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domenica 5 febbraio 2012

Beata Elisabetta Canori Mora (21/11/1774--5/2/1825)

Leggete questa bella storia della vita della Beata Elisabetta Canori Mora. Sono sicuro che vi piacerà. Le vie di Dio e la sua Misericordia sono proprio infinite.



 Tenore di vita di Cristoforo Mora dopo la mortedella consorte Elisabetta Canori Mora


Appena tornato a casa mio padre, erano circa le ore dieci della sera del 5 febbraio1825restò mutolo e compreso trovando già trapassata la consorte, mia madre. Noi due figlie vedemmo un cambiamento ma non gli parlammo di niente, tanto più che eravamo molto afflitte per tale perdita, ché la nostra esistenza la dovevamounicamente alla nostra madre.
Tenemmo in casa la defunta dalla sera del sabato fino al lunedì 7 febbraiogiorno in cui fu portato il cadavere a San Carlo alle Quattro Fontane. Ma restò sopra terra in una cappella della Chiesa perché il giorno 8, era la festa di San Giovanni de Matha,fondatore dell’Ordine Trinitario. Mia madre era terziaria e ne indossava l’abito. Si fece dunque il funerale il 9 febbraio, ed essendo noi di abitazione prossime allaChiesa, le due sorelle di mio padre non vollero permettere che tutta la mattinasentissimo il suono funebre delle campane, per cui ci vollero in casa loro che eramolto distante, anche per pranzare. Il tutto andò benissimo con tanta amorevolezza ecarità e, terminato il pranzo si andò a prendere il caffè.
Benché così afflitte, mi rivolsi a mio padreMi dica papà mio, ora che è davanti alle sorelle, per amor di Dio, si metta in sua grazia e sposi quella donna che a noi non importa di avere la matrigna, benché sia di vile condizione, ci basta che simetta in grazia di Dio.
A questo mio parlare così franco e ardito, il povero uomo mi rispose con tuttaumiltàNon posso farlo, perché questa donna è morta, allora tutti stettero insilenzio, e terminò la disputa.
Veramente dico ciò con mia confusione perché il mio fu un grande ardire, maperaltro per noi due sorelle ci servì di consolazione il sapere che era terminato tutto l’intrigo disdicevole.
Mia sorella non sapeva darsi pace; come avevo fatto a dire simile cosa di tantamortificazione a mio padre? Dopo questo fatto, mia sorella benché maritata detteuna camera libera a mio padre ed io entrai in monastero il giorno 19 marzo 1825. Tutti mi dicevano che mio padre aveva cambiato in tutto tenore di vita e, piangendodiceva sempre: Ho santificato mia moglie con la mia cattiva condotta. Si dettetalmente alla pietà che molte persone l’incontravano scalzoandava per le Chiesesenza rispetti umani, così si portò in tutto il tempo che fu in casa.
Nell’anno 1833 il Signore chiamò a sé la buona mia sorella, il giorno 28 aprile,festa del patrocinio di San Giuseppe. Questo sì che fu un colpo troppo grande per mio padre! Si portò da me per fare un pianto reciproco perché anch’io amavo assai mia sorella.
Dopo ciò venne da me e mi dissePenso di lasciare il secolo e la professione cheporta distrazione e occasione di disgustare il Signorelascio clienticompagni edamicicedo tutto. Voglio ritirarmirendermi religioso e pensare all’anima mia, ma a tutto questo devi pensare tu. Lascio l’incarico di eseguire questo unicamentea te.
A queste parole, per un verso mi intesi commuovere e per l’altro vedevo la miaincapacità, gli risposiPapà mio, che cosa posso fare io, una povera monaca in uncantone, senza relazione alcuna?. Non volle sentire questo, mi risposeA tutto devipensare: dove e in che Ordine credi, sarei contento anche come laico!
Vedendomi così costrettafeci due righe ad un mio confessore gesuita, col quale non potei continuare a confessarmi dopo che ero diventata monacanarrandogli ilfatto e chiedendogli di indicarmi come potevo fare, mi risposeNon è possibile fare la petizione come laico, ma che procurassi di fare la petizione per celebrare laMessa, presso i religiosi minori conventuali che, essendo soggetto istruito, ci sareiriuscita. Mi animò a farlo e senza indugio feci due righe al Padre Cibosagrestanonella Chiesa dei santissimi Apostoli, che volevo parlargli. Gli dissi che mi trovavocostretta da mio padre, mi risposeStia tranquilla, farò la richiesta al PadreGenerale e gli dirò che ha tutte le prerogative per ascendere al sacerdozio. Loconosco bene perché è mio penitente da molti anni; di questo non mi ha parlato, forse per un sentimento di umiltà, ma io mi sentirò con voi che vi ha incaricato di tutto.
Difatti parlò con il Generalecredo anche con il Provinciale, mi portò l’ammissionee fu concluso tutto con molta consolazione di mio padre e mia. Mi presi il pensierodi fargli fare le tonache e tutto il corredo che gli serviva, perché in realtà non aveva che me che potessi avere qualche pensiero per lui, perché per se stesso non eraadatto a queste cose.
Aveva sortito un bellissimo carattere, tutto gli andava bene anche quando stava infamiglia che, se non avesse avuto quella passione che lo stralunavaera un uomoimpagabile.
Fu dunque fissato il giorno della sua vestizione, e questa si fece nella sagrestia diSanta DoroteaChiesa dell’Ordine. Mi pare che vi fosse il provinciale; vi andai con una monaca anziana, mi pare una o due sorelle di mio padre, il quale venne con il medesimo provinciale.
Dopo di noi, con altro legno arrivò il fratello di mia madre suo cognato. Fu eseguitacon tanta comune allegrezza la funzione; gli fu cambiato il nome di Cristoforo con ilnome di Padre Antonio. Non sto a ridire il mio contentopensando che nell’indossare il santo abito riceveva un secondo battesimo, come espresse il padreche lo vestì e che restava assolto da ogni reato di colpa fosse stato reo, avanti altribunale di Dio.
Dopo essersi trattenuto qualche giorno in quel convento, lo mandarono a fare ilnoviziato fuori di Roma. Dopo l’anno di noviziato fu ammesso alla professione e poco dopo ascese al sacerdozioordinato dal vescovo della diocesi dove dimorava.
In seguito lo stesso vescovo gli dette la facoltà di confessare. I superiori vedendoche era molto erudito in tutte le scienze come se le avesse appena studiate, glidettero l’incarico di fare scuola ai giovani religiosi.
Fece così il trapasso di vari conventi, ogni tanto veniva a Roma anche per affari e in quei giorni si portava a celebrare la Santa Messa al nostro monastero. Molte voltecelebrò la Messa conventuale comunicando tutte le monache, ed era unaconsolazione grande per me e per la cognata che in quell’epoca era superiora, e per tutta la comunitàProseguì mio padre la sua carriera da vero religioso, non badandoai propri comodi e adattandosi a qualunque convento lo destinasse l’obbedienza,contento di stare fuori e non in Roma.
Finalmente nel convento di Sezze fu assalito da penosa infermità. Ecco le preciseparole che mi scrisse il sacerdote che l’assistette fino all’ultimo momento della suavitaLa malattia del Padre Mora, suo padre è stata breve; cadde malato giovedì 4settembre e fino a tutto sabato non si presentò molto grave il di lui male. Ladomenica avanzò di molto in peggio, io medesimo gli amministrai i sacramenti:confessioneviaticoestrema unzione. Ioscrisse il suddetto sacerdotesebbeneaddolorato per la compassione, ché il male era irreparabile, tuttavia l’aspettovenerando e rassegnato mi consolava.
Passò agli eterni riposi il lunedì alle ore 10 e l’anima sua se ne volò al cielo, comesperiamo, il  8 settembre 1845, nel convento dei Minori Conventuali di SanFrancesco, nel paese di Sezze. Ecco pertanto verificata la profezia che fece la suaconsorte, mia madre. Io non la ricordavo perché potrebbe essere che non fossipresente, ma l’ha deposta una monaca delle Mantellate di Roma dell’Istituto de’Serviti, di nome Maria Matilde Brambilla. Così ha raccontato e poi deposto alprocessoAndai con mia madre a fare visita alla serva di Dio Elisabetta, dopo che mia madre aveva parlato, ella ci condusse in cappella a visitare Gesù Nazareno. Nell’atto che ci spedivamoElisabetta ci accompagnò e nel passare mia madresalutò il consorte Cristoforo che era seduto alla scrivania, il quale disse ridendo: «Sono venute a fare orazione con questa mia moglie? è sempre la notte di Natale, già è detta la Messa, io la dico a letto dormendo con questa santa donnanotte egiorno sempre in orazione. Io lascio fare». E rideva beffandosi di ciò, allora risposemia madreRideteridete, voi direte la Messa e confesserete, allora non direte ladico a letto.
A questo parlare franco della consorte, si turbòCome, dunque morite prima di me? «Sì», le rispose, «molto prima», e così terminò la disputa e la madre e la figliase ne andarono comprese di stupore e di meraviglia persuase che si verificasse il tutto, come avvenne.

AVE MARIA!
AMDG

sabato 31 dicembre 2011

SANTA ELISABETTA CANORI MORA. Come visse quel Natale


Elisabetta Canori Mora nasce a Roma il 21 novembre 1774 da Tommaso e Teresa Primoli. La sua è una famiglia benestante, profondamente cristiana e attenta all’educazione dei figli. Il padre era importante proprietario terriero e gestiva molte tenute agricole, un gentiluomo vecchio stampo, amministrava senza avidità disdegnando il sopruso e la sopraffazione. I coniugi Canori hanno dodici figli, sei dei quali muoiono nei primi anni di vita. Quando nasce Elisabetta trova cinque fratelli maschi ed una sorella, Maria; dopo due anni arriva un’altra sorella, Benedetta. Nel giro di pochi anni, i cattivi raccolti, la moria di bestiame e l’insolvenza dei creditori, cambia la situazione economica e Tommaso Canori si trova costretto a ricorrere all’aiuto di un fratello che abita a Spoleto che si fa carico delle nipoti Elisabetta e Benedetta. Lo zio decide di affidare le nipoti alle Suore Agostiniane del monastero di S. Rita da Cascia, qui Elisabetta si distingue per ...
... intelligenza, profonda vita interiore e spirito di penitenza. Rientrata a Roma, conduce per alcuni anni vita brillante e mondana, facendosi notare per raffinatezza di tratto e bellezza. Elisabetta giudicherà questo periodo della sua vita un “tradimento”, anche se la sua coerenza morale non viene meno e la sua sensibilità religiosa è in qualche modo salvaguardata. Un alto prelato che conosce bene i problemi economici e le qualità spirituali della famiglia Canori, propone di far entrare Elisabetta e Benedetta nel monastero delle Oblate di S. Filippo, facendosi carico di tutte le spese. Benedetta accetta e si fa suora nel 1795, Elisabetta no, non se la sente di lasciare la famiglia in difficoltà.
Il 10 gennaio 1796 nella chiesa di Santa Maria in Campo Corleo, si celebra il matrimonio con Cristoforo Mora, ottimo giovane, colto, educato, religioso, ben avviato nella carriere di avvocato. Il matrimonio è una scelta maturata attentamente ma, dopo alcuni mesi, la fragilità psicologica di Cristoforo Mora compromette tutto. Allettato da una donna di modeste condizioni, tradisce la moglie e si estranea dalla famiglia, riducendola sul lastrico. Elisabetta alle violenze fisiche e psicologiche del marito risponde con una totale fedeltà.

La nascita delle figlie Marianna nel 1799 e Maria Lucina nel 1801 non migliora le cose. Costretta a guadagnarsi da vivere col lavoro delle proprie mani, segue con la massima attenzione le figlie e la cura quotidiana della casa, dedicando nello stesso tempo molto spazio alla preghiera, al servizio dei poveri e all’assistenza degli ammalati. La sua casa diventa punto di riferimento per molte persone che a lei si rivolgono per necessità materiali e spirituali. Svolge un’azione particolarmente attenta alle famiglie in difficoltà. Conosce ed approfondisce la spiritualità dei Trinitari e ne abbraccia l’ordine secolare, rispondendo con dedizione alla vocazione familiare e di consacrazione secolare. La fama della sua “santità”, l’eco delle sue esperienze mistiche e dei suoi “poteri taumaturgici” hanno grande risonanza particolarmente a Roma e nelle sue vicinanze.
Niente, però, incide sul suo stile di vita povero, improntato ad una grande umiltà e ad un generoso spirito di servizio ai poveri e ai lontani da Dio. Dona se stessa per la conversione del marito, per il Papa, la Chiesa e la sua città di Roma, dove muore il 5 febbraio 1825.
E’ sepolta nella Chiesa di San Carlino. Subito dopo la sua morte, il marito si converte, entra nell’Ordine dei Trinitari e diviene, poi frate Minore Conventuale e sacerdote, come gli aveva predetto la consorte. Elisabetta Canori Mora viene beatificata il 24 aprile 1994.
Riguardo al Natale la Beata scrive nel suo diario: “Mi distaccai dalle vanità, vinsi molti ostacoli che m’impedivano d’andare a Dio… Propongo di non desiderare niente che sia di mio profitto, ma di compiere in ogni istante della mia vita la santa volontà di Dio. Figlia mia diletta, offriti al mio celeste Padre a pro della Chiesa: ti prometto il mio aiuto…” (dall’autobiografia). “Una simile madre non si trova al mondo, e io sono indegno di esserle consorte” (il marito Cristoforo alle figlie).
Dal giorno 18 al giorno 24 dicembre 1814 il mio spirito l’ha passata in piangere i propri e gli altrui peccati; ma tratto tratto ero sopraffatta dalla carità di Gesù Cristo, che mi faceva languire di amore. La notte del santissimo Natale, circa le ore sette e mezza italiane, mi portai alla chiesa del santissimo Bambino Gesù, per assistere alle sacre funzioni di quella benedetta notte. Stetti in orazione circa sei ore e mezza, mi parve questo tempo molto breve.
Ecco come passai questo tempo. Mi prostrai dinanzi al mio Dio, protestando di riconoscermi affatto indegna di trattenermi in compagnia di tante anime a lui fedeli, per poterlo in quella santa notte lodare, benedire, ringraziare in compagnia dei santi Angeli, confessando di essere la creatura più vile, che abita la terra, piangendo, parte per la mia ingratitudine, parte per la gioia che sentivo nel mio cuore, alla considerazione del grande amore che ci dimostra Dio in donarci il suo Santissimo Figliolo.
Andava ogni momento più crescendo la gioia del mio cuore, l’intelletto veniva rischiarato da interna luce e lo spirito si andava ingolfando nella penetrazione di questo divino mistero, quando sopraffatto dall’immensità dell’infinito amore di Dio amante di noi miserabilissime sue creature, si perdeva il mio povero intelletto in questo vasto oceano dell’infinita carità di Dio. Pensi in questo tempo ogni idea sensibile, quando da mano invisibile fui condotta al sacro presepio.
Fui condotta sopra un monte, e in certa lontananza vedevo quel piccolo paradiso. Nel vedere il chiarissimo splendore che tramandava quel beato tugurio da ogni intorno, che ai piedi del monte restava. Ah già il mio cuore era impaziente di potermi là approssimare. Ah. Non avrei voluto camminare, ma volare, tanto era il trasporto dell’amore che sentivo verso il nato Signore. Io andavo dicendo tra me: “Voglio morire ai suoi piedi, per il dolore di averlo offeso”.
Intanto l’amore disponeva il mio cuore a fare ogni qualunque sacrifico per compiacere il divino infante. Non so ridire di qual grado fosse la fede, la speranza, la carità, l’umiltà, l’obbedienza, la purità, la povertà che mi fu somministrata dallo Spirito del Signore in quei preziosi momenti. Fui trasmutata in guisa tale che io più non conoscevo me stessa, senza esagerazione, il mio povero spirito apprese una idea angelica, che io stessa, senza ammirata, e nell’ammirazione conoscevo il mio nulla, lodavo e benedicevo l’infinita bontà di Dio, dando tutto a lui l’onore e la gloria; e intanto mi andavo avvicinando al beato presepio; vidi quel beato tugurio ripieno di splendidissima luce, molti erano gli adoratori di quel grazioso infante, vedevo nella suddetta valle, contigua al beato presepio, come già dissi, ripiena di luce che tramandava dappertutto l’alta magnificenza del nato Re del cielo, che per amore dell’uomo si degnò nascere in estrema povertà”.
Don Marcello Stanzione
AVE MARIA!
AMDG