzato e tenuto in poco conto”.
Così fino alla consumazione della sua identificazione con Cristo Crocifisso e della sua gloriosa pasqua a Ubeda, quando annunziò che andava a cantare il mattutino in cielo.

7. Una delle cose che più attirano l’attenzione negli scritti di san Giovanni della Croce è la lucidità con cui ha descritto la sofferenza umana, quando l’anima è investita dalla tenebra luminosa e purificatrice della fede.
Le sue osservazioni sorprendono il filosofo, il teologo e perfino lo psicologo. Il dottore mistico ci insegna la necessità di una purificazione passiva, di una notte oscura che Dio provoca nel
credente, affinché sia più pura la sua adesione nella fede, speranza e amore. Infatti è così. La
forza purificatrice dell’anima umana viene da Dio stesso. E Giovanni della Croce fu cosciente,
come pochi, di questa forza purificatrice. Dio stesso purifica l’anima fino ai più profondi abissi del suo essere, accendendo nell’uomo la fiamma viva d’amore: il suo Spirito.
Egli ha contemplato con un’ammirabile profondità di fede, e a partire dalla sua propria esperienza della purificazione della fede, il mistero di Cristo Crocifisso; fino al culmine del suo abbandono sulla croce, dove viene offerto a noi, come esempio e luce dell’uomo spirituale. Lì, il Figlio amato del Padre “ha avuto bisogno di esclamare: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato? (Mt 27, 46)
Quello fu l’abbandono più grande che mai aveva provato nella sua vita. E in esso Gesù ha operato
il miracolo più grande che mai avesse potuto operare nella sua vita, né in terra né in cielo, e che consistette nel riconciliare ed unire il genere umano con Dio” (cf. S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, II, 7, 11).

8. Anche l’uomo moderno, nonostante le sue conquiste, sfiora nella sua esperienza personale e
collettiva l’abisso dell’abbandono, la tentazione del nichilismo, l’assurdità di tante sofferenze
fisiche, morali e spirituali. La notte oscura, la prova che fa toccare il mistero del male ed esige
l’apertura della fede, acquisisce a volte dimensioni di epoca e proporzioni collettive.
Anche il cristiano e la stessa Chiesa possono sentirsi identificati con il Cristo di San Giovanni della Croce, nel culmine del suo dolore e del suo abbandono. Tutte queste sofferenze sono state
assunte dal Cristo nel suo grido di dolore e nella sua fiduciosa consegna al Padre. Nella fede, la
speranza e l’amore, la notte si converte in giorno, la sofferenza in gioia, la morte in vita.
Giovanni della Croce, con la sua esperienza, ci invita alla fiducia, a lasciarci purificare da Dio;
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nella fede intessuta di speranza e di amore, la notte comincia a conoscere “le luci dell’aurora”; si
fa luminosa come una notte di Pasqua - “O vere beata nox”, “Oh notte amabile più dell’alba” - e
annuncia la risurrezione e la vittoria, la venuta dello Sposo che unisce a sé e trasforma il cristiano:
“Amata nell’Amato trasformata”.
Magari le notti oscure che si addensano sulle coscienze individuali e sulle collettività del nostro tempo fossero vissute nella fede pura; nella speranza “che tanto ottiene quanto spera”; nell’amore ardente della forza dello Spirito, affinché si convertano in giornate luminose per la nostra umanità addolorata, in vittoria del Risorto che libera col potere della sua croce!

9. Abbiamo ricordato nella lettura del Vangelo le parole del profeta Isaia, che Cristo fece sue: “Lo
Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19).
Anche il “santo Fraticello Giovanni” - come lo chiamava la madre Teresa - fu, come Cristo, un
povero che evangelizzò con immensa gioia e amore i poveri; e la sua dottrina è come una
spiegazione di quel vangelo della liberazione dalle schiavitù e oppressioni del peccato, della
luminosità della fede che guarisce ogni cecità. Se la Chiesa lo venera come dottore mistico sin
dall’anno 1926, è perché riconosce in lui il gran maestro della verità vivente riguardo a Dio e
all’uomo.
La “Salita del Monte” e la “Notte oscura” culminano nella gioiosa libertà dei figli di Dio nella partecipazione alla vita di Dio e alla comunione con la vita trinitaria (cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 39, 3-6). Soltanto Dio può liberare l’uomo; questi acquisisce totalmente dignità e libertà soltanto quando sperimenta in profondità, come san Giovanni della Croce indica, la grazia redentrice e trasformante di Cristo. La vera libertà dell’uomo è la comunione con Dio.

10. Il testo del libro della Sapienza ci avvertiva “Se tanto poterono sapere da scrutare l’universo,
come mai non ne hanno trovato più presto il padrone?” (Sap 13, 19). Ecco una nobile sfida per l’uomo contemporaneo che ha esplorato le vie dell’universo. Ed ecco la risposta del mistico che
dall’altura di Dio scopre l’orma del Creatore nelle sue creature e contempla in anticipo la
liberazione della creazione (cf. Rm 8, 19-21).
Tutta la creazione, dice San Giovanni della Croce, è come bagnata dalla luce dell’Incarnazione e
della Resurrezione: “In questo innalzamento della Incarnazione del suo Figlio e della gloria della sua Resurrezione secondo la carne non soltanto il Padre ha abbellito in parte le creature, ma possiamo dire che le ha completamente vestite di bellezza e dignità” (S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 39, 5.4). Il Dio che è “Bellezza” si riflette nelle sue creature.
In un abbraccio cosmico che in Cristo unisce il cielo e la terra, Giovanni della Croce ha potuto
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esprimere la pienezza della vita cristiana: “Non mi toglierai, Dio mio, quello che una volta mi
donasti nel tuo unico figlio Gesù Cristo in cui mi hai dato tutto quello che voglio . . . Miei sono i cieli
e mia è la terra; miei sono le genti; i giusti sono miei, e miei i peccatori; gli angeli sono miei, e la
Madre di Dio e tutte le cose sono mie, e lo stesso Dio è mio ed è per me, perché Cristo è mio e
tutto per me” (S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 29-31).
11. Fratelli e sorelle: ho voluto con queste mie parole rendere un omaggio di gratitudine a San
Giovani della Croce, teologo e mistico, poeta e artista, “uomo celestiale e divino” - come lo ha
chiamato Santa Teresa di Gesù - amico dei poveri e saggio direttore spirituale delle anime. Egli è
padre e maestro spirituale di tutto il Carmelo Teresiano, il plasmatore di quella fede viva che brilla nei figli più illustri del Carmelo: Teresa di Lisieux, Elisabetta della Trinità, Raffaele Kalinowski, Edith Stein.
Chiedo alle figlie di Giovanni della Croce, le carmelitane scalze, che sappiano vivere l’essenza
contemplativa di quell’amore puro che è eminentemente fecondo per la Chiesa (cf. S. Giovanni
della Croce, Cantico spirituale, 29, 2-3). Raccomando ai suoi figli, i carmelitani scalzi, fedeli custodi di questo convento e animatori del Centro di Spiritualità dedicato al Santo, la fedeltà alla sua dottrina e la dedizione alla direzione spirituale delle anime, così come allo studio e
approfondimento della teologia spirituale.
Per tutti i figli di Spagna e di questa nobile terra segoviana, come garanzia di rigenerazione
ecclesiale, lascio queste magnifiche consegne di san Giovanni della Croce universalmente valide:
intelligenza perspicace per vivere la fede: “Un pensiero dell’uomo vale più di tutto il mondo;
pertanto solo Dio è degno di esso” (S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 32).
Volontà impavida per esercitare la carità: “Dove non c’è amore, metti amore ed otterrai amore” (S.Giovanni della Croce, Lettera 25, a Maria dell’Incarnazione). Una fede solida e confortante, che muova costantemente ad amare veramente Dio e l’uomo; perché alla fine della vita, “quando giungerà la sera sarai giudicato sull’amore” (S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 64).
Con la mia benedizione apostolica per tutti.

sabato 22 ottobre 2016

Aprite le porte a Cristo! (L'UNICA VIA VERITA' E VITA!)



"Non abbiate paura! 
Aprite le porte a Cristo!"


"Pietro è venuto a Roma! Cosa lo ha guidato e condotto a questa Urbe, cuore dell’Impero Romano, se non l’obbedienza all’ispirazione ricevuta dal Signore? Forse questo pescatore di Galilea non avrebbe voluto venire fin qui. Forse avrebbe preferito restare là, sulle rive del lago di Genesareth, con la sua barca, con le sue reti. Ma, guidato dal Signore, obbediente alla sua ispirazione, è giunto qui! 

Secondo un’antica tradizione, durante la persecuzione di Nerone, Pietro voleva abbandonare Roma. Ma il Signore è intervenuto: gli è andato incontro. Pietro si rivolse a lui chiedendo: «Quo vadis, Domine?» (Dove vai, Signore?). E il Signore gli rispose subito: «Vado a Roma per essere crocifisso per la seconda volta». Pietro tornò a Roma ed è rimasto qui fino alla sua crocifissione. 

Il nostro tempo ci invita, ci spinge, ci obbliga a guardare il Signore e ad immergerci in una umile e devota meditazione del mistero della suprema potestà dello stesso Cristo. 

Colui che è nato dalla Vergine Maria, il Figlio del falegname – come si riteneva –, il Figlio del Dio vivente, come ha confessato Pietro, è venuto per fare di tutti noi «un regno di sacerdoti». 

Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato il mistero di questa potestà e il fatto che la missione di Cristo – Sacerdote, Profeta-Maestro, Re – continua nella Chiesa. Tutti, tutto il Popolo di Dio è partecipe di questa triplice missione. E forse in passato si deponeva sul capo del Papa il triregno, quella triplice corona, per esprimere, attraverso tale simbolo, che tutto l’ordine gerarchico della Chiesa di Cristo, tutta la sua «sacra potestà» in essa esercitata non è altro che il servizio, servizio che ha per scopo una sola cosa: che tutto il Popolo di Dio sia partecipe di questa triplice missione di Cristo e rimanga sempre sotto la potestà del Signore, la quale trae le sue origini non dalle potenze di questo mondo, ma dal Padre celeste e dal mistero della Croce e della Risurrezione. 

La potestà assoluta e pure dolce e soave del Signore risponde a tutto il profondo dell’uomo, alle sue più elevate aspirazioni di intelletto, di volontà, di cuore. Essa non parla con un linguaggio di forza, ma si esprime nella carità e nella verità. 

Il nuovo Successore di Pietro nella Sede di Roma eleva oggi una fervente, umile, fiduciosa preghiera: «O Cristo! Fa’ che io possa diventare ed essere servitore della tua unica potestà! Servitore della tua dolce potestà! Servitore della tua potestà che non conosce il tramonto! Fa’ che io possa essere un servo! Anzi, servo dei tuoi servi». 

Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà! 

Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera! 

Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa «cosa è dentro l’uomo». Solo lui lo sa! 

Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna."

Responsorio Breve 1 Ts 2, 4. 3
R. Non abbiate paura: il Redentore dell’uomo ha rivelato il potere della croce e ha dato per noi la vita! * Aprite, spalancate le porte a Cristo.


(Dall’Omelia per l’inizio del pontificato del santo Giovanni Paolo II, papa
22 ottobre 1978: A.A.S. 70 [1978], pp. 945-947)


V. Siamo chiamati nella Chiesa a partecipare alla sua potestà.
R. Aprite, spalancate le porte a Cristo


Orazione

O Dio, ricco di misericordia, che hai chiamato il santo Giovanni Paolo II, papa, a guidare l’intera tua Chiesa, concedi a noi, forti del suo insegnamento, di aprire con fiducia i nostri cuori alla grazia salvifica di Cristo, unico Redentore dell’uomo. Egli è Dio.

R. Amen.
Benediciamo il Signore.
R. Rendiamo grazie a Dio

MATER ECCLESIAE
AMDG et BVM

lunedì 3 ottobre 2016

SAN FRANCESCO... Aiutaci a risolvere tutto in chiave evangelica

San Francesco... 
si è fatto piccolo. Ma davvero piccolo.





EN ES FR IT PT ]

PREGHIERA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
A SAN FRANCESCO D'ASSISI

Tu, che hai tanto avvicinato
il Cristo alla tua epoca, 
aiutaci ad avvicinare 
Cristo alla nostra epoca, 
ai nostri difficili e critici tempi. 
Aiutaci! 
Questi tempi attendono Cristo 
con grandissima ansia, 
benché molti uomini della nostra epoca 
non se ne rendano conto. 
Ci avviciniamo all’anno duemila dopo Cristo. 
Non saranno tempi che ci prepareranno ad una rinascita del Cristo, 
ad un nuovo Avvento? 
Noi, ogni giorno, 
nella preghiera eucaristica 
esprimiamo la nostra attesa
rivolta a lui solo,
nostro Redentore e Salvatore, 
a lui che è compimento della storia dell’uomo e del mondo.
Aiutaci, San Francesco d’Assisi,
ad avvicinare alla Chiesa e al mondo di oggi il Cristo.
Tu, che hai portato nel tuo cuore
le vicissitudini dei tuoi contemporanei,
aiutaci, col cuore vicino al cuore del Redentore,
ad abbracciare le vicende
degli uomini della nostra epoca.
I difficili problemi sociali, economici, politici,
i problemi della cultura e della civiltà contemporanea,
tutte le sofferenze dell’uomo di oggi,
i suoi dubbi, le sue negazioni,
i suoi sbandamenti, le sue tensioni,
i suoi complessi, le sue inquietudini...
Aiutaci a tradurre tutto ciò
in semplice e fruttifero linguaggio del Vangelo.
Aiutaci a risolvere tutto
in chiave evangelica
affinché Cristo stesso possa essere
“Via, Verità, Vita”
per l’uomo del nostro tempo.
Questo chiede a Te,
figlio santo della Chiesa,
figlio della terra italiana,
il papa Giovanni Paolo II,
figlio della terra polacca.
E spera che non glielo rifiuterai,
che lo aiuterai. Sei sempre stato buono
e sempre ti sei affrettato
a portare aiuto a tutti coloro che si sono rivolti a Te.

(Visita alla Basilica di San Francesco in Assisi, 5 novembre 1978)




La Profezia di S.Francesco ritrae la Chiesa d'oggi



Giotto - San Francesco sostiene la Chiesa che sta crollando - Basilica superiore - Assisi

Sebirblu, 4 ottobre 2016

Qualche giorno fa, riflettendo sulla ricorrenza del nostro grande Santo, ho valutato quanto fosse abissale la differenza tra Francesco d'Assisi e l'attuale Papa che ne ha assunto il nome.

Mentre il primo fu immortalato da Giotto, raffigurato in un sogno fatto da Innocenzo III, che lo vide nell'atto di sorreggere la Chiesa di San Giovanni in Laterano sull'orlo del crollo (per importanza, la Basilica di San Pietro di allora), il secondo, a quanto pare, fa di tutto per distruggerla.

Ma, andiamo per ordine... forse non tutti sanno che un crocifisso improvvisamente si animò, aprendo la bocca e muovendo gli occhi, ed iniziando a parlare all'umile Fraticello...



Giotto - Il Crocifisso di San Damiano parla a San Francesco - Assisi - Basilica Superiore

Riporta Tommaso da Celano:

«Francesco era già del tutto mutato nel cuore e prossimo a divenirlo anche nel corpo quando un giorno passò accanto alla chiesa di San Damiano, quasi in rovina e abbandonata da tutti.

Condotto dallo Spirito, entrò a pregare, si prostrò supplice e devoto davanti al Crocifisso e, toccato in modo straordinario dalla Grazia divina, si ritrovò totalmente cambiato.

Mentre egli era così profondamente commosso, all'improvviso – cosa da sempre inaudita – l'immagine di Cristo crocifisso, dal dipinto gli parlò, movendo le labbra,"Francesco, – gli disse chiamandolo per nome – va', ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina".

Francesco era tremante e pieno di stupore, e quasi perdette i sensi a queste parole. Ma subito si dispose ad obbedire e si concentrò tutto su questo invito.

Ma, a dire il vero, poiché neppure lui riuscì mai ad esprimere la trasformazione ineffabile che percepì in se stesso, conviene anche a noi di coprirla con un velo di silenzio».

Tratto da «Vita Seconda di San Francesco d'Assisi» di Tommaso da Celano; QUI.



Tommaso da Celano (1200-1265) - Compagno e primo biografo di S. Francesco

Ed ecco la profezia del Poverello assisano che era già nota almeno a partire dal XVII secolo, come attesta un tomo che raccoglie le opere del Santo d'Assisi e di Sant'Antonio da Padova, pubblicato nell'anno 1641.

Il vaticinio è poi riapparso in un libro pubblicato nel 1880 dall'Imprimerìe de la Bibliothèque Ecclésiastìque de Paris – Avenue D'Orleans 32 – intitolato:

«S. Francisci Assisiatis – serafici minorum patriarchae – Opera Omnia Juxta editionem R:P. De la Haye in Gallia Minorum Procuratoris Generalis».

Il testo che segue è a sua volta contenuto nella Medi Aevi Bibliotheca Patristica,edita dalla suddetta Imprimerìe, di cui costituisce il Tomus Sextus. La profezia in latino con relativa traduzione italiana si trova a pag. 430, da visionare QUI.

Come si potrà constatare, ciò che vi è scritto trova riscontro in modo impressionante con i tempi odierni; e pensare che proviene dal lontanissimo 1226, anno in cui San Francesco trapassò.



Giotto - Morte di San Francesco - Basilica superiore - Assisi

«Poco  innanzi  la  morte  convocati  i  frati,  li ammonì delle future ambasce, dicendo:
– Diportatevi virilmente, o fratelli, fatevi animo, e aspettate pazientemente il Signore.

S'affrettano a venire i tempi di una grande tribolazione ed afflizione, ne' quali le perplessità e i pericoli temporalmente e spiritualmente inonderanno, si raffredderà la pietà di molti, e sovrabbonderà l'iniquità de' malvagi.

Il potere dei demònii sarà disciolto più dell'usuale, e la purezza immacolata della Religione nostra e delle altre sarà deformata in tal guisa, che pochissimi de' cristiani con cuor sincero e carità perfetta obbediranno al vero Sommo Pontefice e alla Chiesa Romana.

Un taluno non eletto canonicamente, assurto al Papato nel momento di quella tribolazione, coll'astuzia del suo errore macchinerà di porger la morte (spirituale; ndr) a molti.

Allora si moltiplicheranno gli scandali; la nostra Religione verrà divisa e parecchie delle altre saranno del tutto abbattute, perché non si opporranno all'errore, ma gli presteranno l'assenso.

Vi saranno tante e sì gravi opinioni e scismi nel popolo, nei Religiosi e nel Clero, che se non fossero accorciati quei giorni, secondo la parola evangelica, (se fosse possibile) sarebbero ingannati gli stessi eletti, se non fossero sostenuti, in sì grande tempesta, dall'immensa misericordia di Dio.

Allora la nostra Regola e vita sarà da certuni fierissimamente combattuta (Cfr. QUI; ndr). Sopravverranno istigazioni immense: quelli che allora saranno stati privati, riceveranno la corona di vita: ma guai a coloro che affidandosi alla sola speranza della Religione s'intiepidiranno, e non resisteranno costantemente alle tentazioni permesse (da Dio; ndr) a prova degli eletti.

Coloro poi che fervorosi di spirito per la carità e per lo zelo della verità coltiveranno la compassione, soffriranno persecuzioni ed ingiurie, come (fossero; ndr)disobbedienti e scismatici.

Perocché i loro persecutori, agitati dagli spiriti maligni, diranno che si rende un grande onore a Dio coll'uccidere (spiritualmente; ndr) e cancellar dalla terra uomini così pestilenti.

Il Signore però sarà allora il rifugio degli afflitti, e li salverà, perché posero la speranza in Lui. E per rendersi conformi al loro Capo agiranno con fiducia, e colla morte comprandosi la vita eterna, eleggeranno di ubbidire piuttosto a Dio che agli uomini; e ricusando acconsentire alla falsità e alla perfidia, non paventeranno punto il morire.

Allora, la verità da alcuni predicatori verrà taciuta, da altri sarà conculcata e negata(Cfr. QUI; ndr). La santità della vita sarà posta in derisione verso quelli che la professano: per questo il Signore Gesù Cristo manderà loro un degno, non pastore, ma sterminatore.»

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Relazione, adattamento e cura di Sebirblu.blogspot.it



PAX et BONUM