I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Novissimi
5 Agosto 2007 calogeroVita cattolica: Matrimonio, laicato...
1. Grande disgrazia è
dimenticare i novissimi.
2. Quanto è utile ricordarsi
dei novissimi.
3. Come dobbiamo ricordare i
novissimi.
1. GRANDE DISGRAZIA È
DIMENTICARE I NOVISSIMI. – I novissimi, cioè gli ultimi fini,
sono la morte, il giudizio, il paradiso, l’inferno, 1’eternità.
Dimenticare cose di tanta importanza, non prevederle, non
prepararvisi, è la somma delle disgrazie che possa accadere ad
un uomo. Infatti dimenticare la morte, vuol dire non pensare a
prepararvisi, ed avventurarsi alla triste morte del peccatore:
disgrazia irreparabile. Dimenticare il giudizio di Dio è un
disprezzarlo; e allora sarà molto terribile questo giudizio.
Dimenticare il cielo è grande sciagura, perché così
facendo non si fa nulla per guadagnarlo, e si perde; e perduto il
paradiso, tutto è perduto. Dimenticare l’inferno, è un
andarvi incontro; e chi vi si incammina, facilmente vi precipita.
Dimenticare l’eternità, è lo stesso che perdere il
tempo e l’eternità; si può immaginare disgrazia più
tremenda? Ciò non ostante, oh come è comune nel mondo
la dimenticanza dei novissimi! Per ciò Gesù fulminò
quello spaventevole anatema: «Guai al mondo»! (MATTH.
XVIII, 7).
A quanti si possono
rivolgere quelle parole del Signore nel Deuteronomio: «Gente
senza consiglio e senza prudenza, perché non aprire gli occhi
e comprendere e provvedere ai loro novissimi?» (XXXII, 28-29).
E quelle altre d’Isaia: «Tu non hai pensato a queste
cose, e non ti sei ricordato dei tuoi novissimi» (XLVII, 7).
Terribile imprudenza che ha
conseguenze fatali è quella di dimenticare le cose future, di
non considerare i novissimi per arrivarvi preparati. Che onta, che
rabbia non sarà per i figli del mondo l’udirsi rinfacciare dai
demoni nell’inferno: O sciagurati! voi sapevate che c’era un inferno,
e potendolo schivare con poco costo, vi ci siete tuffati a capo
fitto! Voi avete dimenticato i novissimi, e avete perduto tutto.
Ci si parla dei nostri novissimi;
noi li conosciamo, vi crediamo, e intanto operiamo come se non ci
riguardassero affatto e non ne diventiamo migliori! O cecità
fatale! O follia incredibile! O uomini stupidi e da compiangersi! Non
pensare, non penetrare, non temere cose tanto gravi, non
prepararvisi!
2. QUANTO È
UTILE RICORDARSI DEI NOVISSIMI. – «In tutte le tue opere, dice
il Savio, proponiti sotto gli occhi i tuoi novissimi, e non cadrai
mai in peccato» (Eccli. VII, 40). La ragione è
chiara, poiché il fine che uno si propone, diventa il
principio e la regola di tutte le azioni; ora il fine di tutte le
cose sta compreso essenzialmente nei fini ultimi, ossia nei
novissimi. Tutte le persone operano per un fine; perché dunque
non operare guardando ai fini ultimi?…
Chi dice a se stesso, quando si
sente tentato a offendere Dio: Al punto di morte, vorrò io
aver commesso questo peccato? – tosto si mette su l’avviso e resiste.
– Quando sarò innanzi al tribunale di Dio, quando il giudice
divino mi peserà nella bilancia della sua giustizia, vorrò
che il peso dei miei misfatti vinca quello delle mie virtù?
Ebbene, schiverò il peccato e praticherò la virtù.
Mi sta a cuore di passare dal tribunale di Dio al cielo? dunque mi
studierò di guadagnarmi
questo cielo. Forse che
mi garberà udirmi al giudizio quella terribile sentenza:
Partitevi da me, o maledetti, e andate al fuoco eterno? Dio me ne
scampi! Dunque mi applicherò a chiudermi l’inferno per sempre,
schivando soprattutto il peccato mortale. Quando entrerò
nell’eternità, vorrò io aver perduto il tempo? Certo
che no: conviene dunque che non ne perda un istante; – queste sono le
salutari considerazioni che fa colui il quale non dimentica i suoi
novissimi. Dunque chi non vede ch’egli diventa quasi impeccabile,
compiendosi in lui il detto dello Spirito Santo: – Memorare
novissima tua, et in aeternum non peccabis? – Il fine dell’uomo
che è la beatitudine eterna, lo porta alla fuga del peccato e
alla pratica della virtù, come a mezzi coi quali si ottiene la
beatitudine. Per ciò S. Agostino dice: «La
considerazione di questa sentenza: – Ricorda i tuoi novissimi e non
peccherai in eterno – è la distruzione dell’orgoglio,
dell’invidia, della malignità, della lussuria, della vanità
e della superbia, il fondamento della disciplina e dell’ordine, la
perfezione della santità, la preparazione alla salute eterna.
Se ti preme non andare perduto, guarda in questo specchio dei tuoi
novissimi ciò che sei e ciò che sarai tu la cui
concezione è macchia vergognosa, l’origine è fango, il
termine è putredine. Davanti a questo specchio, cioè in
faccia ai novissimi, che cosa diventano le delicate imbandigioni, i
vini squisiti, le splendide calzature, il lusso del vestire, la
mollezza della carne, la ghiottoneria, la crapula, l’ubriachezza, la
magnificenza dei palazzi, l’estensione dei poderi, l’accumulamento
delle ricchezze? (Specul. CI)». Prendiamo dunque il
consiglio di S. Bernardo e nel cominciare un’azione qualunque diciamo
a noi medesimi: Farei io questo, se dovessi morire in questo momento?
(In Speculo monach.).
Simile a quella di S. Bernardo è
la regola di condotta suggerita da Siracide, per ordinare e
santificare tutte le nostre azioni: «In ogni tua impresa scegli
quello che vorresti aver fatto e scelto quando sarai in punto di
morte». Fate tutte le vostre azioni come vorreste averle fatte
il giorno in cui comparirete innanzi a tutto il mondo, per renderne
conto al supremo tribunale di Dio. Non fate cosa di cui abbiate a
pentirvi eternamente: schivate quello che vi farebbe piangere per
tutta l’eternità, quello che vi toccherebbe pagare nell’eterno
abisso dell’inferno. Studiatevi di fare benissimo e
perfettissimamente ogni cosa, affinché abbiate da rallegrarvi
di tutto ciò che pensate, dite, e fate; e ne riceviate una
ricca mercede in cielo. Ora la memoria dei novissimi procura tutti
questi vantaggi…
Non dimenticate anche che sono
prossimi i vostri novissimi…; che incerta è l’ultima ora…
Chi non teme una cattiva morte come avrà paura del giudizio e
dell’inferno? Ah! se gli uomini pensassero di
frequente al giorno
della loro morte, preserverebbero la loro anima da ogni cupidigia e
malizia… O voi, che volete essere eternamente felici, pensate
sempre a quella sentenza. – Parlando di Gerusalemme, Geremia dice che
«ella si dimenticò del suo fine, per ciò
sdrucciolò in un profondo abisso di miserie e di degradazione»
(Lament. I, 9). Dunque, pensando agli ultimi fini non si
cade, e chi è caduto, si rialza. «Noi cessiamo di
peccare, dice S. Gregorio, quando temiamo i tormenti futuri
(Moral.)». Ripetiamo anche noi col Salmista: «Ho
pensato ai giorni antichi, ho meditato gli anni eterni» (Psalm.
LXXVI, 5).
3. COME DOBBIAMO
RICORDARE I NOVISSIMI: – Perché il ricordo dei novissimi abbia
tutta l’efficacia che ne promette lo Spirito Santo, conviene in primo
luogo che non si fermi soltanto sopra di uno, ma li abbracci tutti.
Per qualcuno infatti il pensiero della morte, invece di essere
incentivo al bene può essere uno stimolo al male: «La
nostra vita sfumerà come nebbia» (Sap. II, 3),
dissero gli empi ricordandosi della loro morte imminente; ma da
questo pensiero conclusero: « Venite dunque e godiamo finché
abbiamo tempo» (Ib. 6). Perciò non dice il Savio
nel citato testo: memorare novissimum tuum, ma novissima tua;
perché il pensiero della morte riesca proficuo, ricordiamoci
che alla morte terrà dietro un duro giudizio (Hebr..
IX, 27); che al giudizio andrà annessa una sentenza o di
eterna pena o di eterno premio (MATTH. XXV, 46). Dal ricordo dei
novissimi trae pure un gran vantaggio la vita spirituale del
cristiano, la quale consistendo nella pratica delle quattro virtù
cardinali, prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, trova nella
meditazione dei novissimi un ottimo alimento. Infatti il ricordo
della morte distrugge l’ambizione e la superbia, e così dà
la prudenza. La memoria del giudizio, mettendoci dinanzi agli occhi
quel giudice rigoroso, ci porta a usare giustizia e bontà col
prossimo. Il ricordo dell’inferno reprime l’appetito dei piaceri
illeciti e così avvalora la temperanza. La memoria del
Paradiso diminuisce il timore dei patimenti di questa vita e così
rinsalda la fortezza.
Si richiede in
secondo luogo, che questo ricordo sia fatto su la propria persona,
come pare ci dica il Savio il quale non dice semplicemente: memorare
novissima, ma vi aggiunge tua. Quanti vi sono, che
ricordano i novissimi anche spesso, ora discorrendone nelle chiese,
ora trattandone nei libri, ora disputandone su le cattedre, ora
figurandoli o su marmi, o su bronzi o su tele? eppure non menano
tutti una vita santa. Bisogna che chi ricorda i novissimi, pensi che
proprio lui si troverà, e forse tra brevissimo tempo, al letto
di morte… nella bara, al camposanto… Che proprio lui si
presenterà al giudizio di Dio e a lui toccherà il
castigo o il premio eterno.
Conviene in terzo
luogo che questo ricordo dei novissimi non sia cosa speculativa ma
pratica, perciò lo Spirito Santo fa precedere al testo citato
quelle parole: – in omnibus operibus tuis – in ogni tua
azione. Se prima di ogni azione considerassimo i novissimi, non solo
eviteremmo il peccato, ma troveremmo in quella considerazione la
forza di praticare le più eroiche virtù.
Sarebbe poi un errore
il credere che il pensiero dei novissimi porti con sé la
tristezza. Se lo Spirito Santo ci assicura che il ricordo frequente
dei. novissimi basta a tenerci pura la coscienza: – In aeternum
non peccabis – è cosa chiara che porta con sé la
gioia del cuore che è la più grande di tutte le gioie.
(Eccli. XXX, 16). E ne abbiamo infatti una conferma nel
medesimo Ecclesiastico il quale dopo di aver detto in altro luogo:
«Non abbandonarti alla tristezza, ma cacciala da te»
(XXXVIII, 21), soggiunge subito – et memento novissimorum
(Ib.). – e ricordati dei novissimi, quasi che il pensiero dei
novissimi sia il più sicuro per tenere lontana dal cuore umano
la tristezza.
/////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////
I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Morte
30 Settembre 2007 calogeroVita cattolica: Matrimonio, laicato...
1. Origine della morte.
2. Vi sono tre sorta di morti.
3. La morte è quaggiù
la suprema dominatrice.
4. Certezza della morte.
5. Incertezza della morte: l°
riguardo al tempo; 2° in quanto all’età; 3° in quanto
alla maniera di morire nel corpo; 4° in quanto al modo di morire
dell’anima.
6. La morte è vicina.
7. La morte ci accompagna.
8. La morte ci dice che tutto è
nulla.
9. In che stato la morte riduce
l’uomo.
10. Il pensiero della morte.
11. Preparazione alla morte.
1. ORIGINE DELLA
MORTE. – La morte non venne all’uomo dalla condizione di sua natura,
ma fu punizione del suo peccato (Rom. VI, 23), ed effetto
dell’invidia di Satana (Sap. II, 24). Infatti solamente dopo
la caduta di Adamo, Dio portò quella sentenza: «Tu sei
polvere, o uomo, e in polvere ritornerai» (Gen. III,
19). Dice S. Agostino: «L’uomo era stato creato immortale;
volle essere Dio; perdette non la qualità di uomo, ma
l’immortalità, e l’orgoglio della disobbedienza trasse seco la
pena della natura (Homil.)».
L’uomo non era
destinato di natura sua a morire; ma intanto non Dio, ma solo l’uomo
è autore della morte, perché peccando diede, di sua
volontà, origine alla morte. Il Signore ne aveva avvertito
Adamo dicendogli: Mangia a tuo volere di ogni frutto che è nel
giardino; ma del frutto dell’albero della scienza del bene e del male
non ne mangiare, perché dal giorno in cui ne gusterai, morrai.
(Gen. II, 16-17). Adamo non osservò il divieto,
assaggiò il frutto, e la morte tenne dietro a questa grave
disobbedienza. Egli volle il peccato, morte dell’anima, e gli toccò
sottoporsi alla morte del corpo, punizione della morte dell’anima, o
meglio punizione del peccato, principio di questa morte… Ecco il
prodotto, la mercede, il salario del peccato! – Stipendia peccati.
2. VI SONO TRE SORTA
DI MORTI. – Vi sono tre sorta di morti, dice il cardinale Ugone:
quella che viene dalla natura, quella che viene dal peccato, e quella
che viene dalla grazia. Nella prima, muore il corpo; nella seconda
l’anima; nella terza, tutto l’uomo. La prima separa l’anima dal
corpo; la seconda separa l’anima dalla grazia; la terza separa l’uomo
intero dagli impacci del secolo. La prima morte è per tutti;
la seconda per i peccatori; la terza per i giusti. Per la prima, il
corpo è sepolto nella terra; per la seconda, l’anima è
travolta nell’inferno; per la terza, si vola al cielo. Della prima è
detto nell’Ecclesiastico: «O morte, quanto amaro è
il tuo ricordo!» (XLI, 1). Della seconda, scrive il Salmista:
«La morte dei peccatori è pessima» (Psalm.
XXXIII, 21). La terza sospirava colui che disse: «Muoia l’anima
mia della morte dei giusti» (Num. XXIII,
10), (Tract. de Mort.).
3. LA MORTE È
QUAGGIÙ LA SUPREMA DOMINATRICE. – La morte è una
potente dominatrice che comanda a tutti gli uomini e sa farsi
obbedire… Vuole che l’uomo si prepari ad aspettarla, desidera che
lungo il suo cammino possa trovare gli uomini pronti e disposti a
riceverla… Ma non aspetta nessuno, neppure un istante; all’ora
segnata, essa chiama e bisogna seguirla senza indugio… Dite un po’
al peccatore, all’incredulo, all’empio, a tutti costoro che si
ribellano a Dio e gli disobbediscono, dite loro che resistano e
disobbediscano alla morte!… Insensati, non possono resistere alla
morte la quale non è che la cessazione del respiro, e
resistono a Dio, eterno, infinito, onnipotente! O mortali. ciechi e
perversi!…
4 CERTEZZA DELLA
MORTE. – «È decretato, scrive S. Paolo, che gli uomini
tutti quanti abbiano una volta a morire» (Hebr. IX, 27).
Gli empi e i libertini dubitano talvolta delle grandi verità
della religione, perché la voce delle passioni e l’indurimento
spirituale li assorda talmente che non odono più la voce di
Dio, né le grida della loro coscienza; ma nessuno ha mai,
neppure per un istante, messo in forse la certezza della sua morte…
.
5. INCERTEZZA DELLA
MORTE: 1° riguardo al tempo. – Lo spavento e il timore che
incute la morte non deriva dalla sua certezza che tutti sanno che si
deve morire e vi si assoggettano, ma dalla sua incertezza. «Iddio,
dice S. Agostino, vi dà parola che il giorno in cui vi
rivolgerete a lui, dimenticherà i peccati da voi commessi, ma
non vi ha giammai promesso il domani. Per ciò appunto ci sta
nascosto l’ultimo, perché impieghiamo bene tutti i giorni
(Homil.)».
«State
preparati, dice Gesù Cristo; perché quando meno ve lo
pensate, il Figliuol dell’uomo verrà» (LUC. XII, 40).
«E il giorno del Signore vi sorprenderà come ladro che
viene di notte», dice San Paolo (I Thess. V, 2). Se
domandate perché Iddio abbia voluto tenerci nascosta l’ultima
nostra ora, risponde S. Gregorio, che il Signore così ha
disposto, perché stiamo sempre nel timore e, non potendola
prevedere, vi ci prepariamo del continuo (Homil. XIII
in Evang.). E come? con
l’esercizio incessante delle opere virtuose, secondo l’avviso del
Crisostomo il quale scrive: «Perciò volle Iddio che
fossimo incerti della durata di nostra vita; affinché in tale
incertezza non ci allontaniamo mai dalla virtù» (Homil.
in Act. Apost.).
Siccome noi ignoriamo
pienamente l’anno, il mese, la settimana, il giorno, l’ora, il
momento della morte, bisogna, se non siamo pazzi del tutto, che
impieghiamo i momenti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni, a
prepararci alla morte. Su quelle parole dell’Ecclesiastico:
«Ieri a me oggi a te» (XXXVIII, 23), Ugo da San Vittore
fa la seguente osservazione: Notate che la Scrittura non dice: Domani
a te, ma oggi, e questo sia perché nessuno è certo di
vivere al domani (De Anima). Scolpiamoci nella memoria quella
bella sentenza di Seneca: Voi non sapete in qual luogo la morte vi
aspetti; aspettatela dunque voi medesimi in ogni luogo.
2° in quanto
all’età. – Dei bambini, quanti passeranno dalla culla alla
tomba? Giovani e ragazze, vedrete voi le altre età? lo
ignorate. L’infanzia, l’adolescenza, la gioventù, può
forse essere per voi, come fu per tanti altri, l’ultima età.
Il certo è che la morte preferisce immolare giovani vittime…
E voi che siete nel rigoglio dell’età virile, quando morrete?
Di qui a vent’anni, di qui a dieci, di qui ad un anno? Non lo sapete:
può essere domani, può essere tra un’ora… E voi,
canuti vecchi, quando morrete? Ah! voi sapete bene che la morte vi
sta ai panni, ma non ci. badate. Intanto e la canizie del capo, e le
rughe del volto, e il bastone a cui vi appoggiate, e la solitudine
che vi circonda, tutto vi dice: Vecchio, pensa alla morte. La morte
non trova omai quasi più vittima che tocchi la decrepitezza.
Tra mille persone è raro che s’incontri un ottuagenario…
Ogni trenta anni le generazioni si rinnovano quasi per intero…
3° in quanto
alla maniera di morire nel corpo. – Quale sarà la malattia
foriera della nostra morte? Sarà lunga, O breve? ci abbatterà
di colpo violento o a poco a poco? Morremo noi di giorno o di notte,
il mattino o la sera? Nel nostro letto, dove forse già altri
morirono, nella nostra terra, nella nostra casa, ovvero in viaggio,
in paese straniero, svegli o addormentati, soli e senza soccorso,
ovvero circondati e rimpianti dai nostri? Cadremo di morte prevista o
impreveduta? Finiremo di fuoco, di acqua, o di fulmine, o sotto le
rovine di un edifizio, o in conseguenza di qualche caduta o di altro
accidente? Sarà per mano di un ladro o di un assassino, a
colpo premeditato o fortuito? Soccomberemo per male di capo o di
cuore, di viscere o di petto, di emorragia, di paralisia, o di
apoplessia fulminante, come ogni giorno accade a tanti? Forse a
mensa, sul lavoro, sul ballo, in un festino,
nell’ubriachezza, nei piaceri? Non forse subito
dopo il primo peccato che avremo commesso? Ecco altrettante
formidabili interrogazioni alle quali l’unica risposta che si può
dare è questa: non lo so!
Casimiro II, re di Polonia, morì
in mezzo a splendido banchetto. Ladislao, re di Ungheria e di Boemia,
morì mentre si disponeva a celebrare le nozze con Maddalena
figlia di Carlo re di Francia… La sentenza di morte contro
Baldassarre fu segnata e gli fu intimata in mezzo ad un’orgia
sacrilega, ed ebbe esecuzione la notte stessa… Non si è
forse veduto avvenire che il giorno medesimo degli sposalizi, prima
che il sole tramonti, uno degli sposi sia cadavere?
4° in quanto
al modo di morire dell’anima. – Se è cosa terribile il non
sapere di qual morte sarà colpito il nostro corpo,
infinitamente più spaventosa è quella d’ignorare in
quale stato si troverà l’anima nostra al punto del suo
passaggio dal tempo all’eternità.
Avremo noi la comodità di
prepararci alla morte e di assestare i conti nostri con Dio?.. Avremo
tanta forza e intelligenza, che ci renda possibile una buona
confessione?… Avremo noi i mezzi di aggiustare gli affari della
nostra coscienza, e avendoli avremo anche la voglia di metterli in
pratica?… Proveremo noi un pentimento sufficiente? otterremo il
perdono dei peccati?.. Morremo in istato di grazia?… O Dio, che
terribili domande sono mai queste! domande, cui non si sa rispondere
che col tremito e col silenzio..
E in mezzo a questi dubbi, a
queste trepide questioni che mettono in affanno chiunque vi pensi,
noi ridiamo!… non ci pensiamo!… ci divertiamo!… perdiamo il
tempo!… Noi dimentichiamo il Creatore, non preghiamo, offendiamo
Dio e non ci prepariamo a morire da cristiani!… O ciechi e
insensati che siamo!…
6. LA MORTE È
VICINA. – «Io va da una tomba in un’altra tomba », diceva
S. Gregorio Nazianzeno (Distich.); cioè, dal seno di
mia madre in cui stetti racchiuso per nove mesi come in una tomba, io
passo alla morte ed alla sepoltura… La culla dei bambini ha la
figura di un cataletto e annunzia nella sua forza, al bambino, il
destino che lo attende.
La vita umana è
da S. Gregorio Papa paragonata a una navigazione. Chi viaggia in
mare, o sieda, o stia ritto o coricato, non cessa mai dall’avanzare,
portato dalla nave. Tale è la vita nostra: o dormiamo o siamo
desti, o parliamo o tacciamo, o riposiamo nel nostro letto o facciamo
viaggio, non cessiamo mai di avvicinarci in ciascun giorno, in ogni
istante, al termine a cui ci attende la morte (Lib. VI Epist.
XXVI).
Voi dite: io conto
venti, trenta, cinquant’anni di vita; voi v’ingannate, questi anni
non sono vostri, ma della morte che li ha conquistati sopra di voi.
Tutti possiamo dire con S. Pietro: «Io sono certo che ben
presto leverò di quaggiù la mia tenda» (II, I,
14). Il tempo si urta e s’incalza, e mentre noi stiamo pensandoci,
periamo… «L’uomo passa come ombra, si agita e si affatica
inutilmente; ammassa tesori e non sa chi li godrà»
(Psalm: XXXVIII, 6). Chi è che non possa dire: «I
miei giorni scomparvero come sogno, ed io seccai come erba falciata?»
(Psalm. CI, 12).
La Scrittura paragona la vita
dell’uomo, tanto è rapida e breve, alla corsa di una nave
sospinta dal vento, allo scoccare di una freccia, al volo di un
uccello, a un fiato, alla folgore, al lampo… Chiedete ai vegliardi
di novant’anni, a questi rari avanzi di altra età, se la vita
loro parve lunga; vi risponderanno che a loro sembra di averla
incominciata ieri. E poi, che cosa sono cent’anni, se bisogna morire?
Che cosa sono cent’anni, quando sono raggiunti? Che cosa è la
vita umana di oggidì in paragone di quella degli uomini
antidiluviani? Uscivano appena d’infanzia all’età in cui i
vecchi dei nostri giorni sono già ridotti in cenere…
Ecco perché, nei tempi
andati, coronandosi un imperatore, quattro scultori gli presentavano
dei marmi diversi, affinché scegliesse quello che preferiva
per il suo sepolcro. Era un opportuno ricordo che gli si dava, della
morte, in mezzo al fasto e alla pompa che avrebbe potuto farlo
insuperbire.
Il papa Stefano II
regnò solo quattro giorni; Celestino IV, diciassette;
Bonifazio VI, quindici; Sisinio, venti; Damaso II, ventitré;
Pio III, ventisei; Marcellino II, ventuno; Urbano VII, sette; Leone
XI, ventisette. Di questo ultimo si narra che morendo dicesse: «O
come sarei più tranquillo e felice se invece delle chiavi del
cielo, avessi tenuto quelle di un convento! (Histor. Eccles.)».
E così è in tutte le condizioni, per la brevità
e rapidità della vita. «Ricordiamoci dunque, dirò
col Savio, che la morte non tarda, e che vi fu partecipato il decreto
il quale vi condanna a discendere nella profondità della
terra, il decreto pronunziato sul mondo: Egli morrà»
(Eccli. XIV, 12).
7. LA MORTE CI
ACCOMPAGNA. – Il tempo non è altra cosa, dice S. Agostino, che
un correre verso la morte; noi moriamo ogni giorno, perché
ogni giorno la morte ci ruba qualche brandello di vita (De Civit
Dei, 1. XIII, c. X). Nel punto medesimo in cui siamo entrati alla
vita, dice il Savio, abbiamo cominciato a camminare verso la morte e
ad uscire dalla vita. Appena nati, cessiamo di essere (Sap.
V, 13).
«Quanto
cresciamo in età, tanto la nostra vita diminuisce, e l’ora
medesima in cui diciamo io vivo, già l’abbiamo divisa con la
morte (Lib. III, c. XXIV)». Il cibo, col quale
ristoriamo le nostre forze, prova che la morte ci toglie sempre
qualche cosa; il sonno ci ruba un terzo della vita; per i primi sei
anni non abbiamo l’uso della ragione; il lavoro abbrevia la vita, i
piaceri la sconcertano, i disgusti la rodono, le malattie la
consumano, ecc. Togliete tutto questo, che cosa vi resta della vita?
Quasi nulla.
8. LA MORTE CI DICE
CHE TUTTO È UN NULLA. – La figura di questo mondo passa, dice
il grande Apostolo (I Cor VII, 31). Notate che l’Apostolo
chiama la vita una figura, un’ombra passeggera. È questa la
vera definizione della vita umana!…
Il giorno presente fugge, dice il poeta, e non
sappiamo se per noi sorgerà l’aurora del domani, e che ci
apporterà, se travaglio o riposo. E così passa la
gloria del mondo. Vuoi tu, domanda Giusto Lipsio, che ti parli
chiaro? Ecco quello che ti dico: tutte le cose umane sono fumo,
ombra, vanità, scena da teatro; in una parola, sono niente (In
eius Vita). Infatti, il mondo è un teatro sul quale si
rappresenta la scena della vita. Il luogo di questo teatro è
la terra; gli uomini che entrano ed escono sono gli attori. Una
generazione passa, dice l’Ecclesiastico, l’altra viene. Due
porte mettono su la scena; la nascita per quelli che entrano, la
morte per quelli che escono. Ciascuno indossa una divisa; quello che
fa la parte da re, non porterà fuori del teatro né la
porpora, né lo scettro.
Ah, la scena finisce presto…
Palazzi, ville, tesori, in mano di quanti sIete già passati? e
quanti abitatori e padroni cambierete voi ancora? Dov’è
Sansone, l’Ercole dell’universo? Dove Salomone, il più
sapiente dei re? Dove l’eloquente Cicerone, l’erudito Plutarco, il
divino Platone? Dove sono tanti uomini celebri, tanti famosi
conquistatori, tanti prìncipi, tanti Cresi? Disparvero in un
batter d’occhio. Dove trovarli?
Chi più
conosciuto, più ammirato, più lodato di Alessandro
Magno? Ecco che cosa ne dice la sacra Scrittura: Egli regnò in
Grecia; uscì dalla terra di Cethim; vinse Dario, re dei Persi
e dei Medi. Diede molte battaglie, espugnò le più
munite fortezze, mandò a morte i re della terra. Si spinse
fino agli ultimi confini del mondo; raccolse le spoglie di una turba
di nazioni, e l’universo ammutolì al suo cospetto. Raccolse le
sue forze e n’ebbe un esercito potentissimo e il suo cuore si gonfiò
di orgoglio. Si rese padrone dei popoli e dei re i quali divennero
suoi tributari. Dopo questo, cadde in letto… e morì (I Mach.
I, 1-8). Ieri l’universo intero non gli bastava; oggi gli bastano sei
piedi di terra. Ieri opprimeva la terra, oggi la terra pesa sopra di
lui, lo copre. E, cosa notevole! ottenne a stento quello che al più
miserabile è concesso, la sepoltura; infatti, per motivo dei
contrasti sorti tra i suoi successori, il cadavere di lui stette
trenta giorni insepolto… Chi non vede in questo esempio come la
morte provi che l’uomo, qualunque egli sia, non è che polvere,
ombra, fumo, ossia un bel niente?
9. IN CHE STATO LA
MORTE RIDUCE L’UOMO. – «Tu sei polvere, o uomo, e in polvere
ritornerai» (Gen. III, 19). «Nudo uscii dal seno
della madre e nudo vi rientrerò» (IOB. I, 21). Giobbe dà
il nome di madre alla terra, perché gli fornirà una
tomba che gli ricorda il seno della sua genitrice.
O pastura dei vermi, o massa
informe di polvere e di corruzione, o goccia di rugiada, o vanità,
perché tanto insuperbirti? Che cerchi tu in questo mondo? Che
cosa desideri?.. Essere cenere su la terra, per essere cenere nella
terra: ecco tutto l’uomo!
Osservate quel misero
peccatore che, avendo dimenticato Dio nel tempo di sua vita, non
aveva mai dato uno sguardo alla morte per prepararvisi. Ieri godeva
buona salute e oggi eccolo steso sul letto del dolore. Il male
infierisce, la febbre aumenta. Tre persone vengono chiamate al suo
capezzale: il prete, il medico, il notaio. Quanti affari da
assestare! E la cosa preme; il medico dichiara che la morte incalza;
del resto tutti già se n’accorgono; gli occhi gli si
appannano, il volto si scolorisce, il naso si affila; diviene sordo;
perde l’intelligenza; già stenta a parlare. Prete, medico,
notaio, fate presto, perché la morte è vicina…
Ciascuno infatti si affretta a compiere il suo dovere, tra gemiti di
una famiglia desolata. Ma la morte arriva e colpisce: non si ha più
che un cadavere. La prima persona che si avverte è il
becchino; mentre costui prepara la fossa, altri si affrettano ad
avviluppare in un brandello di lenzuolo quel resto della morte; tutti
si allontanano… Vi si gettano sopra sei piedi di terra; la fossa è
chiusa, il corpo abbandonato, l’anima giudicata per l’eternità…
Non vi resta più che da innalzare su quella tomba un monumento
e scrivervi un epitaffio. Ma non occorre pensarci: il profeta ne ha
fatto uno che serve per tutti gli uomini. «La morte se ne
pascerà» (Psalm. XLVIII, 14).
O mortali! voi
calpestate la terra; voi regnate su la terra; ma usciti dalla terra,
ritornerete di nuovo terra. «Noi nasciamo su la terra, dice S.
Bernardo, e moriamo su la terra, ritornando là donde fummo
tratti (Serm. in Psalm.)». Ma, peggio che terra, noi
diventiamo marciume e vermi: «Alla putredine ho detto: tu sei
mio padre, ed ai vermi, voi siete mia madre e mie sorelle»
(IOB. XVII, 14). «Dopo la morte i vermi, scrive un poeta, dopo
i vermi la puzza e l’infezione e l’orrore; così ogni uomo è
cambiato in qualche cosa che non ha nulla dell’uomo». Per
quanto sia grande e rara la bellezza di una persona, essa diventa,
sotto i colpi della morte, cosa orribile e spaventosa: vermi e
putridume. «Quando l’uomo si spegnerà, dice
l’Ecclesiastico, avrà per sua eredità rettili,
vermi e bestie» (Eccli. X, 13).
Che cosa è
l’uomo? domanda S. Efrem; poca cosa: un gruppo di vermi; un pugno di
cenere; un sogno; un’ombra. Egli è passato, egli ha cessato di
comparire. Questo leone invincibile, questo tiranno fortissimo, così
potente, così altero, che il mondo ne tremava, toccò il
suo fine; eccolo steso nella bara. Colui che soperchiava gli altri, è
soperchiato; colui che dominava, è dominato; colui che
incatenava, è incatenato (De iis qui in Christo dormier.).
Del corpo di ogni
uomo, ma specialmente dei grandi e dei potenti secondo il secolo, si
può dire quello che dice la Scrittura, di Gezabele: «E
le carni di Gezabele saranno come fango su la terra; e tutti quelli
che capiteranno a vedere grideranno: Ed è questa Gezabele?»
(IV Reg. IX, 37).
Sul punto di morire
Saladino, re di Siria e dell’Egitto, comandò che fosse portato
per tutte le file dei suoi eserciti, il suo vessillo coperto di un
lenzuolo funebre ed un banditore gridasse: Ecco il solo oggetto che
dei suoi possessi porterà con sé il dominato re della
Siria. e dell’Egitto! (In eius Vita).
Di S. Francesco
Borgia, duca di Candia, leggiamo che avendo dovuto accompagnare alla
tomba dei re il corpo di Isabella di Portogallo, moglie di Carlo V, e
fare la ricognizione del cadavere, lo vide così deforme, così
orribile, ributtante, che non osò certificare che quello fosse
il corpo dell’imperatrice, ma fissandovi sopra lo sguardo, esclamò:
Ed è questa Isabella, imperatrice del mondo? ed è
questa la saggia e pia Isabella, gioia della Spagna, onore
dell’impero, speranza dell’universo? Dov’è l’avvenenza del suo
volto? dove lo splendore dei suoi occhi? dove la maestà della
regia potenza? E illuminato in quel punto dalla grazia, considerando
la vanità del mondo, fece il proposito di rinunziare a tutto e
di servire Dio solo. Mantenne il proposito, visse e morì da
gran santo (In Vita).
Ma il cadavere disceso nel
sepolcro, vi rimarrà almeno in stato di cadavere? No, ma
diventa cosa che non ha nome nel linguaggio umano. Leggiamo in
Ezechiele: «Io ti ridurrò al nulla, dice il Signore
Iddio, e tu non sarai più; ti cercheranno, e non ti troveranno
più in eterno» (XXVI, 21).
Il Delrio riferisce un epitaffio
composto da un re di Francia; epitaffio che sarà ben presto
quello di ciascuno di noi. Eccolo: «Ho riso, piango. Sono
stato, e non sono più. Ho lavorato, mi riposo. Ho giocato, più
non gioco. Ho cantato, ora taccio. Ho nutrito il corpo, ora alimento
i vermi. Ho vegliato, ora dormo. Ho dato il benvenuto, ora dò
l’addio. Ho preso, e sono preso. Ho vinto, e sono vinto. Ho
combattuto, godo la pace. Sono vissuto conforme alle leggi di natura,
e conforme a queste leggi muoio, Non resisto, perché l’oppormi
sarebbe impossibile. Terra fui una volta, e terra sono ridivenuto. Il
mio potere è svanito. Mondo caduco, addio; vermi, vi saluto e
poso nel mio ultimo letto».
10. IL PENSIERO DELLA
MORTE. – Quando sarà giunto il giorno della nostra morte, che
cosa ci gioverà, domanda S. Gregorio, l’aver custodito con
tanta gelosia e con tanto affanno il tesoro accumulato da noi con
tanta sollecitudine? Che cosa serve il cercare onori e ricchezze se
appena acquistate bisogna abbandonarle? Se vogliamo dei beni,
cerchiamo e amiamo quello che possederemo per sempre: se ci fanno
paura i mali, temiamo quelli che soffrono i reprobi e che non avranno
mai fine (Lib. IV, Epist. ad Andream).
Dice lo Spirito
Santo: «L’uomo tesoreggia e non sa per chi raduni i suoi
tesori» (Psalm. XXXVIII, 6). «L’imprudente e
l’insensato, scompariranno insieme, e le loro ricchezze passeranno a
mani straniere; loro dimora sarà il sepolcro» (Psalm.
XL VIII, 10-11). Nell’ultima ora gli avari e quanti hanno il cuore al
mondo, ripeteranno con Agag: «Così adunque ci dividi, o
morte amara» (I Reg. XV, 32). Su via dunque, o ciechi
figli di Adamo, figli della terra, bramate di possederla, come la
possiedono i rettili; aggiungete podere a podere, casa a casa, affare
ad affare, divertimento a divertimento; vi toccherà morire
domani, è forse anche quest’oggi!… O stupide cure dei
mortali, o qual vuoto, qual nulla c’è in fondo alle cose!
O Dio! come mai al punto di morte
l’avaro sarà dolente di aver lavorato per gli altri che presto
lo abbandoneranno, e di non aver fatto nulla per se stesso! Che
desolante pensiero sarà mai questo: di tutti i beni, di tutti
i piaceri, di tutte le creature che erano ai miei servizi ed usi,
altro non mi resta che il sepolcro! (IOB. XVII, 1).
«Se n’andrà
l’uomo nella casa della sua eternità» – dice
l’Ecclesiaste (XII, 5). Questo dovrebbe essere l’argomento
continuo dei nostri pensieri, se intendiamo di vivere da buoni
cristiani; perché, come osserva S. Gerolamo, «facilmente
disprezza tutte le cose terrene, colui che tiene l’occhio fisso
all’ultima sua ora (Epist. CIII) ».
«Quando la
carne ci tenta, dice S. Gregorio, chiediamo a noi medesimi che cosa
sarà di essa dopo la nostra morte e allora si comprenderà
che cosa è quello che si ama. Niente tanto giova a rintuzzare
gli stimoli della carne, quanto il meditare che cosa sarà dopo
morte, quello che si ama vivo (Mor.)».
Leggiamo di un
solitario il quale, mentre era tentato violentemente d’impuro affetto
verso una persona la cui immagine non gli si partiva mai dallo
sguardo, venne a sapere che quella persona era morta. Appena lo
seppe, subito si recò alla tomba di quella, la scoperchiò
e tolto si di dosso il mantello, lo tuffò in quell’ammasso di
putridume e di vermi di cui era pieno il sepolcro, poi ritornò
al deserto. Quivi poi quando la tentazione lo assaliva, contemplando
il mantello infetto e lordo, gridava: O corpo mio, tu hai quello che
cerchi, saziati dunque! E così si mortificava finché la
passione sbolliva (Vit. Patr.).
Dove non vi è
il pensiero e il timore della morte, regna la dissolutezza e ogni
genere di peccati e dove si trovano costumi corrotti, vi è la
perdita dell’anima. Per salvare l’anima, bisogna dunque pensare alla
morte. Non ci passino mai dalla mente quelle parole di San Gerolamo:
«Sia che io mangi, sia che beva, sia che studii, sia che a
qualunque lavoro attenda, sempre rimbomba nelle mie orecchie il suono
dell’ultima tromba: Sorgete, o morti, venite al giudizio (Epist.
ad Heliodor.)».
Pensiamo alla morte e
noi riusciremo sempre vincitori del demonio, del mondo e delle
concupiscenze carnali. «Vivete pensando alla morte, scrive S.
Gerolamo; l’ora fugge, l’istante medesimo in cui parlo, già è
trascorso (Epist. XVI ad Princip.)». «O morte,
esclama il Savio, quanto è amaro il tuo ricordo all’uomo che
se la passa tranquillo in mezzo ai suoi beni! O morte! cara e dolce
suona la tua sentenza all’uomo virtuoso e povero» (Eccli
XLI, 1, 3). Diciamo spesso a noi medesimi: io morrò; perché
dunque attaccarmi così strettamente ai beni, alla fortuna,
agli onori, ai piaceri, alle creature, alla vita, al corpo?.. Io
morrò: perché non procurerò di assicurarmi una
buona e santa morte con la fuga del peccato e con la pratica di tutte
le virtù?… Quanto è saggio colui che calpesta i beni
terrestri e perituri e lavora a provvedersi gli eterni e celesti!…
«Meditare su la
morte è da filosofo», sentenzia Platone (De Legib.);
Seneca ci assicura che niente tanto aiuta ad acquistare temperanza in
tutte le cose, quanto il frequente pensiero della brevità e
dell’incertezza del tempo. Qualunque cosa facciate, volgete lo
sguardo alla morte (Epist. XIII). Queste parole di un pagano
parvero così assennate a San Gerolamo, che le fece sue
scrivendo ad Eliodoro. Il medesimo Seneca dava ancora per avviso,
d’impiegare ogni giorno così, come se fosse l’ultimo della
nostra vita (In Prov).
11. PREPARAZIONE ALLA
MORTE. – S. Gregorio dice: «Siccome ignoriamo affatto l’ora in
cui verrà la morte e dopo di lei non ci sarà più
modo di fare nulla, non ci rimane che un partito da prendere; ed è
di cogliere al volo il tempo che Dio ci concede. Se noi la temiamo
prima che si presenti, quando verrà sarà già
vinta (Moral.)». Moriamo spesso in vita, per vivere dopo
morte. Chi vuole schivare la morte eterna, sappia che deve prevenire
la morte col pensiero della morte (Epicarmi); e disprezzare
vivendo quello che non potrà più avere dopo la morte
(Homil. ad pop.).
Possiamo morire ad
ogni istante e ciascuna delle nostre azioni può essere
l’ultima… Dunque dobbiamo fare ogni azione come vorremmo averla
fatta all’ora della morte e del giudizio divino… «Vivete,
dice S. Gerolamo, come se doveste morire ogni giorno (Epist.
XVI)». Figuratevi di udirvi rivolgere ogni mattino
quell’intimazione del profeta al re Ezechia: «Assesta gli
affari tuoi; ché la morte ti sovrasta e più non vivrai»
(ISAI. XXXVIII, 1)… Il pensiero della morte si accompagni a tutte
le vostre opere e imprese… «Prevenite con le opportune
disposizioni quel giorno che suole prevenire», scrive S.
Agostino (De Civit. Dei)… Guardiamo tutte le cose al fioco
chiarore della morte… Esaminiamo la nostra vocazione, e ogni nostra
risoluzione sia guidata dal pensiero dell’ultimo istante… Sediamo
con la mente, di quando in quando, su la nostra bara, per conoscere
quello che dobbiamo fare, e in qual modo farlo… «La morte ci
attende in ogni luogo; è da saggio, scrive S. Bernardo,
aspettarla ad ogni varco (Serm. in Cantic
*********************************************************************
I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Abitudine del peccato
11 Giugno 2006 calogeroVita cattolica: Matrimonio, laicato...
1. Come si cada nell’abitudine del peccato. – 2. Conseguenze funeste dell’abitudine cattiva. – 3. Quanto sia difficile lasciare l’abitudine del peccato. – 4. Come si conosce se il peccato sia d’abitudine. – 5. Come si lascia l’abitudine.
1. COME SI CADA NELL’ABITUDINE DEL PECCATO. – Gesù, andato alla casa di Marta e di Maria, trovò che Lazzaro, loro fratello, giaceva da quattro giorni nel sepolcro. – Iesus invenit eum quattuor dies iam in monumento habentem (IOANN. XI, 17). Per cinque gradi Lazzaro scende nella tomba a putrefarsi:
1° per la languidezza: Erat languens…;
2° per la malattia: Infirmabatur…;
3° per il sonno: Dormit…;
4.° per la morte: Mortuus est…;
5° per la dissoluzione nello stato di cadavere: Iam foetet…;
e così ancora per questi gradi si rovina nell’abitudine del peccato.
Lazzaro che giace da quattro giorni nella tomba offre l’immagine del peccatore che è nell’abitudine di peccare mortalmente. Il primo giorno è per lui, quando cade pel consenso della sua volontà… Il secondo, quando consuma col fatto il peccato… Il terzo, quando ricade e contrae la consuetudine di ricadere… Il quarto, quando s’indurisce e si forma del suo peccato e delle sue ricadute una seconda natura, secondo quelle parole di S. Agostino: “La passione ha origine dalla volontà perversa; il servire alla passione diventa abitudine; non resistere all’abitudine trae alla necessità” (lib. VIII, Confess. c.5). Il medesimo santo Dottore dice ancora: A quel modo che per tre gradi, cioè la suggestione, la dilettazione ed il consenso, si giunge al peccato, così tre differenti stadii si trovano nel peccato: esso è nel cuore, nell’azione e nell’abitudine. Queste sono tre morti: la prima occorre, diremo così, nel recinto della casa, ed è quando s’apre il varco nel cuore alla passione. La seconda avviene come fuori di casa, ed è quando si consente all’azione. La terza ha luogo quando, per la forza delle abitudini cattive che schiacciano a mo’ di macigno, l’anima viene quasi gettata e chiusa in un sepolcro. Gesù Cristo ha risuscitato queste tre specie di morti; ma osservate la diversità di modi che, secondo la sua stessa parola, egli adopera per richiamarli a vita. Al primo morto e’ dice: “Levati su, fanciulla” — Puella, surge (marc. V, 41). Al secondo aggiunge: “Levati, che io te lo intimo” — Adolescens, tibi dico, surge (Luc. VII, 14). Per risuscitare il terzo si turbò, pianse, fremette due volte interiormente, si portò al sepolcro, e qui ad alta voce gridò : “Lazzaro, vieni fuori” — Lazare, veni foras (ioann. XI, 43). Così nel lib. I, De Serm. Domini in Monte al c. XXIII : e poi di nuovo nel Tratt. XLIV su S. Giovanni: “V’ha primieramente il solletico della dilettazione nel cuore…, poi il consenso…, quindi l’azione…, finalmente la consuetudine” — Est 1° titillatio delectationis in corde; 2° consensus; 3° factum; 4° consuetudo.
“Essi erano tutti legati con una medesima catena di tenebre” dice la Sapienza (XVII, 17) — Una enim catena tenebrarum omnes erant colligati. — Or la catena de’ delitti si va formando con l’abitudine; perché la suggestione del Demonio genera il diletto nel pensiero; il diletto provoca il consenso; il consenso porta al fatto; un fatto spinge ad un altro, ed ecco costituirsi la consuetudine. Questa trae la volontà a compiacervisi, e di qui poi l’abbandono di Dio, l’indurimento e la riprovazione. Gli atti abituali sono anelli che s’intrecciano gli uni agli altri; come dice benissimo la Glossa su quelle parole di Giobbe: “Io ho stabilito un patto co’ miei occhi” (XXXI, I), il pensiero tiene dietro allo sguardo; la dilettazione sorge dal pensiero; il consenso nasce dalla dilettazione; l’azione segue il consenso; l’abitudine viene dall’azione; la necessità s’ingenera dall’abitudine; la disperazione è frutto della necessità; la dannazione, della disperazione.
“La passione, scrive S. Gregorio ne’ Morali, s’accende come fuoco, e chi tarda a spegnerlo, si vede ben tosto andare come stoppa in fimme”.
L’imprudenza e la follia degli insensati consiste nel non comprendere, nel non vedere la necessità di ben regolarsi; traviano dal retto sentiero, si smarriscono tra viottoli oscuri e tortuosi e gli errori delle seducenti passioni, a cui sono spinti dai sensi degradati e dalla concupiscenza, li trascinano da questa in quella, finche procedendo sempre peggio d’errore in errore si chiudono finalmente in un labirinto di consuetudini, e da questo precipitano all’Inferno, supremo ed irreparabile errore… Badate a voi! grida Bossuet (Vol. II, Profession religieuse), che l’uomo vecchio il quale è in noi e contro cui dobbiamo lottare tutta la vita, non dà tregua e continuamente lavora a soppiantare l’uomo nuovo: il suo appetito indocile e impaziente, per quanto frenato dalla disciplina, solletica, corre e si precipita, qual prigioniero smaniante di libertà, verso ogni uscita; tenta per tutti i sensi di avventarsi su gli oggetti che gli piacciono. Modesto da principio, finge d’appagarsi di poco, non è che un desiderio imperfetto, una curiosità, un nonnulla; ma provatevi a soddisfare quel primo desiderio, e voi lo vedrete ben tosto attirarne parecchi altri, sino a tanto che l’anima tutta ne resta conquisa. Come un sasso gettato in uno stagno non tocca che in un punto le acque, eppure una volta ricevuto il moto questo si comunica dalle più vicine alle più lontane, cosicché in pochi istanti tutta la massa è commossa, così le passioni dell’anima nostra si svegliano a poco a poco le une le altre per via d’un movimento che si concatena…
2. CONSEGUENZE FUNESTE DELL’ABITUDINE CATTIVA — Se non si resiste alla consuetudine, questa diventa necessità, ha detto S. Agostino (Confess., lib. VIII, c. 5) ed a proposito di Lazzaro che giaceva nel sepolcro chiuso da un macigno — Et lapis superpositus erat ei (ioann. XI, 38) —, osserva che quell’enorme pietra figura la forza d’una perversa e dura abitudine, la quale schiaccia l’anima e non le permette né di risorgere, né di respirare (Serm. XLIV, De Verb. Dom. in Ioan.).
Se si rimane in quest’abitudine, si accumulano colpe su colpe e si finisce coll’essere esclusi per sempre dalla clemenza di Dio: — Appone iniquitatem super iniquitatem eorum, ut non intrent in iustitiam tuam (Psalm: LXV1II, 28). Il nome di costoro è cancellato dal libro de’ viventi, ed essi non sono nel numero dei giusti: — Deleantur de libro viventium et curii iustis non scribantur (Psalm. LXVIII, 29).
Chi si trova, in questa lacrimevole condizione, non si stanca nella sua iniquità, dice l’Ecclesiastico, e non sarà sazio finche non abbia dimagrita e consunta l’anima sua (Eccli., XIV, 9).
Cadere nel peccato è fragilità umana, scrive S. Bernardo, perseverarvi è malizia diabolica (Serm. In Psalm.); e Seneca diceva: “La prima e più grave pena per i peccatori sta nell’aver peccato; ne v’ha delitto che resti impunito, perché è già castigo il cadere di colpa in colpa” (In Prov.).
E’ proprio del peccato, come nota Bossuet (Vol. I, Péché d’habitude), imprimere nell’anima una macchia la quale va sfigurando in lei ogni bellezza, e ne cancella i tratti dell’immagine del Creatore ch’egli stesso v’impresse. Ma un peccato ripetuto, oltre questa macchia, produce ancora nell’anima una tendenza, una forte inclinazione al male, perché insinuandosi in fondo all’anima, ne inceppa tutte le buone inclinazioni, e col proprio peso la trascina agli oggetti terreni. Per notare la disgrazia del peccatore abituato, la Scrittura si serve di tre efficaci paragoni: “Egli ha vestito la maledizione come un abito; ed essa s’è infiltrata come acqua nelle sue viscere, e come olio ha penetrato le sue midolle” — Induit maledictionem sicut vestimentum; et intravit sicut acqua in interiora eius, et sicut oleum in ossibus eius (Psalm. CVIII, 17). Sì, la maledizione copre come una veste il peccatore consuetudinario, perché l’avviluppa tutt’intorno, ne signoreggia le parole e le azioni tutte: entra come l’acqua nel suo interiore e vi corrompe i pensieri; penetra qual olio nelle sue ossa che sono il cuore, l’anima, lo spirito. La veste simboleggia la tirannia, dell’abito; l’acqua l’impetuosità; l’olio una macchia che si spande dappertutto e difficilissimamente si toglie. Terribile malattia è questa dunque dell’abitudine di peccare!
Dio non abbandona mai nessuno, se non è abbandonato per primo, dice S. Agostino: — neserunt et deseruntur (in Psalm. V77). Ora i peccatori, e principalmente gli abituali, continua il medesimo Dottore, lasciano per i primi Iddio e poi Egli lascia loro: Adamo fu giudicato con questa norma: egli abbandonò, poi fu abbandonato: — Deseruit et desertus est. — e così avviene degli altri peccatori. In poche parole S. Agostino spiega come i peccati siano giusta punizione gli uni degli altri, ed in qual baratro si precipiti col ripetersi delle colpe abituali: “Il peccatore abbandonato da Dio cede e consente ai desideri perversi : e allora egli è vinto, preso, legato, e tenuto schiavo” (Contra Iulian.).
L’uomo s’abbandona all’abito di peccare, Dio ve 1o lascia: due disgrazie spaventose!
3. QUANTO SIA DIFFICILE LASCIARE L’ABITUDINE DEL PECCATO. — Affinché il peccatore abituato esca dal suo stato, bisogna che Dio lo svegli con voce grande e potente, come fu quella con cui Gesù Cristo chiamò Lazzaro dal sepolcro: — Voce magna clamavit: Lazare, veni foras (IOANN. XI, 43), perché i consuetudinari sono sordi spiritualmente. Ma Iddio non è punto tenuto a tale miracolo: l’abitudine, poi oppone un ostacolo al miracolo della risurrezione spirituale.
Di Lazzaro sta scritto che aveva mani e piedi legati e la faccia avviluppata in un sudario: — Ligatus pedes et manus institis, et facies illius sudario erat rigata (ioann. XI, 44): e questa è la lacrimevole condizione del peccatore abituato… or, come uscire da questa tomba?… Udite Seneca che discorrendo della concupiscenza, la quale trascina all’abitudine del male chi l’asseconda, dice: “Voi non giungerete mai a ottenere che s’acquieti, se le darete libertà d’incominciare; torna assai più facile tenerla affatto lontana, che scacciarla quando sia entrata” (Epist. CXVII). “Uccidi il nemico mentre è debole”, grida S. Girolamo (Epistola XXII ad Eustoch.): e non trascurare le piccole cose, soggiunge S. Gregorio, perché, insensibilmente sedotto, commetterai le più gravi (Moral.). Allora poi si pecca senza rimorso, e, giunti a questo punto di perversità, non v’ha più rimedio. Tale è l’orribile stato del consuetudinario…
Chi aggiunge colpa a colpa ha il cuore traviato, dice Dio per mezzo del Salmista, egli non conosce le mie vie, ed ho perciò giurato nel mio sdegno, che non entrerà nel luogo del mio riposo (Psalm. XCIV, 10-11). Ah! “i perversi ben difficilmente s’emendano, esclama l’Ecclesiaste, e stragrande è la turba degli insensati”. — Perversi difficile corriguntur, et stultorum infìnitus est numerus (Eccl. I, 15).
“Non da ferro nemico, ma dalla mia ferrea volontà io ero legato, confessa S. Agostino; la mia volontà stava in balìa del mio nemico, il quale si era fatto di essa una catena con cui mi teneva stretto” (lib. VIII, Confess. c. 5). “E con tante catene il peccatore avvinghia se stesso, soggiunge S. Gregorio, quante volte ricade nella colpa” (lib. IV, Mor., c. XVIII).
Per enormi e orrendi che siano i peccati, scrive S. Agostino (Enchirid. c. LXXX), se avviene che diventino abito, sono considerati come leggeri, ed anche non più tenuti in conto di veri peccati; a tal punto che non solo non si tengono celati, ma si ostentano.
I consuetudinari non si correggono, dice la Scrittura, perché sono pazzi. E come no? mentre in 1° luogo il peccato è il sommo della pazzia, perché scombuia la ragione e soffoca il desiderio della virtù. Il peccatore antepone la creatura al Creatore, che è a dire un centesimo a tesori immensi, un granellino di frumento ad una ricchissima messe, il fango all’oro, una stilla d’acqua al mare, un mortifero veleno alla grazia ed alla vita eterna. Oh Dio, che insensatezza! 2° Ripetendo i peccati si contrae l’abitudine, questa mena alla necessità. Conoscete voi follia più funesta?… Si perfidia ostinatamente, si fa pompa del male… 4° Si ricusa ogni emendazione, si spregiano gli avvertimenti e le persone che per impulso di carità riprendono. Si fuggono i rimedi, si vuoi rimanere nella malattia. Ah qui, più che sragionevolezza, più che stupidità, bisogna dire che vi è il colmo della pazzia… La Scrittura dà a questa follia morale il nome di carestia del cuore, — egestas cordis — e chiama i peccatori abituali uomini senza cuore — Indigentes corde — cioè privi dell’uso della volontà (Prov. XI, 12).
“Giunto l’empio in fondo all’abisso del male, tutto disprezza”, dicono i Proverbi (Prov. XVIII, 3). A ragione pertanto scriveva il poeta: Arresta la passione in sul nascere, che troppo tardi giungerà il rimedio, se lasci che il male abbia tempo a far progressi; e l’anima, dice S. Giovanni Crisostomo, corrotta che sia, degradata per l’abito del peccato, languisce d’incurabile malattia, ne più si rimette in forze per quanti rimedi le offra Dio (Homil. ad pop. Antioch.).
Non è così facile svestire gli abiti viziosi, come il vestirli. La volontà, la quale può a suo talento schivare od abbracciare il male, s’avviluppa di per se stessa, come il baco da seta, nell’opera sua; e se i lacci dentro cui s’è irretita sembrano seta perché gradevoli, sono però ferro per la loro durezza. No, essa non è in grado di distruggere a sua posta la prigione che ella medesima si è fabbricata, né spezzare i fili di cui s’è cinta, E non mi state a dire, soggiunge Bossuet (Vol. I, Circoncis.), che essendo i vostri impegni affatto volontari voi possiate, con la medesima volontà che li ha contratti, quando che sia disdirli, perché anzi qui sta appunto il nodo, che quella medesima volontà, la quale si è impegnata, sia obbligata a disimpegnarsi; che essa, la quale forma o vuol formare i legami, s’impegni poi a scioglierli; che debba ella medesima sostenere ad un tempo l’urto e dar l’assalto. Or chi è dunque sì cieco che apertamente non veda come invano essa combatterà e si stancherà in inutili sforzi, se non viene a sostenerla una forza o un soccorso dal di fuori? Poiché non si resiste da forti e robusti per lungo tempo, scrive S. Ambrogio (In Psalm. CXVIII), quando è d’uopo vincere sé medesimo. Troppo faticosa ed accasciante è la lotta che l’uomo deve sostenere contro sé stesso e le sue passioni perché possa vincere da solo.
So bene che altri accusa il Demonio delle malvagie abitudini in cui vive, ma badate, grida S. Agostino (Confess.), che il Diavolo tripudia quand’è accusato, e niente meglio desidera se non die voi gettiate su di lui i vostri torti, affinchè perdiate così il frutto di un’umile confessione.
L’uomo deve superare due ostacoli, l’inclinazione e l’abitudine; quella rende il vizio amabile, questa lo fa necessario; e non è in nostro potere, osserva S. Agostino (In Psalm. CVI), né il principio dell’inclinazione, né la fine dell’abitudine: l’inclinazione c’incatena e ci precipita nel carcere, l’abitudine vi ci lega e chiude sopra di noi la porta per toglierci ogni uscita. Il peccato passato in abitudine diventa quasi identificato coll’uomo: il peccatore abituato è divenuto peccato; e da ciò proviene la difficoltà immensa di vincere le cattive consuetudini.
4. come si conosce se il peccato sia d’abitudine. — Grave malattia è l’abitudine di peccare, e chi desidera vedere se egli ne sia infetto deve osservare: 1° Se egli commette il male con piacere; perché ogni piacere è conforme a qualche natura : ora egli è certo che il peccato non ha di per sé stesso questa consonanza colla nostra natura, bisogna perciò che la ripetizione del peccato abbia formato in noi un’altra natura, e questa, seconda natura è l’abitudine… 2° Se pecca senza resistere, perché allora la forza dell’anima è svigorita ed abbattuta…
5. come si lascia l’abitudine. — I mezzi con cui lasciare e vincere le malvagie abitudini per quanto radicate, sono i seguenti : 1° il timor di Dio; 2° la resistenza…; 3° la preghiera…; 4° il rincrescimento ed il dolore di trovarsi in così infelice stato…; 5° la fuga delle occasioni prossime del peccato d’abitudine…; 6° un vivo orrore del peccato…; 7° frequente ed umile confessione.
“Siete voi combattuti dell’abitudine del peccato? grida S. Agostino, respingetelo da valorosi; non saziatelo ritirandovi, ma sforzatevi d’abbatterlo resistendo” (Lib. de Continent.). Finalmente, una sincera e viva devozione alla Vergine ci fa uscire da qualunque abitudine cattiva.
NOTE in latino omesse
/////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////
I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: L’Inferno
18 Giugno 2007 calogeroVita cattolica: Matrimonio, laicato...
1. Che cosa è l’Inferno?
2. Pene dell’Inferno: 1° Il
fuoco; 2° le tenebre; 3° Il verme roditore; 4° la
schiavitù; 5° la separazione da Dio; 6° ogni sorta di
mali.
3. Il reprobo è maledetto da
Dio, dal demonio, e dagli altri reprobi.
4. Morte nell’Inferno.
5. Come i demoni trattano i reprobi.
6. Disperazione nell’Inferno.
7. Gradazioni di supplizi.
8. Eternità delle pene
Infernali.
9. L’Inferno è conforme alla
giustizia di Dio.
10. Mezzi per schivare l’inferno.
1. CHE COSA È L’INFERNO? –
L’inferno, a definirlo in una parola, è la privazione di ogni
sorta di beni e l’abbondanza di ogni sorta di mali; la privazione di
ogni piacere, il colmo di ogni tormento… Nell’inferno, non più
ricchezze…, non più onori…, non più libertà…,
non più gioia…, non più consolazione…, non più
lumi… , non più speranza…non più carità…,
non più felicità…, non più riposo…, non più
grazie…, non più Dio…, ecc…, ecc… Ma a farcene una
sbiadita idea chiamiamo a breve rassegna le varie pene che
costituiscono quello che si chiama inferno.
2. PENE DELL’INFERNO.
1° Il fuoco. – «I reprobi, dice S. Paolo, sono condannati a
stare in mezzo alle fiamme vendicatrici perché non vollero
conoscere Iddio, né obbedire al Vangelo (II Thess. I,
8). La mano del Signore, come annunziava il Salmista, si stenderà
sopra i suoi nemici e la sua destra afferrerà coloro che
l’odiano; li getterà in un forno ardente (Psalm. XX,
8-9); l’ira sua ha acceso un fuoco che avvamperà fino al fondo
dell’inferno (Deuter. XXXII, 22); e durerà, a
tormento dei maledetti, per tutti i secoli, senza mai né
spegnersi, né scemare (MATTH. XXV, 41).
Il fuoco dell’inferno
fa patire all’anima, separata dal corpo, gli strazi medesimi che
sentirebbe, se gli fosse unita e quando, dopo il giudizio universale,
lo avrà compagno, daranno ambedue continuo alimento al fuoco,
senza che ne restino distrutti. «Il fuoco divino, dice
Lattanzio, brucerà e ribrucerà sempre con la medesima
attività ed energia gli empi e quanto toglierà ai
corpi, tanto vi rimetterà per consumarli di nuovo;
somministrando così a se medesimo un pascolo eterno (Lib.
VII, c. XXI)».
Quindi il fuoco
infernale, come supplizio ed effetto della vendetta divina, è
il sommo dei mali; tanto più se si consideri: 1° che esso
è un fuoco ardentissimo, cocentissimo, penetrantissimo… 2°
Che abbrucia le anime non meno che i corpi, senza mai annientarli…
3° Che è un fuoco tenebroso, puzzolente, il quale tormenta
i dannati non solamente con la sua intensità, ma ancora con la
sua oscurità, col suo fumo densissimo, con l’intollerabile suo
fetore di zolfo. «Pioverà (Iddio) sopra di loro i suoi
lacci; il fuoco, lo zolfo, il vento delle tempeste saranno il calice
che loro prepara» (Psalm. X, 6). S. Giovanni li vide
affondare vivi in uno stagno di fuoco e zolfo e vomitare dalla bocca
fiamme, fumo e zolfo (Apoc. XIX, 20 ;
Id. IX, 17). E più oltre: «In quanto ai
vili, agli increduli, agli abominevoli, agli omicidi, ai fornicatori,
agli avvelenatori, agli idolatri, ai mentitori, essi toccheranno per
loro eredità lo stagno ardente di fuoco e zolfo, che è
la seconda morte» (Id. XXI, 8). 4° Finalmente,
questo fuoco sarà eterno; non può né spegnersi,
né diminuire mai e tiene in continua agitazione, in un tremito
incessante, gli adoratori della bestia, dall’ira di Dio colà
confinati (Id. XIV, 11).
«Meditate,
esclama qui S. Agostino, queste verità e di questo fuoco
dell’inferno fatevi schermo contro le fiamme della concupiscenza che
vi tormentano nella vita presente. Il fuoco materiale che serve ai
nostri usi investe gli oggetti a cui si appicca e li consuma; ma il
fuoco dell’inferno divora i reprobi, e ciò nulla meno sempre
li conserva interi per sempre castigarli. Perciò si chiama
inestinguibile, non solamente perché non si spegne mai, ma
anche perché non uccide e non distrugge coloro che consuma. La
potenza poi e l’efficacia di quella pena e di quel fuoco, non vi è
né lingua né parola che possa esprimerla (Serm.
CLXXXI)».
Venite a contemplare
l’orrendo spettacolo delle vittime del fuoco infernale! Entrate in
ispirito in quelle prigioni ardenti, osservate quegli schiavi legati
con catene di fiamme! Essi non stanno semplicemente nel fuoco, nota
Gesù Cristo, ma vi stanno sepolti (Luc. XVI, 22).
Guardate quel fuoco che divampa da quegli occhi ebbri di lascivia, o
che si dilettarono tante volte di fermarsi in oggetti osceni! Mirate
quel fuoco che entra ed esce a onde da quelle bocche che vomitarono
tanto spesso canti impuri, parole sconce, esecrabili bestemmie e
velenose maldicenze! Guardate come quelle fiamme avvolgono tutte le
membra, come penetrano nelle
midolle, come scorrono
per tutte le vene per fare del reprobo un carbone acceso! Giustizia
del mio Dio, quanto sei tremenda! Quelle vittime sciagurate non
vedono che fuoco, non toccano, non inghiottono, non sentono, non sono
che fuoco (Luc. XVI, 24). Ah! «chi di voi, esclama
Isaia, potrà dimorare con quel fuoco divoratore? chi sosterrà
quegli ardori sempiterni?» (ISAI. XXXIII, 14). Il fuoco di
quaggiù, già tanto ardente, è il fuoco della
bontà di Dio; pensate, quale sarà il fuoco infernale
che è il fuoco della giustizia e della vendetta del
Signore!…
2° Le tenebre.
– I reprobi non vedranno più raggio di luce in eterno (Psalm.
XL VIII, 19) perché sprofondati nell’abisso, nel regno delle
tenebre, nella notte della morte: (Psalm. LXXXVII, 6), vi
staranno come morti sempiterni (Lament. III, 6). Il peccatore
in vita, andava cercando l’oscurità delle tenebre per
abbandonarsi senza ritegno alle brutali sue passioni e trova
nell’inferno tenebre senza misura e senza fine, in punizione dei suoi
misfatti… L’inferno, regno di Satana, è regno di tenebre,
oscurità, di notte densissima ed eterna… Rappresentatevi un
disgraziato incatenato in oscurissimo carcere, condannato a non
uscirne più mai e a non più vedere un barlume di luce:
o Dio, che desolante, disperata condizione sarebbe mai questa! meglio
cento volte la morte. Lontana immagine dell’infelice stato dei
reprobi, stipati nell’orrendo buio dell’inferno, nei densi vortici
del fumo, che si alza dallo stagno del fuoco e dello zolfo, meno
orribile e puzzolente delle colpe dei dannati!…
3° Il verme
roditore. – Nell’inferno, nel fuoco che sempre brucia, si
mantiene tuttavia, dice Gesù Cristo, sempre vivo in seno ai
reprobi un verme che li rode del continuo senza mai consumarli
(MARC. IX, 43); adempiendosi in loro quel detto della Scrittura: «Il
Signore darà la loro carne alla fiamma e ai vermi, affinché
siano tormentati e straziati per sempre» (IUDITH. XVI, 21).
Questo verme roditore indica i rimorsi e gli inutili rammarichi dei
dannati.
S. Cirillo dice: «
I reprobi gemono continuamente e nessuno ha pietà di loro;
gridano dal fondo dell’abisso e nessuno lode; si lagnano e nessuno li
soccorre; piangono e nessuno li compassiona. O peccatori riprovati,
dove è ora la superbia del secolo? dove sono l’alterigia, le
delicatezze, gli ornamenti, la potenza, il fasto, le ricchezze, la
nobiltà, la forza, la seduttrice avvenenza, l’audacia altera
ed insolente, la gioia del misfatto?» (De
exitu animae). Il medesimo linguaggio tiene S. Efrem: «I
dannati versano fiumi di amaro pianto e tra gemiti, singhiozzi e
strida vanno gridando: Noi infelici! come mai abbiamo potuto sciupare
in tanto torpore e negligenza il nostro tempo? perché
lasciarci cogliere così goffamente alle reti delle passioni? O
come lo scherno e il disprezzo che noi facevamo delle cose sante si è
riversato sul nostro capo! Dio ci parlava e noi ci turavamo le
orecchie! ora noi gridiamo ed egli è sordo. Che vantaggio
abbiamo ora delle grandezze del mondo? Dov’è il padre che ci
ha generati? dove la madre che ci mise alla luce? dove i figli, gli
amici, le ricchezze, i poteri? dove la turba dei clienti, lo sciame
dei parassiti e degli adulatori; dove i balli, i festini, le danze, i
divertimenti, i conviti, le geniali conversazioni?» (Serm.).
«In tre modi,
osserva Innocenzo III, il verme roditore della coscienza lacera i
dannati: col ricordo, col pentimento troppo tardo e con le ambasce. I
reprobi rammentano con un rammarico ed un rimorso ineffabile,
infinito, quel che fecero nel mondo con tanto diletto; il pungolo
della memoria punge tormentosamente coloro che lo stimolo del peccato
aveva spinto al male» (In lib. Sap.).
«Il verme
roditore, dice anche S. Bernardo, è la memoria del passato;
nato nell’anima insieme col peccato, così tenacemente vi si
aggrappa, che portato da lei con sé nell’inferno, più
non se ne distaccherà in eterno; ma incessantemente rodendola
e nutrendosi di questo alimento inconsumabile, prolungherà in
eterno la sua vita». E poco dopo fa esclamare al reprobo:
«Misero me! perché, o madre mia, hai tu dato alla luce
un figlio di dolore, di amarezza, di sdegno, di pianto e di rammarico
eterno!». Quindi conchiude tremante: « Ah! io inorridisco
al pensiero di questo verme roditore! (De
Consider. lib. V)».
Il verme della coscienza, che rode
fino al midollo e roderà eternamente i dannati, farà
loro risonare del continuo agli orecchi queste lugubri, strazianti
parole: Come avete voi venduto a prezzo così vile l’anima
vostra così preziosa, l’anima unica ed immortale? Come, per
un, breve ed abbietto piacere, vi siete gettati in queste fiamme
spaventose ed inestinguibili? Voi potevate servirvi, secondo la
volontà del Signore, di quanto possedevate e farvene scala per
meritare la gloria eterna, per ascendere i seggi degli angeli e dei
beati; ma voi stolti voleste abusare di tutto, perciò la
vostra sorte sarà di abitare eternamente coi demoni. Poveri
pazzi! perché siete stati così crudeli verso di voi
medesimi? perché cambiare la beatitudine eterna contro un
sozzo alimento? perché comprarvi, per un istante di vile
piacere, un’eternità di sventura e di pianto? Che vi resta dei
vostri colpevoli diletti? Tutto svanì come ombra, come sogno,
come fumo.
I dannati vedono i loro
traviamenti e se li rimproverano essi medesimi dicendo gemebondi e
inveleniti: Ah! se almeno, vittime di un destino inesorabile, noi non
avessimo potuto evitare la fatale nostra sorte, sapremmo adattarci
alla forza della necessità e meno dolorosa ci riesci l’ebbe
l’infelice nostra condizione; ma il pensare che era in nostra facoltà
il salvarci e che ci siamo perduti per nostra colpa, questo ci
tormenta più di tutto! A noi soli dobbiamo l’orribile
nostra disgrazia. Noi siamo gli artefici della nostra sventura a noi
soli dobbiamo imputare l’infinita, irreparabile perdita che abbiamo
fatto di Dio. Da noi dipendeva il possederlo eternamente in cielo, il
regnare con i santi; a noi stava aperta non meno che agli altri la
porta di quel beato soggiorno; ma noi ci siamo rifiutati d’entrarci e
abbiamo abbandonato la strada che conduce lassù, per tenerci
alla via spaziosa che ci ha condotti a perdizione: «O Israele,
la tua perdita viene da te stesso» (OSE. XIII, 9). Ah! ciechi
ed insensati che fummo! valeva la spesa che per beni così
fragili e così fugaci, quali sono i terreni, per insipidi e
abbietti piaceri, dei quali non ci rimane che la memoria e l’onta,
facessimo getto dei beni eterni, delle ineffabili delizie di cui ora
godremmo nel regno della gloria? Conveniva che ci affezionassimo ad
un’indegna creatura anziché al Creatore il quale solo poteva
soddisfare i nostri immensi desideri?
Oh! che acutissima spina per i
reprobi la perdita volontaria di Dio, del cielo, della salvezza
eterna; che amaro cordoglio, che cocente rimorso strazierà
loro le viscere! In quell’inferno, dove l’anima ristretta in se
stessa, non avrà più modo di uscire né mezzo di
stordirsi, di distrarsi, ella sentirà tutta l’acerbità
e lo strazio di questi rimorsi; ne sarà come cinta, assediata,
punta da tutte le parti; su qualunque lato si volga, incespicherà
in queste spine la quali penetreranno così profondamente in
lei, che le sarà impossibile strapparle. Non passerà
momento ch’ella non si rappresenti, si rimproveri i peccati commessi
e quelli di cui fu cagione; l’abuso da lei fatto delle grazie
concessele dal suo Dio: né già confusamente, o le une
dietro le altre le si presenteranno innanzi le sue colpe, ma
distintamente, tutte a un tratto e in tutta la loro deformità
e le diranno: Ci riconosci? sei tu che ci hai fatte, noi siamo
l’opera delle tue mani. Questo crudele pensiero – lo ho perduto Dio
per mia colpa – non lascerà mai un istante il dannato che ne
sarà incessantemente travagliato, afflitto, tormentato. Me
disgraziato, andrà dicendo a se stesso, che ho mai fatto? Ho
sacrificato il mio Dio, la mia anima, la mia eternità; ho
attirato sopra di me supplizi eterni! ho abusato del sangue di Gesù
Cristo e calpestate le sue grazie! io mi vedo ai fianchi il Calvario,
vedo il sangue di Gesù gocciolarmi dalla croce sul capo e
alimentare la fiamma che mi divora!
O reprobi sciagurati, voi ora vedete i vostri
misfatti e ne avete orrore, ma è troppo tardi! Infelici!
nessuno vi sforzava a peccare; il mondo, il demonio, le passioni vi
invitavano e sollecitavano, ma non vi violentavano. Siete voi che
avete liberamente scelto la morte in cambio della vita, il demonio
invece di Dio, l’inferno in luogo del cielo!…
4° La
schiavitù. – I dannati, sono legati e incatenati tutti
insieme, e ciascuno alla propria catena: ceppi particolari, ceppi
universali; ma tutti arroventati ad un medesimo fuoco, tutti temprati
nelle loro stesse lacrime, affinché non si spezzino e non si
logorino.
Il Savio vide i
disertori della divina Provvidenza giacere tutti legati ad una
medesima catena di tenebre (Sap. XVII, 17,2); li vide come
covoni di paglia, legati insieme, consumarsi nel fuoco (Eccli.
XXI, 10); la medesima similitudine fu adoperata da Gesù
Cristo, quando simboleggiando i cattivi nella zizzania, disse che
sarebbe stata falciata e, legata in covoni, gettata ad ardere
(MATTH. XIII, 30).
Nelle galere, i condannati erano legati
parecchi insieme, per modo che, quando un galeotto cammina, si ferma,
monta, discende, imprime agli altri i medesimi movimenti. Scolorita
immagine di quello che avviene nell’inferno! Tutti i reprobi, legati
gli uni agli altri, sono costretti a subire tutti i movimenti, le
agitazioni, i contorcimenti di ogni reprobo; e ciascun condannato gli
scotimenti e le agitazioni di tutti i dannati. In conseguenza di
questa furiosa e incessante scossa, tutti gli echi dell’inferno
rimbombano del continuo del confuso, assordante rumore prodotto dallo
strascico delle pesanti catene dell’innumerevole torma dei demoni e
dei reprobi.
Come leone incatenato e furibondo
si agita, addenta rabbioso la sua catena e la rode ruggendo, così
il dannato si travaglia continuamente a limare coi denti le sue
catene, cerca di romperle senza che gli venga mai raggiunto lo
scopo…
5° La
separazione da Dio. – La privazione della vista di Dio forma la
principale e più acerba pena dei dannati. Un Dio perduto!
questo bene per eccellenza, l’autore, la sorgente di ogni bene; o
cielo, che perdita! Può mai l’uomo sentirne tutta l’amarezza,
misurarne tutta l’estensione! Non vi è mente che possa
comprenderla. Chi vuole farsene una qualche idea, ricordi
quell’invincibile brama di felicità di cui siamo tutti
assetati. Questa brama è un sentimento profondo che ci
signoreggia e ci segue dovunque; è il movente di tutti i
nostri disegni, di tutte le nostre imprese e azioni. Questo desiderio
è l’opera di Dio medesimo; è lui che l’ha inserito nel
cuore dell’uomo nell’atto medesimo che lo creava. Ora Dio solo può
soddisfarlo; egli ha fatto per sé il cuore dell’uomo ed egli
solo può contentarlo: perciò questo cuore chiama Iddio
suo unico e sommo bene. Ma intanto l’uomo, distratto dalle
inclinazioni e dal solletico dei sensi, si discosta da Dio e cerca
altrove la soddisfazione dei suoi desideri; siccome però è
fuori di strada, si sente agitato e conturbato per la mancanza di
quell’oggetto che solo può formare la sua fortuna. E chiunque
l’ha per poco provato ben può dire quanta inquietudine e
quanto affanno gliene venne nei giorni di tale sventura. Viaggiatore
su la terra, se invece di alzare lo sguardo al cielo, lo fissa su ciò
che lo circonda, se pone nelle ricchezze, negli onori, nei piaceri
l’oggetto della sua felicità, con quanta foga non si getta
dietro a queste chimere! Niente lo impedisce e lo trattiene; egli
corre al vagheggiato oggetto, i rischi e i pericoli, invece di
spegnere le sue voglie, le infiammano, gli ostacoli ne irritano
l’ardore. Vedete il guerriero che affronta mille volte la morte sui
campi, di battaglia, per cingere una corona di quercia! Il mercadante
si allontana dalla famiglia, dalla patria, dagli amici, valica monti,
passa mari sconosciuti, sfida tempeste e naufragi, in cerca di
fortuna. Chi può dire l’impeto violento delle brame di colui
che è dominato dall’amore delle creature? La passione
s’impadronisce di tutte le sue facoltà; il più breve
indugio lo impazienta; il bisogno di possedere quello che ama lo
assorbisce per tal modo, che qualche volta diventa più forte
che lo stesso amore della vita; non di rado si vedono di quelli che
si tolgono la vita per mania amorosa. I disgraziati si uccidono
perché non sono riusciti a raggiungere quel fantasma che essi
credevano dover formare la loro felicità.
O ciechi e stupidi mortali, non
vedete voi che niente di ciò che è in terra può
soddisfare i desideri del vostro cuore? Mettete pure insieme tutti
quanti i diletti, cambiateli, variateli a talento, moltiplicateli
senza fine, ma non tardate a sentirne l’insufficienza e il vuoto.
Incapaci a sbramare la fame del cuore, questi frutti della terra
incantano e seducono all’apparenza, ma appena gustati dànno
amarezza e putredine. I piaceri, le affezioni il mondo si consumano
ben presto e con dolore. Tutto passa e non si lascia dietro se non
disgusto, angoscia, ansietà, inquietudine e quella vaga,
indefinibile noia che forma, si può dire, la trama della vita
umana. No, no, niente può quaggiù riempire il cuore
umano; egli è troppo più grande che il mondo; dimanda
il suo Dio, vuole il suo Dio; cercava il suo Dio anche allora che un
oggetto ingannatore lo sedusse e l’illuse…
Quaggiù in
terra l’uomo distratto e ingannato da ciò che lo circonda, non
riflette su questa verità; agli occhi dei mondani poi passa
del tutto inavvertita; ma nell’inferno non vi saranno più
distrazioni, perché non vi saranno più illusioni.
L’anima del peccatore che su la terra dormiva, si sveglia
nell’inferno e vi si sveglia per non più addormentarsi. Ella
vede, non più accecata e illusa, il suo Dio; lo vede come suo
unico bene, come il solo oggetto che possa renderla felice. Ella vi
si slancia allora con la celerità del lampo; ma un invisibile
braccio la ferma, la respinge, un intervallo immenso la separa dal
suo Dio; secondo quel che rispose Abramo dal cielo al ricco malvagio,
che lo pregava di una goccia di acqua dall’inferno: «Figliuol
mio, un grande abisso sta scavato tra noi e voi: chi vuole passare di
qua a voi, non può, né da codesto luogo venire fin qua»
(Luc. VI, 26).
Tuttavia l’anima piombata
nell’inferno non cessa di volgere gli occhi al cielo; essa ci
vede sempre il suo Dio, ne conosce la grandezza, ne scorge le
perfezioni. Gran Dio, va gridando, non c’è dunque più
riparo, io vi ho perduto e perdendo voi ho perduto tutto! Bel
paradiso, per il quale io era fatta, mai, mai più non ti
vedrò! O beato soggiorno; o patria di delizie, le tue porte mi
stanno chiuse in faccia per sempre! Un trono di gloria mi stava in te
preparato ed ora ne sono sbalzato in eterno! Cari parenti, diletti
amici, che ne siete i fortunati abitatori, io vi ho dunque dato un
eterno addio! non godrò mai più con voi della vista e
della presenza del mio Dio! non gusterò mai di quel torrente
di delizie, dal quale voi siete inondati! non sarò mai a parte
con voi della vostra gloria! Sul vostro capo splende la corona
dell’immortalità e quella ch’era a me destinata l’ho
lasciata cader dal mio capo per sempre! Non vi è rimedio; io
ho perduto ogni cosa e la mia perdita è irreparabile!
E intanto quest’anima s’infiamma di nuovo
ardore, prende nuovo slancio, ma invano! ella si sente stringere e
inchiodare nell’inferno dalle catene che non può spezzare. Chi
può immaginarsi l’acerbità di questa tortura; sentirsi
attratta e spinta: senza posa verso il cielo e vedersi del continuo
risospinta e ricacciata nell’inferno! Essa tende a Dio come a suo
centro, si porta a lui con foga impetuosa; le onde d’un mare in
burrasca che si accavallano, si urtano, si sospingono e rompono senza
tregua contro gli scogli, sono una debole immagine dell’agitazione,
del turbamento di quell’anima. Dove vai tu, anima colpevole? Bada che
tu voli dinanzi al tuo giudice, tu ti getti nelle braccia del tuo
nemico, sotto colpi di un Dio onnipotente e punitore! Ma no; né
questi riflessi, né queste apprensioni, né i castighi
che si prepara possono frenare il violento impulso che la trascina.
Ella si slancia per necessità di se a natura e il peso della
sua iniquità la fa ricadere sopra se stessa; trova nei suoi
peccati un muro insuperabile ai suoi più impetuosi desideri.
Ella s’innalza portata dal bisogno immenso che ha del suo Dio e tutti
i divini attributi da lei oltraggiati la respingono; Dio la respinge
per l’odio necessario che porta al peccato, Ella tenta nuovamente la
prova di slanciarsi verso Dio e la rapidità e persistenza dei
suoi sforzi le fanno comprendere che era fatta per godere Dio; ne è
rigettata e il peso del colpo che la stritola, le fa meglio intendere
che ha obbligato Dio a respingerla. Tutto il suo essere, tutte le sue
tendenze la trascinano al seno della divinità e quella mano
medesima che imprime questi movimenti alla sua volontà, con
invincibile forza la respinge da sé. Ella s’innalza per
disperazione, Dio la respinge per giusta vendetta. Due terribili
movimenti la palleggiano continuamente; di qua è tratta
irresistibilmente verso Dio per possederlo, lontana dai demoni e dal
fuoco per schivarlo; di là è costretta a ricadere,
respinta da Dio e tirata dai demoni. Essa si spinge senza posa verso
Dio e Dio la respinge continuamente; essa fugge sempre dai diavoli e
i diavoli la tengono sempre incatenata in fondo all’abisso. Dio
al quale essa tende, la fugge; i demoni, ch’essa abomina,
l’abbracciano. Ella fugge se stessa senza potersi fuggire; sospesa
tra Dio e i demoni, tra il colmo della felicità e il sommo
della miseria; egualmente infelice e quando si sforza d’avvicinare la
sorgente di ogni bene e quando n’è violentemente strappata;
tanto tormentata quando esce di se stessa, come quando è
obbligata a rientrarvi, ella trova il suo Dio senza poterlo
possedere, lo desidera senza poter gustare la dolcezza dei suoi
desideri; l’odia, senza assaporare il triste conforto che dà
talora l’odio; passa dalle tenebre alla luce, dalla luce alle
tenebre; va di abisso in abisso, di orrore in orrore; porta l’inferno
verso il cielo e riporta l’immagine del cielo fin nell’inferno
medesimo. O crudele tormento!
6° Ogni sorta
di mali. – Dice S: Cipriano: «Il reprobo, spoglio di ogni
vestimento, sarà bruciato da fiamme incorruttibili; il ricco,
oggi vestito di porpora, sarà abbandonato nudo all’attività
di un fuoco divoratore. Le passioni troveranno il loro supplizio e il
loro alimento eterno nei loro propri ardori; i miseri dannati saranno
consumati in caldaie roventi. Ahi! che luogo crudele è
l’inferno! luogo di pianto, di gemiti, di singhiozzi. Il reprobo
aspira e respira l’orribile incendio dell’abisso e delle fiamme che
si slanciano furiose come da un cratere, nell’orrenda notte delle
tenebre. Da monti di fuoco franano macigni ardenti su tutti e su
ciascuno dei dannati e li schiacciano. Lave bollenti ed infiammate di
zolfo e pece e bitume formano un torrente impetuoso che li trascina e
travolge in fondo all’abisso, dove restano annegati e
seppelliti, come Faraone e il suo esercito nei gorghi del Mar Rosso.
Le fiamme ardenti che riempiono l’inferno ne uscirebbero, se
trovassero uno spiraglio, ma siccome l’inferno è ermeticamente
chiuso col sigillo del Dio vendicatore, le fiamme che ne arroventano
la volta si curvano e ricadono su se stesse, avviluppando in mille
guise i dannati» (Serm. de Ascens. Domin.).
«Il ricco venne
a morte e fu sepolto nell’inferno», disse Gesù Cristo
(Luc. XVI, 22). Vivendo, aveva sepolto l’anima nella
gozzoviglia; eccolo ora morto, giacere nel sepolcro dell’inferno e
chiedere per grazia una goccia d’acqua. «O ricco miserabile!
esclama il Crisostomo, tu supplichi Abramo e tu t’inganni! Abramo non
può darti nulla, né concederti nulla, ma può
soltanto ricevere. Specchiamoci in questo ricco che abbisogna del
povero!» (Concio, I, de Lazaro). Io brucio in
quest’incendio, deh, mi sia data una sola goccia d’acqua! grida il
crapulone disgraziato. Ma se il fuoco dell’inferno ti accende tutto
intero, gli risponde S. Pier Crisologo, se le fiamme ti circondano,
perché non domandi altro sollievo se non refrigerio alla
lingua?… Ah, risponde il santo, perché è la sua
lingua, quella lingua che insultava il povero e negava l’elemosina,
che è troppo più atrocemente tormentata che tutte le
altre membra (Serm. CXXIV). «Egli implora, dice S.
Agostino, una goccia d’acqua da colui che lo aveva pregato di una
briciola di pane; la misericordia gli è negata a proporzione
della sua avarizia, Questo ricco, sempre duro, sempre spietato, vuole
ora venire in aiuto dei suoi fratelli; ma troppo tardi tenero e
pietoso, non otterrà nulla di quello che domanda. Il povero
Lazzaro si acquista la beatitudine con la stessa sua povertà;
il ricco malvagio si procura l’infelicità col suo oro. O
ricco! con che fronte implori tu una stilla d’acqua, tu che
rifiutasti una briciola di pane? Tu avresti quello che domandi, se
avessi donato quello che ti era chiesto» (Serm. CX,
de Temp.).
Nell’altra vita, il ricco malvagio
ha per palazzo l’inferno medesimo; per vivande il fuoco, lo zolfo, il
fiele e rettili di ogni sorta; per profumi la più nauseante e
insopportabile puzza; per amici, i demoni per adulatori; invece di
porpora è cinto di fiamme; zolfo e pece gli servono di
vestimenta; ha per luce le tenebre, per compagnia i demoni i quali
come cani arrabbiati, si mordono e lacerano tra di loro. Insomma
tutti i membri del corpo, tutte le facoltà, tutte le potenze
dell’anima, che furono strumento ai piaceri, sono tormentate da
castighi e flagelli propri a ciascun senso e a ciascuna facoltà…
«Il reprobo, dice l’Apocalisse, berrà
del vino dell’ira di Dio, mescolato col vino schietto nel calice
della sua vendetta e sarà tormentato con fuoco e zolfo»
(Apoc. XVI, 10). Meditino i peccatori su queste frasi e vi
troveranno i frutti e i castighi del peccato in queste pene: 1°
Il dannato berrà il fiele della collera del Signore… 2°
Questo fiele sarà senza goccia d’acqua, ossia di consolazione
e farà le veci di ogni genere di supplizio… 3° Il
reprobo si ciberà di fuoco e zolfo… 4° Sarà
oggetto di scherno e di vituperio agli angeli ed ai santi, in
presenza dell’Agnello… 5° Il fumo dei suoi tormenti esala per i
secoli del secoli… 6° Non godrà un istante di tregua…
Considerando queste cose, dicano a se stessi: vorremo noi essere cosi
pazzi, che per un sorso di miele ingannatore, per un piacere
passeggero, ci anneghiamo in un mare di fiele? saremo cosi storditi,
che per una soddisfazione vergognosa ci gettiamo a occhi chiusi per
sempre nell’inferno? Ah no! non sia mai! quello che quaggiù
diletta, passa in un attimo, quello che nell’inferno tormenta, dura
in eterno (AUG., Serm. XC).
«L’inferno,
scrive Ugo da S. Vittore, è un luogo che non si può
misurare, è un baratro senza fondo, pieno di ogni sorta di
dolori e di tutti i tormenti immaginabili» (Lib. IV, de
Anim.), In esso è lo scolo di ogni feccia di ribaldi, di
assassini, di adulteri, di ladri, ecc… La vista è del
continuo funestata da orribili spettri, da spaventosi fantasmi; la
carne è assiderata dal più intenso freddo mentre
divampa accesa d’inestinguibile fuoco. Oltre ciò, ogni
passione vi trova il suo speciale castigo: il beone sarà arso
da una sete divorante, e avrà per bevanda il fiele;
l’orgoglioso sarà coperto di onta e di ignominia, di fango, di
marciume; l’impudico ingoierà fuoco; il vanitoso vestirà
sudici cenci; l’avaro sarà nella miseria; l’accidioso sarà
eternamente stimolato punzecchiato e senza riposo; la bellezza si
muterà in ributtante laidezza; la potenza in ischiavitù;
la gloria in vituperio…
Dio, secondo le
energiche allegorie del Salmista, pioverà lacci sui miseri
dannati, aSsegnerà per loro porzione il fuoco, lo zolfo e il
turbinio delle procelle, li abbevererà alla coppa di un’amara
mistura; e della feccia di quel calice, che andrà qua e là
spargendo, saranno costretti a bere tutti quanti i peccatori (Psalm.
X, 6), (Psalm. LXXIV, 7-8).
Ecco l’orrendo quadro
che dei terribili spettri infernali ci dà il Savio: «Là
sono animali di generi non più veduti, di sconosciute forme,
di inaudita ferocia; dalla bocca vomitano fuoco, dalle nari sbuffano
nubi di denso fumo, sprizzano dagli occhi fiamme ardenti; con i morsi
uccidono, col fiato appestano, la sola vista fa allibire di spavento»
(Sap. XI, 19-20). «Là tonfi di pietre che
rotolano, muggire di belve, scorrazzare di animali da cui rintrona
fra quei monti di fiamme, un’eco spaventosa » (Ib. XVII,
18).
Tutto si rivolta
contro i reprobi e muove loro accanitissima guerra…Nel mondo, il
peccatore abusava di ogni cosa, tutto insozzava, tutto profanava;
nell’inferno tutto gli si convertirà in istrumento di
supplizio e di tortura… Immaginate quanti generi di tormenti, di
strazi, di pene può inventare la più raffinata barbarie
e pensate che, messe a confronto del fuoco e dei patimenti
dell’inferno, non danno che una smorta immagine, un ombra leggera
della realtà. Là si avvera in tutta la sua crudezza ed
estensione quella minaccia del Signore: «Accumulerò
sopra di loro tutti i mali, lancerò contro di essi tutte le
mie saette» (Deuter. XXXII, 25). Li darò in cibo
alle belve, li getterò preda al furore dei serpenti; saranno
consunti dalla fame e serviranno di pasto agli uccelli di rapina (Ib.
24).
Nell’inferno è
un continuo piangere, gemere, urlare, tremare della persona e
digrignare i denti. E un oceano immenso di fuoco che si agita, si
innalza e si sprofonda; sono ondate di fiamme che s incalzano, si
accavallano, mugghiano e trascinano una turba di uomini e di demoni,
che si sfiatano senza posa in istrazianti e disperati lamenti.
Bruciare nel fuoco, gridando mercé senza speranza; non poter
né uscire, né muoversi di quella nera prigione, di quel
tenebroso caos; essere guardato da manigoldi feroci, carico di
catene, inseguito continuamente dai demoni con artigli da sparviero,
flagellati a colpi di frusta; tuffati nelle fiamme, annegati in un
torrente di pece e zolfo; distesi su letti di carboni ardenti,
inestinguibili; perseguitati dal verme roditore, da un giudice
inesorabile; non trovare scampo, non sperare difesa da nessuna
creatura, ma da tutte essere accusato: ecco la condizione dei
dannati, esclama S. Cirillo Alessandrino (Orat. de Animae
excessu).
I reprobi
nell’inferno sono rosi dall’invidia, dalla gelosia, dalla collera,
dall’odio, dalla tristezza, dalle angosce, da rimorsi, dalla
disperazione… La pena dell’inferno è pena lunghissima
che si perde nell’eternità; è pena estesissima, che
affligge tutti i sensi, tutti i membri del corpo, tutte le potenze,
tutte le facoltà dell’anima; è pena altissima,
che priva di Dio, del cielo, della felicità degli eletti; è
pena profondissima, che crocifigge l’interno dell’anima, la
inchioda in fondo all’abisso infernale… «O quanto è
grande, esclama S. Prospero, la disgrazia di essere estraneo
dall’ineffabile gioia della divina contemplazione, venire escluso
dalla beata società dei santi, di non giungere mai alla
cittadinanza del paradiso, di essere morto alla vita del cielo, di
vivere per l’eterna morte; di essere cacciato per sempre, col dragone
e, con gli angeli suoi, nello stagno del fuoco, dove si trova la
seconda morte, l’esilio, la dannazione, il supplizio della vita; di
stare sepolto in mezzo a fiamme tenebrose, in un lago di fuoco che
arde e non consuma mai, che abbrucia e agghiaccia a un tempo; di non
vedere nulla e di soffrire tutti i tormenti immaginabili! Là
sono gemiti incessanti, crocifissione perpetua, dolore infinito!
Pensare a queste pene, vuol dire dare l’addio a tutti i vizi e
ripudiare tutte le seduzioni delle passioni» (De Vita
contemp. 1.b. III).
Nell’inferno, il fuoco punisce la
lussuria dei reprobi; una tempesta di pietre infiammate fiacca la
loro boria e il loro fasto; la fame castiga la loro golosità;
la morte colpisce la loro vita empia e scandalosa; le zanne delle
bestie feroci dilaniano la violenza e la tirannia con cui oppressero
i poveri e le anime pie. Il leone li sbrana; lo scorpione li strazia;
il serpente fa loro scontare la malignità e la gelosia che li
ha tra vagliati. Onta, confusione eterna! Là i più
ricchi non si distinguono dai pezzenti; i più alti giacciono
nell’infimo luogo; i più saggi sono convinti di essere stati i
più stolti; coloro che si stimarono di più sono i più
disprezzati; i più vanitosi della loro bellezza sono i più
schifosi; quelli che furono più profumati saranno i più
fetenti; quelli che amavano dominare su tutti sono calpestati da
tutti, ecc.
3. IL REPROBO È MALEDETTO
DA DIO, DAL DEMONIO E DAGLI ALTRI REPROBI. – Dall’istante in cui il
Giudice supremo avrà pronunziato contro i peccatori che
entrano nell’eternità macchiati anche di un solo peccato
mortale la terribile, irrevocabile sentenza: Partitevi da me, o
maledetti, e andate al fuoco eterno (MATTH. XXV, 41), la maledizione
di Dio non si allontanerà mai più da loro, ma li pigerà
e li travolgerà per tutti i secoli.
Della maledizione di
Dio leggiamo nella Scrittura: «Amò la maledizione e gli
pioverà sul capo; non volle la benedizione e si scosterà
da lui. La maledizione lo coprirà come vestimento, entrerà
come acqua nelle sue interiora, penetrerà come olio nelle sue
midolla. Diventerà per lui come abito che mai non si depone,
come fascia che gli cinge le reni» (Psalm. CVIII,
16-18). Ecco dunque designati quattro terribili effetti della
maledizione di Dio: 1° essa circonda all’esterno il reprobo…;
2° entra nell’interno e si appiglia alle potenze dell’anima…;
3° Li spinge ancora più innanzi e la ferisce fin dentro la
sua sostanza, come olio che penetra fino alle midolla…; 4°
questa maledizione non l’abbandonerà mai un momento… Tale è
l’infelice condizione del dannato sotto l’incubo della maledizione
divina!… Un’anima creata a immagine di Dio, redenta col sangue di
un Dio, essere maledetta dal suo Dio, dal suo Creatore, dal suo
Redentore, dal suo solo ed unico bene! Chi può comprendere,
chi può spiegare questo sommo indefinibile male?…
Mentre i peccatori
sono in questo mondo, i demoni non cessano di adularli, per sedurli e
precipitarli nell’inferno. Come già ai nostri progenitori,
essi offrono loro ad ogni ora dei frutti vietati, dicendo: «Non
morrete, ma diventerete come altrettanti dèi» (Gen.
III, 4-5). Ma nell’inferno invece di adularli, malediranno
senza fine quei ciechi che trangugiarono il veleno della seduzione…
Nell’orribile prigione dove si
scontano fra supplizi atroci le colpe della vita, si troveranno
radunati insieme i compagni di dissolutezza che gareggiavano a chi
più facesse onta al pudore. Là gli amici diventeranno
carnefici degli amici; si svillaneggeranno a vicenda, si
oltraggeranno, si caricheranno di amari rimproveri, si scaglieranno
sanguinose ingiurie e orrende maledizioni. Là il padre
negligente e scandaloso si troverà col figlio scapestrato che
griderà furioso: Padre maledetto, sei tu che mi mettesti nella
via del delitto; tu mi hai insegnato ad ingannare il semplice e
l’incauto, a frodare l’artigiano; tu mi hai seminato in cuore i
funesti germi dell’ambizione, tu mi hai insegnato a profanare la
domenica, a bestemmiare, ad ubriacarmi, a disprezzare i precetti
della Chiesa. Tu sei l’autore della mia disgrazia; io ti maledico e
ti maledirò in eterno!
La figlia si avventerà
quale furia contro sua madre, urlando: Madre disgraziata, perché
darmi alla luce, se volevi prepararmi un’eternità di supplizi?
Il tuo esempio mi fu continua scuola d’immodestia, di civetteria, di
libertinaggio; la tua colpevole e frivola noncuranza, la tua
rilassatezza mi ha perduta! Perché non mi hai strozzata di tua
mano, in culla? Sii maledetta per sempre! E tutti gli echi
dell’inferno ripeteranno: Sii maledetta per sempre!
Là, o libertini scandalosi,
vi troverete con le vittime delle vostre seduzioni; esse vi staranno
sempre ai fianchi per pungervi e dilaniarvi e ciascuno dei loro
rimproveri sarà acuta e ardente saetta che vi trafiggerà
il cuore. Corruttore abominevole, assassino crudele, seduttore
ipocrita, tu mi hai tolto la mia innocenza, rapito la mia verginità,
rubato l’onore, involato la corona; mi hai ucciso l’anima e fatto
perdere il mio Dio! Va’, diavolo incarnato! in che ti aveva
offeso l’anima mia immortale, destinata alla vita della eterna
gloria, da meritare che tu le vibrassi il colpo di eterna morte?
Soffri e disperati, o crudele, soffri per sempre! Nell’implacabile
odio mio, ti maledico in eterno!
4. MORTE
NELL’INFERNO. – Dice il profeta che i reprobi saranno stipati come
pecore nell’inferno e la morte ne farà suo pasto (Psalm.
XL VIII, 14). «Ottimo paragone è questo, scrive S.
Bernardo: perduto il vello delle ricchezze, i reprobi duramente e
interamente spogliati, sono gettati ad ardere nudi tra le fiamme
eterne. La morte ne farà suo alimento, perché moriranno
sempre alla vita e vivranno sempre per la morte; il loro corpo è
abbandonato ai vermi, l’anima al fuoco fino al giorno in cui
nuovamente congiunti in un’infelice unione, patiranno insieme i
supplizi, essi che furono compagni nei vizi (Serm. II
in Evang.) ». « La
morte, soggiunge S. Gerolamo, commentando le citate parole del
Salmista, la morte sarà il mandriano dei dannati; è
giusto che siano guardati e pasciuti dalla morte coloro che non
vollero avere per buon pastore il Cristo (Comment.)».
«Il peccato
consumato genera la morte» (IACOB. I, 15). «E non vi è
morte, dice S. Agostino, tanto terribile e disgraziata, quanto la
morte che non muore mai (Lib. VI, De Civ. c. ult.)».
Quaggiù in terra, osserva anche S. Gregorio, il peccatore
muore alla vita, nell’inferno vivrà della morte. La morte vive
per voi, o reprobi sventurati, e la vostra fine è sempre sul
cominciare. Il dannato sconterà tutti i suoi delitti, ma non
sarà distrutto. La morte non lo annichila, perché se la
vita di questa morte fosse distrutta, egli cesserebbe di esistere; ma
affinché sia tormentato senza fine, è costretto a
vivere nei supplizi; è giusto che quegli la cui vita su la
terra fu una morte nel peccato, soffra nell’inferno una morte che sia
una vita nei castighi (Mor. 1, XV, c. XII). «Nell’inferno,
ripete altrove il medesimo santo, l’anima perde la vita della
felicità, ma non il suo essere di qui la dura necessità
per lei, di soffrire la morte senza morire, di perire senza perire,
di finire sempre senza finire mai; perché per essa la morte è
immortale; è una consunzione senza consumazione, un fine senza
termine. La morte è dunque per i dannati una morte immortale,
un fine infinito, una distruzione indistruttibile (Dialog. 1.
IV, 45)».
Come triste e terribile è
la sorte dei reprobi! Poiché, come i cadaveri servono di
pastura ai vermi, così le anime riprovate servono di alimento
alla morte per tutta l’eternità e la loro vita sarà un
nutrirsi della morte!… Nell’inferno la morte è sempre
vivente; là è il suo regno, il suo trono; là
trova una fecondità immancabile. Se dunque volete sapere che
cosa s a l’inferno, udite: l’inferno è la dimora, il regno
della morte; perché la morte eterna vi domina assoluta, regna
su tutti i dannati, uomini e demoni e il suo impero non vedrà
mai fine. Su la terra, i peccatori stanno nel vestibolo
dell’abitazione della morte, ma nell’inferno stanno nei più
segreti appartamenti, nelle stanze più interne del suo
palazzo. Il cielo è il regno della vita, perché ne è
il re Iddio; l’inferno è il regno della morte, perché
essa vi comanda e signoreggia sola padrona.
«Mi fa
spavento, esclama inorridito S. Bernardo, la morte sempre vivente;
rabbrividisco al pensiero di cadere preda di quella morte che sempre
vive, di quella vita che sempre muore; è questa la seconda
morte che mai non toglie i sentimenti, eppure sempre uccide. O Dio!
chi darà tal grazia ai peccatori, che muoiono una volta,
perché non muoiano in eterno! (De
consid. 1. V, c. XII)». E poi a proposito di quelle
parole d’Osea: «Diranno ai monti, rovesciatevi addosso a noi ed
alle colline, seppelliteci» (OSE. X, 8), così continua:
«Che vogliono i dannati se non la morte della morte, perché
possano finalmente morire, o fuggire la morte? Ma per quanto essi
invochino la morte, la morte non verrà mai a liberarli (De
Consid. 1. V)». «Poiché nell’inferno,
dice S. Gregorio, l’anima è immortalmente mortale, e
mortalmente immortale. E immortale in modo però che può
morire, ed è mortale in modo che non può morire: il
vizio ed il tormento le tolgono bensì la vita beata, ma le
lasciano la vita che dipende dalla sua essenza (Moral. lib.
IV, c. VII)».
5. COME I DEMONI
TRATTANO I REPROBI. – Udite come Isaia descrive l’accoglienza che si
fa al reprobo nell’inferno: «Al suo primo comparire su la
soglia dell’inferno, la casa della morte ne va sossopra; i
demoni che v’imperano, gli si slanciano incontro a dargli il
benvenuto e tutta la turba dei dannati, battendo a palma e levando
orrende, altissime strida, gli dice: Anche tu sei stato ferito come
noi! anche tu sei divenuto simile a noi! La tua alterigia è
caduta in fondo all’abisso, il tuo corpo giace in terra e i
vermi saranno il tuo vestimento» (ISAI. XIV,
9-11).
Tutti i demoni si attruppano alla
porta dell’abisso e al presentarsi di un dannato, gridano con gioia
infernale: Vieni, o reprobo, a dimorare con noi, in mezzo al fuoco,
tra fiamme eterne; vieni a bearti del fumo dei tormenti, che ascende
nei secoli. Vieni, che nulla tanto ci preme quanto premiarti
dell’obbedienza con cui accogliesti le nostre sollecitazioni. Tu ci
hai ascoltati e seguiti allorché ti andavamo sussurrando: Bevi
di questo liquore della voluttà, inebriati di collera, di
bestemmia, ecc… Tu ci porgevi orecchio su la terra, ascoltaci anche
adesso che ti diciamo: Bevi il calice del fuoco misto a zolfo;
tracanna la coppa della collera del Dio vivente; tuffa le labbra nel
vaso del nostro furore… Tutti i demoni sono accaniti nel
perseguitare e malmenare e straziare il reprobo. Vittima su la terra
delle loro suggestioni, diventa nell’inferno vittima del loro
incessante furore… Meditate, o peccatori, queste terribili, ma
salutari verità.
6. DISPERAZIONE NELL’INFERNO. – I
reprobi sono scomunicati e separati per sempre da Dio, dagli angeli,
dalla Chiesa. Essi né ricevono né possono ricevere
aiuto né da Dio, né dagli angeli, né dagli
uomini, né da altra creatura di sorta. Dimenticati e
abbandonati da Dio, dal cielo e dalla terra, ormai non hanno più
modo di fare penitenza; le loro preghiere non hanno più
valore, la redenzione non può più essere loro
applicata; esclusi per sempre dalla misericordia sono condannati, per
irrevocabile giudizio, a non vedere mai più Iddio a dimorare
eternamente con i demoni, in un fuoco che non sarà mai spento;
tutte le creature visibili ed invisibili, corporali e spirituali sono
loro nemiche; si odiano e si maltrattano a vicenda; sono privi di
ogni carità e di riconciliazione; chiarissima mente
comprendono e vivissimamente sentono quello che hanno perduto per
sempre e quello che si guadagnarono col peccato; si vedono stremati
di ogni mezzo, chiusa ogni via di giungere ad amare Dio…
In quest’orrendo
stato, il reprobo digrigna i denti e si abbandona alla più
desolante e crudele disperazione. Nella rabbia della sua
irrimediabile disgrazia, va ripetendo: Il mio fine è perduto,
non vi è più per me filo di speranza (Lament.
III. 18). Il mio smarrimento è senza uscita, non più
scampo, non più vita; vana, impossibile è ogni speranza
di vedere la fine delle mie disgrazie; esse non avranno più
termine; non ne sarò mai più liberato; non avrò
mai più minuto di riposo, di libertà, di gioia, di
consolazione! L’orribile carcere donde non uscirò mai più,
non ha porta! E non è questo, un argomento da invelenire la
loro rabbia, da costringerli a digrignare i denti?
«In braccio
all’orribile disperazione, essi fanno udire, dice S. Efrem, questo
doloroso addio: Addio, apostoli, profeti, martiri, giusti tutti
quanti! addio. senato dei patriarchi! addio esercito degli anacoreti!
addio, croce preziosa e vivificante! addio, eterno regno dei cieli,
bella Gerusalemme. madre degli eletti, paradiso di delizie! addio
anche a voi, Signora nostra, madre di Dio, genitrice di Colui che ha
tanto amato gli uomini! Addio, padri e madri, figli e figlie, sposi e
spose; addio, noi non ci rivedremo mai più!» (Tract.
de Abrenunt, et variis inferni poenis).
7. GRADAZIONI DI
SUPPLIZI. – «Giudizio severissimo aspetta quelli che
sovrastano», dice la Sapienza, e quindi un castigo più
rigoroso sta preparato per costoro nell’inferno (VI. 6). I più
famosi nei delitti, i più astuti nelle seduzioni, i più
scandalosi nei costumi, i più furfanti negli impieghi, saranno
condannati a più duri tormenti, sottoposti a più atroci
supplizi, un fuoco più ardente, una notte più buia, un
freddo più intenso, strazi più orrendi, angosce più
cocenti, insomma un inferno più spaventoso dovranno provare
quelli che nel mondo ebbero più facoltà di fare il male
(Ib. 7-9).
«Molti appartamenti vi sono
nella casa del padre mio», disse Gesù Cristo (IOANNXIV,
2); poiché i giusti hanno una gloria adeguata ai loro meriti,
essendo da Dio premiati ciascuno secondo le sue opere. Or bene, il
medesimo avviene nell’inferno: vi sono colà molti e diversi
stalli; quanto più ree sono le anime che vi cadono, tanto più
in basso e vicina ai demoni è la loro dimora, tanto più
gravi sono i loro supplizi. La giustizia di Dio regna nell’inferno
come nel cielo. Gli apostoli tengono lassù un luogo distinto
dagli altri eletti, il loro seggio sta più vicino al trono
dell’Agnello; Giuda, l’apostolo traditore, occupa nell’inferno uno
stalla ben diverso da quelli della folla dei reprobi. Ogni peccato
mortale merita l’inferno; perciò chi vi precipita carico
di cento, di mille colpe gravi, deve incontrare tormenti cento, mille
volte più gravi di quelli che soffre il reprobo il quale fu
condannato per un solo peccato mortale; supposto che un peccato di
quel primo reprobo sia in gravità affatto uguale a quello di
questo secondo; perché vi sono peccati molto più gravi
gli uni degli altri, ed i più gravi vanno soggetti a pena più
grave…
Dio infinitamente saggio e giusto
pesa tutto scrupolosamente e dà a ciascuno quello che gli
tocca, sia premio o sia castigo… Come cieco ed infelice si mostra
l’uomo che non cerca di accrescere ogni istante il tesoro dei meriti,
lo splendore della sua corona; aumenta invece ogni momento i suoi
peccati e l’acerbità dei suoi supplizi!…
8. ETERNITÀ
DELLE PENE INFERNALI. – Per quanto gravi, orribili, insopportabili
siano i tormenti infernali, essi sarebbero ancora poca cosa se
dovessero finire, ma l’eternità loro è il peggiore dei
supplizi. Quel fine che sempre comincia, secondo l’espressione di S.
Agostino: – Finis semper incipiet, – è ciò che
propriamente forma l’inferno e dà alle pene che là si
soffrono, l’ineffabile, indefinibile qualità che le distingue
da tutte le altre pene, ancorché atrocissime. Tutti i reprobi
soffriranno tra l’orrore e l’affanno, sempre vivranno della morte,
sempre disperati di misericordia e di perdono. Ecco la disgrazia
delle disgrazie, l’inferno dell’inferno. Tormenti eterni!… Non
vedere mai più Iddio, né la Santa Vergine, né i
santi, né gli amici, né i fortunati parenti, né
il cielo; e quel che è più, non poter nemmeno figurarsi
una lontana ombra di speranza di vederli: ecco il sommo dei supplizi,
ecco la più atroce delle torture!
«Partitevi da me, o maledetti,
e andate al fuoco eterno, sentenzierà il giudice supremo, e a
quell’intimazione, andranno i reprobi nel supplizio eterno e gli
eletti nella vita eterna» (MATTH. XXV, 41, 46). Già
vediamo accennata questa sentenza in quelle parole di Daniele:
«Quelli che dormono nella polvere della terra si sveglieranno;
gli uni per la vita eterna, gli altri per l’ignominia la quale si
vedranno sempre dinanzi» (DAN. XII, 2).
Oh! se almeno a tutti
i mali dell’inferno vi fosse un termine! Ma no; non vi sarà
mai né termine, né fine, né sospensione, né
diminuzione di pena; o Dio! che disgrazia, che infelicità è
mai quella!… No, non vi è redenzione per il reprobo: «Il
sangue che Gesù Cristo ha sparso su la terra non penetra
nell’inferno, dice S. Cipriano, perché tutto lo bevvero
i peccatori (Serm.)» i quali pertanto, dice l’Apostolo,
sconteranno la pena di un’eterna dannazione (Thess. II, I, 9).
«La miseria
della pena, scrive Ugo da S. Vittore, cadrà su la miseria
della colpa, affinché restino insieme congiunte e fino a tanto
che rimarrà la colpa, durerà la pena; ora siccome
nell’inferno la colpa resta: in eterno, così in eterno ancora
restano la pena e il castigo» (Lib. de Anima). « E
non è forse giusto, dice S. Gregorio, che coloro i quali
avrebbero voluto sempre vivere per peccare sempre e dimostrarono
questo loro desiderio col peccare sempre, finché vissero e non
vollero mai separarsi dal peccato durante la vita, non siano mai dopo
morte separati dal supplizio? (De Poenitentia, can.
LX)». «Bene sta, ripiglia S. Agostino, che la volontà
la quale volle l’eterno godimento del peccato, sia punita con
un’eterna severità di vendetta (In Spec. Peccat.)».
Ogni peccato mortale importa di
sua natura una punizione eterna. L’uomo, cadendo in colpa grave, si
uccide per l’eternità e non può più risuscitare
senza l’onnipotenza di Dio. Ora questo miracolo di risurrezione, a
cui Dio punto non è tenuto, quando avviene, non avviene che
nel tempo; ma giunto che sia l’uomo nell’inferno, il miracolo non ha
più luogo: chi passa all’eternità macchiato di peccato
mortale, vede la sua colpa e la pena di questa colpa diventare
eterne… Dio è buono; ma appunto perché infinitamente
buono deve odiare il peccato finché ne rimane traccia; ma non
essendo mai distrutto il peccato nell’eternità, ne segue che
sarà eternamente punito in forza dell’odio eterno che gli
porta Iddio… La Scrittura ci dice che Dio ha viscere di
misericordia per gli uomini, ma si dichiara ancora nel medesimo tempo
che vi è un fuoco eterno, che Dio ha decretato eterne pene al
peccato non cancellato dalla penitenza. Oseremo dire che Dio non è
giusto?
È vero che
l’azione colpevole dura poco; ma il male più che nell’azione,
sta nella malizia, nella disobbedienza, nella volontà.
Accuserete voi d’ingiustizia la legge umana che punisce nel
malfattore il delitto di un momento con lunghi anni di pena
infamante?… «L’uomo peccatore, dice S. Gerolamo, deve
soddisfare eternamente a Dio, perché era sua volontà di
resistere eternamente a Dio» (In Psalm. XVIII), «In
una volontà perversa non si deve tanto guardare all’effetto,
dice S. Agostino, ma all’affetto del cuore; quantunque l’effetto
fallisca, perché non dipende dall’uomo, è giusto che la
volontà sia punita con pena proporzionata alla sua malvagia
disposizione (De Civ. Dei)». Ora che altro vorrebbe il
peccatore ostinato, se non che sempre vivere per burlarsi sempre di
Dio e della sua coscienza? L’atto del peccato non dura, ma l’affetto
al peccato dura sempre in fondo al cuore…
Inoltre nell’inferno il peccatore
è privo della grazia e senza di questa è impossibile
ottenere il perdono dei peccati… Il peccato è un
allontanamento volontario da Dio, è un disprezzo formale della
Maestà divina, è l’amore della creatura preferita al
Creatore, ossia un adulterio spirituale, è quindi la più
enorme ingiuria che si possa fare a Dio. Misurate la gravità
di una tale ingiuria con la grandezza del Dio ch’essa oltraggia e
vedrete che è infinita nel suo oggetto perché intacca
una grandezza infinita. Ma un essere finito nella sua essenza, non
può sopportare una pena infinita in intensità; ne segue
dunque la necessità di una pena infinita in durata.
Le parole di Geremia: «Il
peccato (dei reprobi) sta scritto con penna di ferro a punta di
diamante e scolpito su tutta l’ampiezza dei loro cuori» (XVII,
1), mentre denotano l’ostinata volontà, dei peccatori nel mal
fare, significano ancora che le loro colpe stanno scritte nel libro
della morte a lettere di fuoco e che né acqua, né
lagrima basteranno per tutte l’eternità a raderle o
cancellarle. Sono scolpite nella memoria e nella coscienza dei
reprobi e come verme roditore non cesseranno mai dal morderlo e
divorarlo.
Che disgrazia è mai questa
eternità dei tormenti! Che sventura, essere condannato a
vivere sepolto nelle fiamme eterne! O insensatezza degli uomini che
per un vile piacere di un istante si precipitano in torture senza
fine! O eternità di fuoco, di disperazione! O eternità,
tormento incomparabile! O morte che non si trova mai compita! O vita
che è un’eterna morte!… Si beve, si giuoca, si scherza un
momento; questo passa veloce ed ecco succedergli immantinente una
calamità eterna! Così si va ridendo all’inferno
all’eterna infelicità! Vi si va, ma più non se ne
torna; perché la fine della vita presente è il
principio dell’eternità e questo principio è la fine
delle cose di quaggiù. O fine che non termini, o morte che non
sei la morte, mentre chiudi il tempo apri l’eternità che non
ha mai più fine!… Viviamo dunque in questo mondo così,
che meritiamo di vivere eternamente…
9. L’INFERNO È
CONFORME ALLA GIUSTIZIA DI DIO. – Iddio non è autore del
peccato, ma giusto estimatore e conservatore dell’ordine; punisce il
disonore della colpa con l’onore della giustizia. «Tutte le
cose fatte da Dio sono ottime», dice la Sacra Scrittura (Gen.
I, 31), egli non ha dunque fatto quello che si trova di malvagio
nell’uomo. Quello che vi è di cattivo nell’uomo, è
un disordine; ora ogni disordine merita castigo; ma chi si deve
punire, domanda S. Agostino, se non l’autore? e chi è l’autore
del peccato nell’uomo, se non lo stesso uomo ribelle a Dio? Questa
punizione dell’uomo ribelle a Dio non è un disordine, anzi è
l’ordine: la pena è l’ordine del misfatto. Quando io dico
peccato, dico disordine, perché esprimo la ribellione; quando
poi dico punito, dico cosa ordinatissima, perché è
retto ordine che l’iniquità abbia castigo.
Il peccatore, come un
pazzo, si uccide per l’eternità; ammonito fa il sordo; vuole
giustizia che sia punito… Qui viene a proposito l’avviso di San
Paolo ai Galati: «Non illudetevi con Dio non si scherza. L’uomo
raccoglierà di quello che ha seminato: se carne, mieterà
dalla carne corruzione; se spirito, mieterà dallo spirito vita
eterna» (Gal. VI, 7-8).
La vera, la propria
causa dell’inferno è il peccato (Sap. XI. 21). Quello
che forma l’inferno, non è la pena, ma il peccato. Infatti, in
che cosa consiste essenzialmente l’inferno? Nella privazione della
vista e del godimento di Dio, ossia nell’essere separati da Dio, che
è la felicità suprema; ora solo il peccato è la
causa della separazione dell’uomo da Dio. Voi dunque, o peccatori
ostinati, voi vi portate l’inferno nelle viscere, perché
portate dentro di voi il peccato che vi fa discendere vivi
nell’inferno.
Dio non sarebbe Dio se non fosse
giusto; egli deve pagare ciascuno secondo i fatti propri… A chi
dunque oppone: perché un inferno, sotto un Dio buono? la
risposta viene chiara e facile: Appunto perché Dio è
buono, è necessario l’inferno, come perché è
infinitamente buono, vi dev’essere un inferno eterno; infatti dove
sarebbe la bontà, l’equità, la rettitudine sua, se il
disordine morale andasse impunito? Se i tribunali non punissero, non
ostante la evidenza delle prove, il parricidio, il furto, l’incendio,
che ne sarebbe della giustizia e della società? Se piace un
paradiso per ricompensare i buoni che patirono negli stenti e nelle
avversità, perché non ammettere un inferno dove siano
puniti i malvagi che vissero nell’empietà e nei delitti? Dio è
buono e giusto; ma ognun vede che molte virtù anche eroiche,
come il martirio, non hanno in questo mondo, o nessuna o certo una
inadeguata ricompensa: vi sono non pochi delitti che su questa terra
sfuggono ad ogni castigo; vuole dunque giustizia che vi sia un
paradiso e un inferno.
10. MEZZI PER
SCHIVARE L’INFERNO. – I mezzi che abbiamo per evitare l’inferno sono
: 1° La preghiera. Volgiamoci a Dio gridando col profeta: «Deh!
O Signore, non mi sommerga la tempesta delle onde, non m’inghiottisca
l’abisso, non si chiuda sopra di me la bocca della voragine»
(Psalm. LXVIII, 16).
2° Il pensiero ed
il timore dell’inferno. «Discendiamo nell’inferno mentre siamo
vivi, dice un santo padre, se non vogliamo andarvi dopo morte».
«Quanto si mostra sensato ed è felice, esclama S.
Agostino, colui che in vita si dà tanto pensiero del
supplizio, da scampare al pericolo di subirlo, dopo morte. Volesse
Iddio che intendeste e comprendeste quello che è il mondo e
quello che è l’inferno! Certamente voi allora temereste Iddio,
desiderereste le cose celesti, disprezzereste il mondo e avreste
orrore dell’inferno (In Spec. Peccat.)». Infatti chi di
voi può dimorare in mezzo a un fuoco divoratore, tra vampe
ardenti e sempiterne? domanda Isaia (XXXIII, 14).
3° Il pentimento
delle colpe, la detestazione e confessione dei peccati, la
conversione della vita. «Chi darà al mio capo, gemeva S.
Bernardo, un torrente di pioggia; ai miei occhi una fonte di lagrime;
affinché prevenga col mio pianto e coi miei gemiti, il pianto
unito allo stridore dei denti? (Serm. in XVI
Cantic.)».
//////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////
Sant’Alfonso Maria de Liguori, Massime Eterne: “DEL FINE DELL’UOMO, DEL PECCATO MORTALE, DELLA MORTE, DEL GIUDIZIO, DELL’ETERNITÀ DELL’INFERNO” Fratello mio, sta attento, pensa che per te ancora sta l’inferno, se pecchi. Già arde sotto i tuoi piedi questa orrenda fornace, ed a quest’ora che leggi quante anime vi stan cadendo?
OPERA DI SANT’ALFONSO MARIA DE LIGUORI, DOTTORE DELLA CHIESA.
“Massime eterne cioè meditazioni per ciascun giorno della settimana”
Sette meditazioni, in tre punti, sul fine dell’uomo, la morte il giudizio e l’inferno, divise secondo i sette giorni della settimana
Atti cristiani prima dell’inizio delle meditazioni
Dio mio, verità infallibile, perché voi l’avete rivelato alla santa Chiesa, io credo tutto quello che la santa Chiesa mi propone a credere. Credo che voi siete il mio Dio, Creatore del tutto, che per un’eternità premiate i giusti col paradiso, e castigate i peccatori coll’inferno. Credo che voi siete uno nell’essenza, e trino nelle persone, cioè Padre, Figliuolo, e Spirito-Santo. Credo l’incarnazione e morte di Gesù-Cristo. Credo finalmente tutto quello che crede la santa Chiesa. Vi ringrazio d’avermi fatto cristiano, e mi protesto che in questa santa fede voglio vivere e morire.
Dio mio, fidato nelle vostre promesse, perché voi siete potente, fedele e misericordioso, spero per li meriti di Gesù-Cristo il perdono de’ miei peccati, la perseveranza finale e la gloria del paradiso.
Dio mio, perché voi siete bontà infinita, degno d’infinito amore, v’amo con tutto il cuore mio sopra ogni cosa. E di tutti i peccati miei, perché ho offeso voi bontà infinita, me ne pento con tutto il cuore e me ne dispiace. Propongo prima morire, che più disgustarvi, colla grazia vostra, che vi cerco per ora e sempre. E propongo ancora di ricevere i santi sacramenti in vita ed in morte.
Meditazione per la Domenica – DEL FINE DELL’UOMO
Considera anima mia, come quest’essere che tu hai, te l’ha dato Dio, creandoti a sua immagine, senza tuo merito: ti ha adottato per figlio col santo battesimo: ti ha amato più che da padre, e ti ha creato, acciò l’amassie servissi in questa vita, per poi goderlo in eterno in paradiso. Sicché non sei nato, né dei vivere per godere, per farti ricco e potente, per mangiare, per bere e dormire come i bruti, ma solper amare il tuo Dio, e salvarti in eterno. E le cose create te l’ha date il Signore in uso, acciocché t’aiutassero a conseguire il tuo gran fine. O me infelice, che a tutt’altro ho pensato, fuorchéal mio fine! Padre mio, per amore di Gesù fa ch’io cominci una nuova vita, tutta santa e tutta conforme al tuo divino volere.
Considera, come in punto di morte sentirai gran rimorsi, se non hai atteso a servire Dio. Che pena, quando alla fine de’ giorni tuoi ti avvederai che non ti resta altro in quell’ora, che un pugno di mosche, di tutte le ricchezze, grandezze, glorie e piaceri! Stupirai, come per vanità e cose da niente hai perduta la grazia di Dio e l’anima tua, senza poter rifare il mal fatto; né vi sarà più tempo da metterti nel buon cammino. O disperazione! O tormento! Vedrai allora quanto valga il tempo, ma tardi. Lo vorresti comperare col sangue, ma non potrai. O giorno amaro per chi non ha servito ed amato Dio.
Considera, quanto si trascura questo gran fine. Si pensa ad accumulare ricchezze, si pensa a banchettare, a festeggiare, a darsi bel tempo: e Dio non si serve, ed a salvar l’anima non si attende, e ‘l fine eterno si tiene per bagattella! E così la maggior parte de’ cristiani, banchettando, cantando e sonando se ne va all’inferno. Oh se essi sapessero che vuol dire inferno! O uomo, stenti tanto per dannarti, e nulla vuoi fare per salvarti! Moriva un segretario di Francesco re d’Inghilterra, e moriva dicendo: Misero me! ho consumato tanta carta per iscrivere le lettere del mio principe, e non ho speso un foglio per ricordarmi de’ miei peccati, e farmi una buona confessione! Filippo III re di Spagna dicea morendo: Oh fossi stato a servire Dio in un deserto, e non fossi stato mai re! Ma che servono allora questi sospiri, questi lamenti? Servono per maggior disperazione. Impara tu a spese d’altri a vivere sollecito di tua salute, se non vuoi cadere nella medesima disperazione. E sappi che quanto fai, dici e pensi fuor del gusto di Dio,tutto è perduto. Su via è tempo già di mutar vita. Che vuoi aspettare il punto della morte a disingannarti? alle porte dell’eternità, sulle fauci dell’inferno, quando non v’è più luogo di emendare l’errore? Dio mio, perdonami.Io t’amo sopra ogni cosa. Mi pento d’averti offeso sopra ogni male.
Maria, speranza mia, prega Gesù per me.
Meditazione per lo lunedì – DELL’IMPORTANZA DEL FINE
Considera uomo, quanto importi conseguire il tuo gran fine: importa il tutto; perché, se lo conseguisci e ti salvi, sarai per sempre beato, godrai in anima e in corpo ogni bene: ma se lo sgarri, perderai anima e corpo, paradiso e Dio: sarai eternamente misero, sarai per sempre dannato. Dunque questo è il negozio di tutti i negozi, solo importante, solo necessario, il servire Dio e salvarsi l’anima. Onde non dire più, cristiano mio: Ora vo’ soddisfarmi, appresso mi darò a Dio, e spero salvarmi. Questa speranza falsa oh quanti ne ha mandati all’inferno, i quali pure diceano così, ed ora son dannati, e non ci è più rimedio per essi! Qual dannato volea proprio dannarsi? Ma Dio maledice chi pecca per la speranza del perdono: «Maledictus homo qui peccat in spe».Tu dici, voglio far questo peccato e poi me lo confesso. E chi sa, se avrai questo tempo? Chi t’assicura, che non morirai di subito dopo il peccato? Frattanto perdi la grazia di Dio, e se non la trovi più? Dio fa misericordia a chi lo teme, non a chi lo disprezza: «Et misericordia eius timentibus eum» (Luc. I). Né dire più, tanto mi confesso due peccati, quanto tre: no, perché Dio due peccati ti perdonerà, e tre no. Dio sopporta, ma non sopporta sempre: «In plenitudine peccatorum puniat» (2. Mach. 5). Quando è piena la misura, Dio non perdona più, o castiga colla morte, o con abbandonar il peccatore, sì che da peccato in peccato se n’anderà all’inferno, castigo peggiore della morte. Attento, fratello, a questo ch’ora leggi. Finiscila, datti a Dio. Temi che questo sia l’ultimo avviso, che Dio ti manda. Basta quanto l’hai offeso. Basta quanto egli t’ha sopportato. Trema che ad un altro peccato mortale che farai, Dio non ti perdonerà più. Vedi che si tratta d’anima, si tratta d’eternità. Questo gran pensiero dell’eternità quanti ne ha cavati dal mondo, e gli ha mandati a vivere ne’ chiostri, ne’ deserti e nelle grotte! Povero me, che mi trovo di tanti peccati fatti? il cuore afflitto, l’anima aggravata, l’inferno acquistato, Dio perduto. Ah Dio mio e Padre mio, legamiall’amor tuo.
Considera, come quest’affare eterno è lo più trascurato. A tutto si pensa, fuorché a salvarsi. Per tutto v’è tempo, fuorché per Dio. Si dica ad un mondano che frequenti i sacramenti, che si facciamezz’ora d’orazione il giorno, risponde: Ho figli, ho nipoti, ho possessioni, ho che fare. Oh Dio, e non hai l’anima? Impegna pur le ricchezze, chiama i figli, i nipoti che ti diano aiuto in punto di morte, e ti caccino dall’inferno, se vai dannato. Non ti lusingare di poter accordare Dio e mondo, paradiso e peccati. Il salvarsi non è negozio da trattarlo alla larga; bisogna far violenzaa te stesso, bisogna farti forza, se vuoi guadagnarti la corona immortale. Quanti cristiani si lusingavano che appresso avrebbero servito Dio, e si sarebbero salvati, ed ora stanno nell’inferno! Che pazzia, pensar sempre a quello che finisce così presto, e pensar tanto poco a quello che non ha mai da finire! Ah cristiano, pensa a’ casi tuoi! Pensa che fra poco sloggerai da questa terra, ed anderai alla casa dell’eternità! Povero te, se ti danni! Vedi che non ci potrai rimediare più.
Considera cristiano, e dì: Un’anima ho, se questa mi perdo, ho perduto ogni cosa: un’anima ho, se a danno di questa mi guadagno un mondo, che mi serve? se divento un grand’uomo, e mi perdo l’anima, che mi giova? Se accumulo ricchezze, se avanzo la casa, se ingrandisco i figli, e mi perdo l’anima, che mi giova? Che giovarono le grandezze, i piaceri, le vanità a tanti che vissero nel mondo, ed ora sono polvere in una fossa, e confinati già nell’inferno? Dunque, se l’anima è mia, se un’anima ho, se la sgarro una volta, l’ho sgarrata per sempre; deggio ben pensare a salvarmi. Questo è un punto, che troppo importa. Si tratta di essere o sempre felice, o sempre infelice. O mio Dio, confesso e mi confondo che finora sono vivuto da cieco, sono andato così lontano da te, non ho pensato a salvare quest’unica anima mia. Salvami, o Padre, per Gesù-Cristo: mi contento di perder ogni cosa, purché non perda voi, mio Dio.
Maria, speranza mia, salvami tu colla tua intercessione.
Meditazione per lo martedì – DEL PECCATO MORTALE
Considera, come tu creato da Dio per amarlo, con ingratitudine d’inferno te gli sei ribellato, l’hai trattato da nemico, hai disprezzata la sua grazia, la sua amicizia. Conoscevi che gli davi un gran disgusto con quel peccato, e l’hai fatto? Chi pecca, che fa? volta le spalle a Dio, gli perde il rispetto, alza la mano per dargli uno schiaffo, affligge il cuore di Dio: «Et afflixerunt spiritum sanctum eius (Is. 63)». Chi pecca, dice a Dio col fatto: Allontanati da me, non ti voglio ubbidire, non ti voglio servire, non ti voglio riconoscere per mio Signore: non ti voglio tenere per Dio: il mio Dio è quel piacere, quell’interesse, quella vendetta. Così hai detto nel tuo cuore, quando hai preferita la creatura a Dio. S. Maria Maddalena de’ Pazzi non sapea credere, come un cristiano potesse ad occhi aperti far un peccato mortale; e tu che leggi, che dici? Quanti n’hai commessi? Dio mio, perdonami, abbi pietà di me. Ho offeso te, bontà infinita: odio i peccati miei: t’amo, e mi pento d’averti ingiuriato a torto, o Dio mio, degno d’infinito amore.
Considera, come Dio ti dicea, quando peccavi: Figlio, io sono il tuo Dio, che ti creai dal niente, e ti ricomprai col mio sangue; io ti proibisco di far questo peccato sotto pena della mia disgrazia. Ma tu peccando, dicesti a Dio: Signore, io non voglio ubbidirti, voglio pigliarmi questo gusto, e non m’importa che ti dispiace, e che perdo la tua grazia. «Dixisti, non serviam». Ah mio Dio, e ciò l’ho fatto più volte! come mi avete sopportato? Oh fossi morto prima che avervi offeso! Io non voglio più disgustarvi: io vi voglio amare, o bontà infinita. Datemi voi perseveranza. Datemi il vostro santo amore.
Considera, che quando i peccati giungono a certo numero, fanno che Dio abbandoni il peccatore: «Dominus patienter exspectat, ut cum iudicii dies advenerit, in plenitudine peccatorum puniat» (2. Mach. 6.14). Se dunque, fratello mio, sarai di nuovo tentato di peccare, non dire più: Poi me lo confesso. E se Dio ti fa morire allora? e se Dio ti abbandona? che ne sarà di te per tutta l’eternità? Così tanti si son perduti. Pur essi speravano il perdono, ma è venuta la morte, e si son dannati. Trema che lo stesso non avvenga a te. Non merita misericordia chi vuol servirsi della bontà di Dio per offenderlo. Dopo tanti peccati che Dio t’ha perdonati, giustamente hai a temere che ad un altro peccato mortale che farai, Dio non ti perdoni più. Ringrazialo che t’ha aspettato finora. E fa in questo punto una forte risoluzione di soffrir prima la morte che fare un altro peccato. Dì sempre da ogg’innanzi: Signore, basta quanto v’ho offeso; la vita che mi resta, non la voglio spendere a più disgustarvi (no, che voi non ve lo meritate), la voglio spendere solo ad amarvi, ed a piangere l’offese che v’ho fatte. Me ne pento con tutto il cuore. Gesù mio, vi voglio amare, datemi forza.
Maria, Madre mia, aiutatemi. Amen.
Meditazione per lo mercoledì – DELLA MORTE
Considera, come ha da finire questa vita. È uscita già la sentenza: hai da morire. La morte è certa, ma non si sa quando viene. Che ci vuole a morire? Una goccia che ti cade sul cuore, una vena che ti si rompe nel petto, una suffogazione di catarro, un torrente impetuoso di sangue, un animaletto velenoso che ti morde, una febbre, una puntura, una piaga, un’inondazione, un terremoto, un fulmine, un lampo basta a levarti la vita. La morte verrà ad assalirti, quando meno ci pensi. Quanti la sera si son posti a dormire, e la mattina si son trovati morti! Non può forse ciò succedere anche a te? Tanti che son morti di subito, non se lo pensavano di morir così; ma così sono morti, e se si trovavano in peccato, ora dove stanno? E dove staranno per tutta l’eternità? Ma sia come si voglia; è certo che ha da venire un tempo, nel quale per te si farà notte e non giorno, o si farà giorno e non vedrai la notte. Verrò come un ladro alla scordata e di nascosto, dice Gesu-Cristo. Te lo avvisa per tempo il tuo buon Signore, perché ama la tua salute.
Corrispondi a Dio, approfittati dell’avviso, preparati a ben morire, prima che venga la morte: «Estote parati». Allora non è tempo d’apparecchiarsi, ma di trovarsi apparecchiato. È certo ch’hai da morire. Ha da finire la scena di questo mondo per te, e non sai quando. Chi sa se fra un anno, fra un mese, se domani sarai vivo? Gesù mio, dammi luce e perdonami.
Considera, come nell’ora della morte ti troverai steso in un letto, assistito dal sacerdote che ti ricorderà l’anima, co’ parenti accanto che ti piangeranno, col Crocifisso a capo, colla candela a’ piedi, già vicino a passare all’eternità. Ti sentirai la testa addolorata, gli occhi oscurati, la lingua arsa, le fauci chiuse, il petto aggravato, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto: lascerai ogni cosa, e povero e nudo sarai gittato a marcir in una fossa: quivi i vermi ed i sorci si roderanno tutte le tue carni, e di te non resterà che quattr’ossa spolpate, ed un poco di polvere fetente, e niente più. Apri una fossa, e vedi a che è ridotto quel riccone, quell’avaro, quella donna vana! Così finisce la vita. Nell’ora della morte ti vedrai circondato da’ demonii, che ti metteranno innanzi tutti i peccati commessi da che eri fanciullo. Ora il demonio per indurti a peccare, cuopre e scusa la colpa; dice che non è gran male quella vanità, quel piacere, quella confidenza, quel rancore, che non ci è mal fine in quella conversazione; ma in morte scoprirà la gravezza del tuo peccato; ed al lume di quell’eternità, alla quale starai per passare, conoscerai che male fu aver offeso un Dio infinito. Presto rimedia a tempo, ora che puoi, perché allora non sarà più tempo.
Considera, come la morte è un momento, dal quale dipende l’eternità. Giace l’uomo già vicino a morire, e per conseguenza vicino ad una delle due eternità; e questa sorte sta attaccata a quell’ultima chiusa di bocca, dopo la quale in un punto si trova l’anima o salva, o dannata per sempre. O punto! o chiusa di bocca! o momento donde dipende un’eternità! Un’eternità o di gloria o di pena. Un’eternità o sempre felice o sempre infelice: o di contenti o di affanni. Un’eternità o d’ogni bene o d’ogni male. Un’eternità o d’un paradiso o d’un inferno. Viene a dire che se in quel momento ti salvi, non avrai più guai, sarai sempre contento e beato. Ma se la sgarri, e ti danni, sarai sempre afflitto e disperato, mentre Dio sarà Dio. In morte conoscerai che vuol dire paradiso, inferno, peccato, Dio offeso, legge di Dio disprezzata, peccati lasciati in confessione, roba non restituita. Misero me! dirà il moribondo, da qui a pochi momenti ho da comparir innanzi a Dio? e chi sa qual sentenza mi toccherà? Dove anderò, al paradiso o all’inferno? a godere fra gli angioli o ad ardere fra’ dannati? Sarò figlio di Dio o schiavo del demonio? Fra poco oimè lo saprò, e dove alloggerò la prima volta, ivi resterò in eterno. Ah fra poche ore, fra pochi momenti che ne sarà di me? Che ne sarà di me, se non risarcisco quello scandalo; se non restituisco quella roba, quella fama? se non perdono di cuore al nemico? se non mi confesso bene? Allora detesterai mille volte quel giorno, che peccasti, quel diletto, quella vendetta che ti prendesti: ma troppo tardi, e senza frutto, perché lo farai per mero timor del castigo, senz’amore a Dio. Ah Signore, ecco da questo punto io mi converto a voi, non voglio aspettare la morte; ed ora io v’amo, v’abbraccio e voglio morire abbracciato con voi.
Madre mia Maria, fammi morire sotto il manto tuo, aiutami in quel punto.
Meditazione per lo giovedì – DEL GIUDIZIO FINALE
Considera, come appena l’anima uscirà dal corpo, che sarà condotta innanzi al tribunale di Dio, per essere giudicata. Il giudice è un Dio onnipotente, da te maltrattato, adirato al sommo. Gli accusatori sono i demonii nemici: i processi i tuoi peccati: la sentenza è inappellabile: la pena un inferno. Non vi sono più compagni, non parenti, non amici; fra te e Dio te l’hai da vedere. Allora scorgerai la bruttezza de’ tuoi peccati, né potrai scusarli come ora fai. Sarai esaminato sopra i peccati di pensieri, di parole, di compiacenze, d’opere, d’omissione e di scandalo. Tutto si ha a pesare in quella gran bilancia della divina giustizia, ed in una cosa, in cui ti troverai mancante, sarai perduto.
Gesù mio e giudice mio, perdonami, prima che m’hai da giudicare.
Considera, come la divina giustizia dovrà giudicare tutte le genti nella valle di Giosafatte, quando (finito il mondo) risusciteranno i corpi per ricevere insieme coll’anima il premio o la pena, secondo le opere loro. Rifletti, come se ti danni, ripiglierai questo tuo medesimo corpo, che servirà per eterna prigione dell’anima sventurata. A quell’amaro incontro l’anima maledirà il corpo, e ‘l corpo maledirà l’anima; sicché l’anima ed il corpo, che ora si accordano in cercar piaceri proibiti, si uniranno a forza dopo morte per essere carnefici di se stessi. All’incontro se ti salvi, questo tuo corpo risorgerà tutto bello, impassibile e risplendente: e così in anima e corpo sarai fatto degno della vita beata. E così finirà la scena di questo mondo. Saran finite allora tutte le grandezze, i piaceri, le pompe di questa terra; tutto è finito. Vi restano solo due eternità, una di gloria e l’altra di pena; l’una beata e l’altra infelice: l’una di gaudii e l’altra di tormenti. Nel paradiso i giusti, nell’inferno i peccatori. Povero allora chi avrà amato il mondo, e per li miseri gusti di questa terra avrà perduto tutto, l’anima, il corpo, il paradiso e Dio.
Considera l’eterna sentenza. Cristo giudice si volterà contra i reprobi e lorodirà: L’avete finita, ingrati, l’avete finita? È già venuta l’ora mia, ora di verità e di giustizia, ora di sdegno e di vendetta. Su, scellerati, avete amata la maledizione, venga sopra di voi: siate maledetti nel tempo, maledetti nell’eternità. Partitevi dalla mia faccia, andate privi d’ogni bene e carichi di tutte le pene al fuoco eterno. «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 25.41). DopoGesù si volterà agli eletti, e dirà: Venite voi figli miei benedetti, venite a possedere il regno de’ cieli a voi apparecchiato. Venite, non più per portare dietro di me la croce, ma insieme con me la corona. Venite ad essere eredi delle mie ricchezze, compagni della mia gloria; venite a cantare in eterno le mie misericordie: venite dall’esilio alla patria, dalle miserie alla gioia, venite dalle lagrime al riso, venite dalle pene all’eterno riposo: «Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum». Gesù mio, spero anch’io d’esser uno di questi benedetti. Io v’amo sopra ogni cosa; beneditemi da quest’ora.
E beneditemi voi, Madre mia Maria.
Meditazione per lo venerdì – DELL’INFERNO
Considera, come l’inferno è una prigione infelicissima, piena di fuoco. In questo fuoco stan sommersi i dannati, avendo un abisso di fuoco di sopra, un abisso d’intorno, un abisso di sotto. Fuoco negli occhi, fuoco nella bocca, fuoco per tutto. Tutti poi i sensi han la lor propria pena, gli occhi accecati dal fumo e dalle tenebre, ed atterriti dalla vista degli altri dannati e de’ demonii. Le orecchie odono giorno e notte continui urli, pianti, bestemmie. L’odorato èappestato dal fetore di quegl’innumerabili corpi puzzolenti. Il gusto è crucciato da ardentissima sete e da fame canina, senza potere ottener mai una goccia d’acqua, né un tozzo di pane. Onde quegl’infelici carcerati, arsi dalla sete, divorati dal fuoco, afflitti da tutti i tormenti, piangono, urlano, si disperano, ma non vi è, né vi sarà mai chi li sollevi o li consoli. O inferno, inferno! che non ti vogliono credere alcuni, se proprio non vi cadono! Che dici tu che leggi? Se ora avessi a morire, dove anderesti? Tu non ti fidi di soffrire una scintilla di candela sulla mano, e ti fiderai poi di stare in un lago di fuoco che ti divori, sconsolato ed abbandonato da tutti per tutta l’eternità?
Considera poi la pena che avranno le potenze. La memoria sarà sempre tormentata dal rimorso della coscienza: questo è quel verme che sempre roderà il dannato, nel pensare al perché si è dannato volontariamente, per pochi gusti avvelenati. Oh Dio che gli pareranno allora quei momenti di gusto, dopo cento, dopo mille milioni d’anni d’inferno? Questo verme gli ricorderà il tempo che l’ha dato Dio per rimediare; le comodità che l’ha presentate per salvarsi; i buoni esempi de’ compagni; i propositi fatti, ma non eseguiti. Ed allora vedrà che non vi è più rimedio alla sua rovina eterna. Oh Dio, oh Dio, e che doppio inferno sarà questo! La volontà sarà sempre contraddetta, e non avrà mai niente di ciò che vorrà, ed avrà sempre quel che non vorrà, cioè tutti i tormenti. L’intelletto conoscerà il gran bene che ha perduto, cioè il paradiso e Dio. O Dio, o Dio, perdonatemi per amor di Gesu-Cristo.
Peccatore, tu che ora non ti curi di perderti il paradiso e Dio, conoscerai la tua cecità, quando vedrai i beati trionfare e godere nel regno de’ cieli, e tu come cane puzzolente sarai cacciato via da quella patria beata, dalla bella faccia di Dio, dalla compagnia di Maria, degli angioli e de’ santi. Allora smaniando griderai: O paradiso di contenti, o Dio bene infinito, non sei né sarai più mio? Su, penitenza: muta vita: non aspettare che non vi sia anche per te più tempo. Datti a Dio: comincia ad amarlo davvero.
Prega Gesù, prega Maria che abbiano pietà di te.
Meditazione per lo sabbato – DELL’ETERNITÀ DELLE PENE
Considera, come nell’inferno non v’è fine: si patiscono tutte le pene, e tutte eterne. Sicché passeranno cento anni di quelle pene, ne passeranno mille, e l’inferno allora comincia; ne passeranno cento mila, e cento milioni, mille milioni d’anni e di secoli, e l’inferno sarà da capo. Se un angelo a quest’ora portasse la nuova ad un dannato che Dio lo vuol cacciare dall’inferno, ma quando? quando saran passati tanti milioni di secoli, quante sono le goccie d’acque, le frondi degli alberi e le arene del mare e della terra, voi vi spaventereste; ma pur è vero che quegli farebbe più festa a questa nuova, che non fareste voi, se aveste la nuova d’esser fatto re d’un gran regno. Sì, perché direbbe il dannato: È vero che hanno da passare tanti secoli, ma ha da venire un giorno che han da finire. Ma ben passeranno tutti questi secoli, e l’inferno sarà da capo; si moltiplicheranno tante volte tutti questi secoli, quante sono le arene, le goccie, le frondi, e l’inferno sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete voi quanto vi piace la pena mia: allungatela per quanto tempo vi piace; basta che ponghiate termine, e son contento. Ma no, questo termine non vi sarà mai. Almeno il povero dannato potesse ingannare se stesso, e lusingarsi con dire: Chi sa, forse un giorno Dio avrà pietà di me, e mi caccerà dall’inferno! No, il dannato si vedrà sempre in faccia scritta la sentenza della sua dannazione eterna, e dirà: Dunque tutte queste pene ch’ora patisco, questo fuoco, questa malinconia, queste grida non hanno da finire mai, mai? E quanto tempo dureranno? sempre, sempre. Oh mai! Oh sempre! Oh eternità! Oh inferno! Come? gli uomini ti credono, e peccano, e seguitano a vivere in peccato?
Fratello mio, sta attento, pensa che per te ancora sta l’inferno, se pecchi. Già arde sotto i tuoi piedi questa orrenda fornace, ed a quest’ora che leggi quante anime vi stan cadendo? Pensa che se tu ci arrivi una volta, non ne potrai uscire più. E se qualche volta già t’hai meritato l’inferno, ringrazia Dio che non ti ci ha mandato; e presto, presto rimedia quanto puoi, piangi i tuoi peccati; piglia i mezzi più atti che puoi per salvarti: confessati spesso, leggi questo o altro libretto spirituale ogni giorno, prendi la divozione a Maria col rosario ogni giorno, col digiuno ogni sabbato: nelle tentazioni resisti, chiamando spesso Gesù e Maria: fuggi l’occasioni di peccare, e se Dio ti chiama anche a lasciare il mondo, fallo, lascialo: ogni cosa che si fa per iscampare da una eternità di pene è poco, è niente. «Nulla nimia securitas, ubi periclitatur aeternitas» (S. Bern.). Per assicurarci nell’eternità non vi è cautela che basti. Vedi quanti anacoreti, per sfuggire l’inferno sono andati a vivere nelle grotte, ne’ deserti! E tu che fai, dopoché tante volte t’hai meritato l’inferno? Che fai? che fai? Vedi che ti danni. Datti a Dio, e digli: Signore, eccomi, voglio fare tutto quello che volete da me.
Maria, aiutami.
(Sant’Alfonso Maria de Liguori “Massime eterne cioè meditazioni per ciascun giorno della settimana”)