venerdì 29 gennaio 2016

COMMENTO AI DUE PRECETTI DELLA CARITA' E AI DIECI COMANDAMENTI

COMMENTO 
AI DUE PRECETTI DELLA CARITA'
E AI DIECI COMANDAMENTI

Introduzione

Per conseguire la salvezza, l'uomo deve conoscere alcune nozioni di base: cosa credere, cosa desiderare e infine che cosa fare. Alla prima esigenza ha risposto il Simbolo, che raccoglie gli articoli della rivelazione; alla seconda, la preghiera del «Padre nostro»; e alla terza, la legge [di Dio].
Partendo da questa indagine circa le cose che bisogna praticare [in ordine alla salvezza], ci troviamo di fronte a quattro tipi di legge.
Innanzitutto c'è la legge naturale, che altro non è se non il lume della ragione di cui ci ha dotato il Creatore, e in base al quale possiamo conoscere ciò che va fatto e ciò che invece dobbiamo evitare.
Questa luce orientativa fu inserita nella natura umana all'atto della creazione; e tuttavia molti credono d'essere scusati circa l'inosservanza della legge appellandosi all'ignoranza della medesima. Il profeta [Davide], dopo aver riportato ciò che essi dicono a propria discolpa («Chi ci mostrerà il bene che dobbiamo fare?» (Sal 4, 6), risponde loro dicendo: «Su di noi è impressa, o Signore, la luce della tua bontà» (Sal 4, 7): il lume cioè della retta ragione. Nessuno infatti ignora che non è bene fare ad altri quanto noi stessi non vorremmo subire, e norme fondamentali del genere.
Però, mentre Dio ci ha fatto dono della legge naturale, in un secondo tempo il diavolo ha scatenato nell'uomo un'altra legge: quella della concupiscenza (145). Fino a quando l'anima dei nostri progenitori rimase soggetta a Dio e ossequiente ai divini precetti, anche la parte fisica dell'uomo restò sottomessa ai dettami della ragione. Allorché, suggestionandolo (146), il diavolo distolse l'uomo dall'osservanza del volere di Dio, anche la carne si ribellò allo spirito (147). E da quel momento accadde che, pur desiderando di compiere il bene indicatogli dalla riflessione, l'uomo si sente tuttavia spinto dalla concupiscenza a muoversi in senso opposto. Era il lamento di san Paolo: «Secondo l'uomo interiore, provo diletto nella legge di Dio; ma vedo nelle membra un'altra inclinazione che lotta contro la legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra» (148).
Si spiega così perché tanto spesso l'impeto della sensualità rende vana la voce della coscienza, ossia la corretta valutazione di ciò che è bene e di ciò che è male.
In tale stato di cose si rendeva necessario un recupero della persona umana; e ai fini di allontanare l'uomo da una condotta viziosa, la legge promulgata dalla Scrittura fu quanto mai opportuna.
Ricorderemo in proposito che egli può essere distolto dal malaffare, e indotto al bene, attraverso due metodi: o quello del timore, o quello dell'amore.
Difatti il deterrente più efficace per strappare un individuo dal peccato è la paura dell'inferno [che accoglierebbe il peccatore] dopo l'estremo giudizio. «Principio di saggezza è il timor di Dio» (Sir I, 16) giacché scaccia la tentazione del peccare (cf. Sir I, 27). Sebbene non possa considerarsi senz'altro un giusto colui che evita di incorrere in colpa per il solo timore dei castighi, tuttavia la sua riabilitazione prende di qui l'avvio.
Questa era la prassi attraverso cui, nella legge mosaica (149), l'uomo veniva dissuaso dal crimine e invogliato a vivere onestamente. I suoi trasgressori potevano essere condannati a morte; infatti «se uno vìola la legge di Mosè (150), sulla deposizione di due o tre testimoni è messo a morte senza misericordia» (Eb 10, 28).
Ma un tale modo d'agire è insufficiente, sicché la legge data tramite Mosè rimase valida per un certo periodo. Se arrivava a frenare la mano, non riusciva a dominare nell'intimo l'attaccamento al male.
Vi è però un'altra possibilità d'intervento: quella da parte dell'amore. Tale è la legge di Cristo: la legge della carità evangelica.
Varie le differenze tra legge dell'amore e legge del timore. Questa rende servile 1'animo di chi la osserva, mentre la prima crea degli uomini liberi (151). Chi si comporta bene soltanto per paura del castigo, si comporta da servo; chi si ispira all'amore fa invece come i figli, come l'uomo che sia padrone delle proprie azioni (152). «Dove è lo spirito del Signore, ivi c'è libertà» (2 Cor 3, 17).
Altro contrasto tra le due leggi l: chi osservava i precetti della legge mosaica otteneva per ricompensa determinati beni temporali (153). Vedi ad esempio, in Isaia: «Se sarete docili e ubbidirete [dice il Signore], potrete godere delle risorse del paese» (Is I, 19), ma chi praticherà gli insegnamenti del vangelo avrà la sua porzione di beni celesti. Osservando i precetti della legge e della carità entreremo nella vita eterna (cf. Mt 19, 17); con l'avvento del regno dei cieli anche la penitenza dovrà ispirarsi all'amore.
La terza differenza sta nel fatto che ogni legge basata sul timore è gravosa. Durante il concilio di Gerusalemme, Pietro scongiura la frangia giudaizzante di non voler imporre «sul collo dei fratelli un giogo che né i nostri padri, né noi abbiamo potuto portare» (154), mentre dal canto suo Paolo, scrivendo ai fedeli di Roma, ricorda loro come non abbiano ricevuto uno spirito che rende schiavi, che li condurrebbe a un rapporto di timore nei confronti del Padre (cf. Rm 8, 15).
Dunque, sono quattro le leggi sotto cui può trovarsi l'uomo: della ragione naturale, della concupiscenza, dell'A. T. e infine la legge della carità - o della grazia - predicata da Cristo.
È chiaro che non tutti possono dedicarsi agli studi [lunghi e severi]; per questo la legge di Cristo è quanto mai breve; chiunque può con facilità ritenerla a mente e nessuno ritenersi scusato, se non l'osserva, adducendo il motivo che si tratta di una legge complessa.
Estremamente semplice, la legge divina dell'amore costituisce la norma di qualunque atto umano. Nel campo dei manufatti, giudichiamo ben riuscito quello che meglio corrisponde alle caratteristiche del relativo progetto; in maniera analoga, un'azione umana è definita retta, virtuosa, quando concorda con le regole dell'amore divino; al contrario, quella stessa azione non è classificabile come buona, retta e ordinabile alla perfezione nella misura in cui si discosta dalla suddetta norma. Le scelte umane, per esser chiamate davvero buone, devono concordare con la regola della carità.
Nell'uomo che la osserva, essa produce quattro effetti, assai desiderabili.

I. La carità [che ispira la nuova legge di Cristo] accende nell'uomo una vita spirituale. Infatti chiunque ama ha come in sé la cosa o la persona amata; e quindi se amiamo Dio, abbiamo Dio in noi stessi: «Chi sta nell'amore sta in Dio, e Dio sta in lui» (I Gv 4, 26).
L'amore ha poi la proprietà di assimilare colui che ama all'oggetto di tale amore, sicché se amiamo realtà vili e caduche finiamo col divenire noi stessi meschini e insicuri. Era quanto lamentava Osea: «[I figli d'Israele, deportati in esilio] diventarono abominevoli come l'oggetto delle loro brame» (Os 9, 10). Amando Dio invece siamo quasi divinizzati poiché «chi s'unisce al Signore, diventa un solo Spirito con lui» (I Cor 6, 17).
Sant' Agostino precisa che come l'anima dà vita al corpo, così Dio è vita [soprannaturale] per l'anima stessa. Dicendo che un corpo è vivo, intendiamo attribuire ogni suo movimento, ogni operazione, all'influsso dell'anima, tant'è vero che non appena essa si distacca dal corpo, quest'ultimo cessa qualunque attività.
Similmente, l'anima opera nel migliore dei modi allorché attua le varie virtù in forza della carità, mediante la quale Dio abita in lei. Mancando la carità, l'anima non compie nulla di [validamente] virtuoso. Anzi, «chi non ama rimane nella morte» (I Gv 3, 14).
Uno potrebbe possedere anche tutti i doni dello Spirito: ebbene, se non ha insieme la carità, costui non ha la vita divina. Questa non può esserci trasmessa dal dono delle lingue (155) né da quello della fede (156) o da qualsiasi altro carisma. Un cadavere rimane tale anche se lo si riveste d'oro e di pietre pregiate. La vita soprannaturale, dunque, è il primo risultato del rapporto affettivo tra noi e Dio.

2. Essa poi rende possibile l'osservanza dei precetti divini. Secondo che scrive san Gregorio, «l'amore di Dio non è mai ozioso»: chi lo possiede compie grandi cose, altrimenti è segno che la carità in lui è estinta. Manifesto indizio che amiamo Dio è la sollecitudine che poniamo nel fare la sua volontà. Ogni innamorato è felice di compiere cose grandi e difficili per la persona amata. Quindi, se uno ama Gesù ne osserva la dottrina (cf. Gv 14, 23). E si badi: chi adempie il precetto fondamentale della legge divina che è la carità, costui ha onorato l'intera legge. I precetti di Dio sono infatti di due specie: taluni positivi (157), ed è la carità che ce ne ispira l'osservanza dal momento che solo l'amore verso Dio può render possibile il rispetto della legge in cui si articola compiutamente il suo volere. Altri invece sono proibenti, e ancora una volta è la carità a sostenerci [nelle delicate e molteplici relazioni col nostro prossimo] (158).

3. La carità costituisce un valido presidio di fronte alle avversità: chi la possiede non resterà danneggiato ma, all'opposto, trarrà profitto dalle stesse sventure. Ce lo ricorda san Paolo: «Ogni cosa concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8, 28); anzi - a chi ama davvero - perfino le cose avverse e difficili appaiono quasi soavi, ed è un'esperienza che ognuno può far da sé (159).

4. Conduce alla felicità, essendo l'eterna beatitudine una promessa serbata per chi avrà vissuto nella pratica della carità. Tutto il resto non conta, se manca l'amore soprannaturale (160). Ormai prossimo al martirio, l'apostolo Paolo confidava di poter ricevere la corona che il Signore, giudice giusto, darà nell'ultimo giorno «a tutti quelli che avranno vissuto con amore l'attesa della sua venuta» (2 Tm 4, 8).
La beatitudine sarà concessa in grado maggiore o minore, in rapporto al grado di carità e non alla perfezione con cui poté essere praticata un'altra virtù. Tanto è vero che si potrebbero citare non poche persone che condussero una vita di maggior astinenza rispetto agli apostoli, eppure questi sorpassano chiunque altro nel grado di beatitudine avendo superato ciascuno di noi per l'ardore della carità, essi che - come Paolo scrisse ai romani - godettero per primi dei doni dello Spirito (161).
Questi i principali vantaggi che derivano dalla pratica della carità; ma ve ne sono anche altri, che è bene non trascurare.

5. Chi ottiene la remissione dei peccati. Lo sappiamo tutti che se uno ha offeso una persona ma poi comincia a volerle bene di cuore, certamente sarà perdonato. E lo stesso fa Dio verso i peccatori, appena cominciano ad amarlo. «La carità riesce a nascondere un gran numero di peccati» (I Pt 4, 8; cf. Prv 10, 12), quasi che Dio non volendo punire chi adesso lo ama, distolga lo sguardo dalle precedenti mancanze. E non ne nasconde solo «un gran numero», ma la totalità delle colpe che una persona abbia potuto commettere; e l'esempio più lampante lo vediamo nel caso della Maddalena. Di lei disse il Signore: «I suoi tanti peccati sono stati rimessi, poiché costei ha molto amato» (Lc 7, 47).
Qualcuno potrebbe pensare: «Allora, per ottenere il perdono dei miei peccati basta la carità: non c'è bisogno di ricorrere alla penitenza». E un fatto però che nessuno ama davvero, se davvero non si pente. Cioè, quanto più amiamo qualcuno, tanto più ci rattrista l'idea di averlo potuto offendere: e questo è segno di carità.

6. La carità illumina il nostro spirito. Tutti noi, secondo l'espressione di Giobbe «siamo avvolti dalle tenebre» (Gb 37, 19): assai spesso non sappiamo se sia bene ciò che vorremmo fare od ottenere, ed ecco la carità che ci insegna quanto è veramente necessario in ordine alla salvezza. Questo è il senso delle parole di Giovanni: «L'unzione dello Spirito vi farà lume, in ogni questione» (I Gv 2, 27). Dov'è lo Spirito Santo c'è anche viva la carità; ed egli, l'Onnisciente, ci condurrà per la via maestra (cf. Sal 138, 24; cf. Sal 142, 8). Raccomanda inoltre il libro del Siracide: «Voi che temete il Signore amatelo, e la luce splenderà nei vostri cuori» (Sir 2, 10).

7. Conferisce pienezza alle gioie dell'uomo. Nessuno può illudersi di conoscere la felicità se non vive nell'amore di Dio. Chi infatti desidera una cosa, non si rallegra né si dà pace finché non l'abbia acquistata, ma mentre nelle cose temporali accade che le bramiamo quando non si posseggono e poi invece cominciamo ad averle in uggia, il contrario succede coi beni dello spirito. Chi ama Dio, lo possiede: per questo l'animo di colui che lo ama e desidera amarlo ancor più trova, in questo moto dell'anima, il proprio riposo. «Chi sta nella carità sta in Dio, e Dio in lui» (I Gv 4, 16).

8. Produce, in altri termini, una pace perfetta. Come si era detto, nelle cose terrene, così spesso bramate, l'animo non trova requie per averle ottenute: avuta una cosa, subito ne vorrebbe un'altra. Il nostro cuore somiglia spesso a quel mare in tempesta di cui parla l'agiografo: «un mare che non può calmarsi, i cui Rutti rigettano schiuma e fango» (Is 57, 20). Non ci sarà pace per chi non ha Dio nel proprio cuore (cf. Is 57, 21).
Chi invece lo ama, gusta una profonda pace. «Gran pace ha chi ama la tua legge, e non teme inciampi» (Sal 118, 165). Dio soltanto basta a riempire ogni nostro desiderio, Dio che è ben più vasto del nostro cuore (cf. I Gv 3, 20). «Ci hai fatti per te, Signore - esclama Agostino -, e il nostro cuore sarà inquieto finché non si riposa in te». Egli che, leggiamo nel salmo, «sazierà di bene le tue brame» (Sal 102, 5).

9. Infine, la carità comunica all'uomo una superiore dignità. Tutte le creature, certo, rendono testimonianza alla maestà del Creatore come le opere artificiali sono soggette al loro artefice. Con questa differenza però, che la carità rende l'uomo, da servo che era, libero e amico di Dio, sulla parola del Signore: «Non vi chiamo più servi ma amici» (Gv 15, 15).
Si dirà: «Ma come, Paolo non fu servo di Cristo?». E anche gli altri apostoli si firmavano con questo appellativo. Bisogna allora sapere che si danno due generi di servitù: una è basata sul timore, penosa e non meritoria. Astenersi dal peccato soltanto per paura di doverne pagare le conseguenze non dà certo diritto a un premio, ed è comportamento servile. Diverso il caso di chi agisce bene non per timore della giustizia ma per l'amore che si porta a Dio; questo è il comportamento della persona interiormente libera. Se il Signore non ci vuol chiamare servi, ciò deriva dal fatto che siamo stati oggetto di soprannaturale adozione (162). Il timore dunque non può convivere con la carità filiale (cf. I Gv 4, 18), che ci trasforma in figli di Dio (cf. I Gv 3, 1).
Un estraneo, infatti, viene assunto al rango di figlio adottivo allorché gli venga concesso il diritto all'eredità; nel caso nostro, amando acquistiamo il privilegio di aver parte alla stessa eredità di Dio, che è l'eterna vita. Ne parla l'apostolo Paolo: «Siamo figli di Dio, quindi ne siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi con Cristo, se però soffriamo con lui, per essere con lui glorificati» (Rm 8, 16-17). E il libro della Sapienza riferisce lo stupore degli empi nel vedere glorificato e a testa alta il giusto, da essi tante volte deriso: eccolo annoverato tra i figli di Dio (cf. Sap 5, 5).
Ormai dovrebbero essere evidenti i vantaggi derivanti dalla carità, da indurci a far di tutto per acquistarla e tenercela cara.
Non è tuttavia impresa che un uomo possa condurre avanti con le sole sue forze: essa è dono esclusivo di Dio, che - come scrive san Giovanni - «per primo ci ha amati» (I Gv 4, 10). Non possiamo certo affermare che egli ci abbia amato dopo essere stato oggetto d'amore da parte nostra, dal momento che questa medesima capacità di riamarlo ci proviene da lui.
Inoltre, sebbene ogni dono di cui godiamo tragga origine dal «Padre della luce» (Gc 1,17), questo in particolare si rivela eccellente. Difatti altri doni potremmo averli pure disgiunti dalla carità e dalla presenza in noi dello Spirito, ma chi vive nella carità ha necessariamente in sé lo Spirito Santo. «L'amore di Dio – così l’Apostolo - è stato diffuso con abbondanza nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). Invece [ripeto] il dono delle lingue o delle scienze o delle profezie può aversi anche senza lo Spirito o la grazia [santificante].
Quantunque sia un dono divino, per ottenere la carità occorrono da parte nostra le debite disposizioni: più precisamente, due per acquisirla, altre due per custodirla.

I. L'ascolto diligente della divina parola, come del resto accade nell'ordine naturale delle cose: sentendo parlare bene di qualcuno, siamo portati a volergli bene anche noi. Alla stessa maniera, ascoltando la Parola ci sentiremo presi dall'amore, tanto più che si tratta di un linguaggio capace più d'ogni altro d'infiammare il cuore degli uomini (cf. Sal 118, 140; cf. Sal 104, 19). Perciò i due discepoli [sulla strada di Emmaus] si dicevano l'un l'altro: «Non sentivamo arderci il cuore, qua dentro, mentre ci parlava per la via, spiegandoci le Scritture?» (Lc 24, 32). Lo stesso effetto si rileva dagli Atti, che cioè Pietro ancora non aveva finito di parlare «e lo Spirito Santo scese sopra quelli che lo ascoltavano» (At 10, 44). E qualcosa di simile può succedere tutt'oggi durante le prediche: la gente che vi si era accostata col cuore indurito, poi si trova ad ardere d'amore verso Dio, nel contatto con la sua Parola...

2. È poi necessaria una continua riflessione, che aiuti il fuoco a divampare nell'intimo (cf. Sal 38, 4). Dunque, se desideri bruciare di amore verso Dio, medita gli innumerevoli benefici che Dio ti ha elargito (163). Mostrerebbe di possedere un animo del tutto insensibile una persona che, ripensando ai doni avuti, ai pericoli da cui fu miracolosamente scampata e, infine, alla beatitudine che Dio le promette, non si sentisse ardere di carità... Durezza d'animo dell'uomo che, pur non mettendo ostacoli all'iniziativa divina, neppure si sforza di ricambiare con la riconoscenza. Ma in generale, come i sentimenti perversi distruggono la carità, così i buoni pensieri ce la procurano, la nutrono e difendono. Dunque, «fate cessare le vostre cattive azioni dai miei occhi» (Is I, 16), raccomanda il Signore, mentre nel libro della Sapienza ci vien ricordato che «i pensieri malvagi allontanano da Dio» (Sap I, 3).

3. Ad aumentare la carità che già si possiede contribuisce il distacco del cuore dai beni terreni. Esso non può occuparsi interamente di realtà tra loro contrapposte: nessuno cioè potrà mai amare insieme e Dio e il mondo. Quindi, nella misura in cui l'anima si libera dall'attaccamento per le cose di quaggiù, tanto più si consolida nella predilezione per la vera carità. Scrive sant'Agostino che è veleno per la carità ogni prospettiva d'entrare in possesso o di starsene attaccati ai beni temporali, mentre tale virtù trae alimento dalla diminuzione della cupidigia; essa trova la suprema perfezione nella totale rimozione di ogni bramosia, poiché questa è la radice di tutti i mali.
Dunque, chi desidera nutrire la carità, si ingegni di imbrigliare le proprie voglie mondane.
Cos'altro è la cupidigia, se non il desiderio sfrenato di accumulare beni temporali? Questa tendenza comincia a esser contenuta dal timor di Dio; ma non è che l'inizio, poiché Dio va amato quanto merita. Funzione d'ogni forma di culto è di sottrarre l'animo umano alla tirannia dei beni mondani, corruttibili, per elevarlo verso le realtà divine. È un concetto, questo, ben simboleggiato nella storia dei Maccabei: «Il sole, che prima era oscurato dalle nubi, fece brillare i suoi raggi» (2 Mac I, 22). L'intelletto nostro è simile al sole nascosto dietro le nuvole, finché sta immerso nelle cose transitorie; prende a rifulgere non appena lo si sottrae e allontana dagli amori terreni. Allora splende, allora sfolgora compenetrato dall'amore di Dio!

4. Infine, ad aumentare la carità contribuisce la fortezza di fronte alle avversità. È noto a chiunque infatti che, quando accettiamo di portare il peso della tribolazione per amore di qualcuno, quel sentimento che ci ha sostenuti viene a esserne rinforzato. Le «grandi acque» di cui parla il Cantico dei Cantici - ossia le più varie tribolazioni - «non poterono spegnere l'amore, né i numi sommergerlo» (Ct 8, 7).
Per questo, i santi che sopportano le prove della vita per amore di Dio, ne escono rinvigoriti, con una carità più accesa, un po' come l'artista che predilige l'opera su cui maggiormente si è affaticato. In modo analogo, quanto più han da soffrire per mantenersi fedeli a Dio nelle angustie, di tanto i giusti si elevano nella scala della carità. Può applicarsi loro l'espressione biblica: «Le acque crebbero e sollevarono l'arca, la quale si alzò al di sopra della terra; ingrossarono e crebbero ancora... e l'arca galleggiava alla superficie. Andarono ancor più aumentando... di modo che tutte le montagne che sono sotto il cielo furono coperte... Non scampò che Noè con quelli che erano insieme a lui nell'arca» (Gn 7, 17). Ebbene, «l'arca» - si intenda la Chiesa o l'anima del giusto - rimarrà a galla sotto l'imperversare delle prove, grazie proprio alla carità.

L'amore verso Dio

Cristo, poco prima di offrirsi in sacrificio, interrogato dai dottori della legge su quale fosse il primo e principale comandamento, rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua e con tutta la tua mente: è questo il più grande, il primo dei comandamenti» (Mt 22, 37).
E davvero questo è il massimo, più nobile e utile tra tutti, come facilmente si rileva da quanto premesso. Dalla sua osservanza risulteranno adempiuti anche gli altri precetti.
Ma affinché l'adempimento della prima norma possa dirsi perfetto, devono concorrere quattro elementi.

I. Innanzitutto vanno tenuti nella debita considerazione i divini benefici, dato che ogni cosa - l'anima, il corpo, i beni esteriori - l'abbiamo ricevuta da Dio. Quindi è giusto che usiamo di questi doni per il suo servizio, riamandolo di cuore. Troppo ingrato sarebbe l'uomo che, cosciente d'essere stato beneficato, non ama il benefattore. «Tutto da te proviene, e noi altro non facciamo che restituire ciò che ricevemmo dalle tue mani», così Davide ringrazia Dio, nel libro delle Cronache (I Cr 29, -14). Un modello di riconoscenza lo trovi anche nelle parole del Siracide: «[Davide] di tutto cuore lodò il Signore, e amò il Dio che l'aveva creato» (Sir 47, 8).

2. Altro requisito per una autentica osservanza [del precetto d'amare Dio] è la considerazione della sua - assoluta superiorità: egli è infinitamente più vasto del nostro spirito (cf. I Gv 3, 20); per cui anche quando l'avremo servito con il massimo impegno, non avremo saldato ancora il debito per intero. Ci raccomanda la Scrittura: «Esaltate il Signore quanto più potete, perché sarà sempre al di sopra della vostra lode. Nell'esaltarlo raddoppiate il vostro slancio, e non vi stancate, poiché mai giungerete a dargli una lode che sia degna di lui» (Sir 43, 32-33).

3. Bisogna poi rinunziare [alla priorità data] ai beni terreni, poiché reca non piccola ingiuria a Dio chiunque lo abbassi al livello di una cosa creata. Preso dallo sgomento, chiedeva il profeta: «A chi lo avete paragonato, Dio?» (Is 40, 18). Eppure è proprio quel che tentiamo di fare ogni volta che vorremmo amare, a un tempo, e Dio e le cose temporali, corruttibili; ma è pretesa assurda, a proposito della quale si può ripetere: «Il letto è così angusto che uno dei due dovrà cadere, e la coperta corta non può bastare a coprire l'uno e l'altro» (Is 28, 20). E il cuore umano che qui è paragonato a quel giaciglio troppo stretto e a quella coltre eccessivamente piccola; e lo è veramente. Quando nel tuo cuore alloggi qualcos'altro al posto di Dio, è lui che ne scacci. Egli non tollera di trovare nell'anima qualcosa o qualcuno a fargli concorrenza; somiglia in ciò a uno sposo che non ammette altri amanti accanto alla propria donna. Dice in proposito egli stesso: «Io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso» (Es 20, 5).

4. Infine, per un amore perfetto, è necessaria la fuga totale dal peccato. Nessuno, infatti, che si trovi in colpa grave, può amare Dio nel contempo. «Non riuscirete a servire a Dio e insieme le [inique] ricchezze» (Mt 6, 24); e se siete caduti in peccato non potete affermare d'aver amato Dio [col massimo impegno].
Isaia, che lo amava, poteva ripetere: «Ricordati, Signore, te ne prego, che ho camminato fedelmente davanti a te, con cuore sincero, compiendo ciò che è gradito ai tuoi occhi» (Is 38, 3). Elia [al popolo sviato si dietro a Baal] poteva chiedere: «E fino a quando barcollerete da entrambi i lati?» (I Re 18, 21). Simile allo sciancato, che oscilla ora da una parte ora dall'altra, così il peccatore si abbandona al peccato e subito appresso vorrebbe credere d'esser fedele a Dio. Dice bene il Signore, nel libro di Gioele: «Ritornate a me con tutta l'anima» (Gl 2, 12).
Vanno contro il precetto [dell'amore verso Dio] due categorie di uomini. Coloro che mentre evitano un genere di peccati - mettiamo, la lussuria - ne compiono altri di diversa specie, come l'usura. Sono riprovevoli, poiché «chi avrà mancato su un solo punto, contesta il valore legale dei rimanenti» (Gc 2, 10) (164).
Poi vi sono quelli che manifestano i propri peccati soltanto in parte, oppure un po' a un confessore e un po' a un altro. Neanche questi sono da lodare, anzi peccano così facendo, dal momento che vorrebbero ingannare Dio e mostrano poca riverenza nei confronti di cosa tanto sacra. Qualcuno ha scritto in proposito: «E’ quasi un sacrilegio sperare da Dio un perdono a metà», ed è sempre valido l'invito: «Davanti a lui effondi il tuo cuore» (Sal 51, 9), ossia rivelati per intero nella confessione, senza riserve.
Abbiamo mostrato finora come l'uomo debba darsi a Dio integralmente. Vediamo adesso che. cosa donargli [in particolare]. Il cuore, l'animo, la mente e le energie [fisiche]. Questo chiede il Signore: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente e con tutte le tue forze» (Mt 12, 37).
Per cuore si intendono qui, le intenzioni. Il loro influsso è tale da riguardare qualunque azione; sicché, ogni bene che venga compiuto con intenti non retti, diventa cattivo: «Se il tuo occhio (e qui sta per intenzione, sguardo interiore) sarà semplice, ne risulterà illuminato tutto il corpo; se poi sarà perverso, tutta la persona risulterà ottenebrata» (Lc 11, 34): l'insieme delle opere finiranno con l'essere intorbidite.
Perciò, qualunque cosa facciamo, la nostra intenzione deve essere rivolta al Signore: «Sia che mangiate, sia che beviate, fatelo per amore di Dio» (I Cor 10, 31).
Tuttavia la retta intenzione non è sufficiente, dato che deve attuarsi con probità; è quello che qui indichiamo con il termine di anima. Spesso, infatti, accade che uno faccia progetti [in se stessi] rispettabili ma non per questo opportuni, mancando in essi l'onestà dei mezzi. Metti il caso di uno che rubasse col proposito di sfamare i poveri: l'intento è lodevole, mentre è immorale l'azione [con cui si vuole raggiungere lo scopo], non potendosi giustificare alcun fine, per quanto buono, che debba realizzarsi facendo ricorso a espedienti immorali. San Paolo ci invita a non imitare coloro che pensano: «Facciamo [anche] il male, purché ne venga del bene» (Rom 3, 8). E giusta, conclude l'Apostolo, una loro condanna.
Il buon volere è accompagnato dalla retta intenzione quando concorda con la divina volontà, ed è ciò che chiediamo ogni giorno: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra» (Mt 6, 10). Così, in un salmo si legge: «Di me sta scritto nel rotolo [della Scrittura] ch'io faccia la tua volontà. O mio Dio, è questo che io voglio, e la tua legge l'ho come incisa nel cuore» (Sal 39, 19).
Ecco, dunque, il senso di quel «con tutta la tua anima», giacché nella Scrittura l'anima è indicata col termine «volontà»; vedi ad es.: «[Il giusto] vivrà di fede; se tornasse indietro, egli non piacerebbe all'anima mia» (Eb 10, 8).
Talvolta, ancora, c'è la retta intenzione e il buon volere, eppure nell'intelligenza può annidarsi qualcosa di peccaminoso. L'intelletto quindi va sottomesso interamente a Dio, «facendo schiavo ogni pensiero, riducendolo all'ubbidienza di Cristo», secondo che scrive san Paolo (2 Cor 10, 5).
Molti, infatti, non peccano esteriormente, e tuttavia si pascono di continuo d'oggetti malsani. Contro costoro ha parlato Isaia: «Dalla vostra mente eliminate i pensieri perversi» (Is I, 16).
Vi sono altri che, confidando troppo in una propria filosofia, ricusano d'assentire alla fede; la mente di tali persone non accetta di assoggettarsi a Dio; quindi sono rivolte loro le parole dei Proverbi: «Non basarti sulla tua saggezza» (Prv 3, 5).
E d'altronde neanche questa [ulteriore offerta d'una parte del nostro essere] può bastare, poiché occorre dedicare al Signore tutte le rimanenti energie. Dobbiamo dire: «Voglio riporre in te la mia forza» (Sal 58, 10), diversamente da quelli che usano del proprio vigore per peccare, e lo ritengono una manifestazione di potenza; li ammonisce il profeta: «Guai a quelli che son bravi nel mescere il vino e valenti nel versare liquori che inebriano» (Is 5, 22).
C'è pure chi ostenta bravura e forza nel far del male al prossimo, mentre ciò dovrebbe servire per portare soccorso. «Libera l'innocente che è condotto a morte; salvalo dal rischio d'essere ucciso» (Prv 24, 11).
È dunque evidente che la vera carità verso Dio esige l'offerta delle intenzioni, della volontà, della mente e delle proprie forze.

L'amore verso il prossimo

Alla domanda su quale dei precetti fosse il più importante, Gesù diede due risposte: «Amerai il Signore, tuo Dio» (e di ciò abbiamo parlato finora) e: «[Amerai] il prossimo tuo, come [ami] te stesso». Chi li osserva entrambi, costui si dimostra osservante dell'intera legge, sulla linea di san Paolo che afferma: «Tutti i comandamenti si compendiano in queste parole: 'Amerai il prossimo tuo, come te stesso'. L'amore non fa del male al prossimo. Il compimento della legge è dunque l'amore» (Rm 13, 9b-10).
Quattro cose possono condurci ad amare il prossimo.

I. L'amore che portiamo a Dio, innanzitutto. Se uno infatti dicesse di amare Dio mentre odia il proprio fratello, costui «è un bugiardo» (I Gv 4, 20) alla stregua di chi, dopo aver affermato di voler bene a una data persona, non avesse riguardo verso il figlio o il corpo di essa. E noi, credenti nel medesimo Dio, siamo suoi figli [adottivi] e membra del corpo [mistico] del Cristo. «Voi siete il corpo del Cristo insegna l'Apostolo -, e sue membra, ciascuno con una sua funzione» (I Cor 12, 27). Ne segue che chi è sdegnato col prossimo, non può dire di far cosa gradita a Dio.

2. L'espresso desiderio del Signore. Cristo, infatti, in vista del suo ritorno al cielo, raccomandò ai discepoli, tra tutti i precetti evangelici, quello dell'amore. Giovanni ne è testimone: «Questo è il comandamento che più mi sta a cuore: che vi amiate scambievolmente, come io ho amato voi» (Gv 15, 12). Chiunque odia un altro, non fa quanto Dio desidera, mentre l'amore [nei confronti di chiunque] è la controprova d'una reale osservanza della legge divina. Giovanni riferisce in proposito il pensiero di Gesù: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri» (Gv 13, 35). Non dice: «Vi crederanno miei imitatori quando richiamerete in vita qualche morto, oppure quando compirete altri grandiosi prodigi»; no, la dimostrazione più evidente sarà solo questa: «Se cercherete di trattarvi con amore scambievole». Meditando su queste parole del Signore, Giovanni scriveva nella sua prima lettera: «Sappiamo che siam passati dalla morte alla vita». E il motivo? «Perché amiamo i nostri fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello, è un omicida» (1 Gv 3, 14).

3. Ci sospinge ad amarci, inoltre, la comunanza nella stessa natura, in base alla quale gli uomini, come del resto gli altri esseri viventi (cf. Sir 13, 19), devono beneficarsi vicendevolmente. L'odio, di conseguenza, non soltanto va contro la volontà di Dio ma anche contro la legge naturale.

4. E infine, l'utilità che ne deriva, poiché in forza della carità i beni dell'uno diventano utili a un altro; ed è sempre la carità che unisce i cristiani facendone una Chiesa, nella più ampia comunione di tutto ciò che è buono. Più del salmista, noi possiamo ripetere: «Sono il compagno di tutti quelli che ti temono, [Signore], e osservano i tuoi voleri» (Sal 118, 63).
«Amerai il prossimo tuo come te stesso». Questo, dell'amore del prossimo, è il secondo precetto della legge di Dio. Fin qui si è visto quanto debba estendersi questo amore; resta adesso da vedere la maniera in cui conviene esprimerlo: e già vi accenna quel «come te stesso».
Possiamo fare al riguardo ulteriori considerazioni.
Ameremo davvero il prossimo come amiamo noi stessi, allorché potremo dire di volere il suo bene, e non il nostro [a sue spese]. Vi sono tre specie di amore, delle quali le prime due solo apparenti. Una si ha quando amiamo in vista di un guadagno. «Vi è l'amico che ti è compagno a mensa, ma non lo trovi più nei giorni della sventura» (Sir 6, 10). Non c'è dubbio che in questo caso non possiamo parlare neppur lontanamente di amore. Un semplice rapporto che [essendo basato sul tornaconto] cessa non appena venga meno il proprio utile. Allora è evidente che non stavamo volendo bene al prossimo, ma piuttosto a noi stessi.
Altra forma di amore apparente: quello che si regge sul piacere, ed è falso quanto il precedente dato che cessa di esistere appena l'amico non ci dà più gusto. Di nuovo, non era il bene la ragione principale dei nostri rapporti, bensì la mia incontentabile avidità.
C'è però una terza forma di amore, fondata sopra un nobile motivo, e solo quest'ultima merita il nome di amore. Amiamo in tal caso il prossimo non in funzione nostra ma del suo stesso bene.
L'amore poi deve essere ben ordinato, sì da non farci amare nessuna creatura al di sopra di Dio o alla pari con lui: il prossimo va amato in conformità col divino volere, come del resto dobbiamo amare noi medesimi. Di questa subordinazione il Signore fa cenno esplicito nel vangelo secondo Matteo: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me; e chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me» (Mt 10, 37).
Infine, il bene che vogliamo al nostro prossimo deve essere concretamente efficace. Tu non ti ami soltanto a parole: ti dai da fare per procurarti molte cose buone, e i fastidi li fuggi con altrettanta sollecitudine. Bene, devi comportarti così anche verso il tuo prossimo. «Non amiamo solo con la lingua, a parole, ma coi fatti e nella sincerità» (1 Gv 3, 18). Certo, ancora peggio fanno quelli che, cordiali all'apparenza, gli sono nemici nell'intimo, simili a coloro di cui parla il salmista: «Parlano di pace col prossimo, mentre covano malvagità in cuore» (Sal 27, 3). La vera carità non ammette finzioni (cf. Rm 12, 9).
E bisogna essere perseveranti nell'amare gli altri, come non ci stanchiamo [troppo facilmente] di noi stessi. Ci ricorda la Scrittura che «l'amico ama in ogni tempo»: tanto nel momento delle avversità quanto in quello della prosperità; anzi è proprio nel sopraggiungere delle prime che egli si rivela: «nelle angustie potrai verificare la sua fraternità» (Prv 17, 17).
Per serbare a lungo un'amicizia sarà bene tenere a mente due utili norme. Pazienza prima di tutto; infatti «carbone sulla brace e legna sul fuoco, tale è il litigante nell'eccitare la rissa» (Prv 26, 21). Quindi umiltà, che fa essere pazienti. L'orgoglioso invece non fa che suscitare litigi (cf. Prv 13, 10); col suo credersi al di sopra di tutti e guardare gli altri dall'alto in basso, non può sopportare i difetti.
Il prossimo va amato conforme alle esigenze della giustizia e della santità, ossia eliminando ogni secondo fine peccaminoso: tu stesso non potresti amarti sino a perdere - offendendolo - l'amicizia con Dio. Il Signore ci invita a restare suoi amici (cf. Gv 15, 9), nella più tenera affettuosità (cf. Sir 24, 24).
«Amerai il prossimo tuo come te stesso». Un concetto, questo, che giudei e farisei non riuscivano a intendere rettamente, pensando che Dio comandasse, con l'amore verso gli amici, l'odio del nemico. Sicché per loro era «prossimo» soltanto l'amico. Appunto tale errata interpretazione volle disapprovare Cristo, dicendo: «Amate [anche] i vostri nemici, fate del bene [anche] a chi vi odia» (Mt 5, 44).
Bisogna sapere che chiunque nutre dell'odio verso un suo fratello, non contribuisce in tal modo alla propria salvezza: «chi pensa d'essere nella luce e odia il fratello, è ancora nelle tenebre» (I Gv 2, 11).
Può costituire difficoltà il fatto che talvolta i santi dichiararono la loro avversione per qualcuno. Ma il salmista parla di «un odio estremo» che egli nutre verso i nemici del suo Signore, violenti o bestemmiatori (Sal 138, 22). E Gesù medesimo afferma di non considerare suo discepolo chi non sia disposto a preferire lui a chiunque altro (cf. Lc 14, 26).
In questa, come in qualunque situazione umana, il comportamento del Cristo assume per noi valore di esempio. Egli ama nell'uomo ciò che è radicalmente buono, ossia la natura nostra, mentre detesta ciò che moralmente è riprovevole, le scelte non bene ordinate. Quindi se ci augurassimo che qualcuno finisca all'inferno, certo avremmo in odio la sua natura; al contrario, se c'è una cosa da odiare, questa è il peccato, e nutrire simile ripugnanza equivale ad amare il prossimo. Anche il Signore detesta la cattiva condotta dei malfattori (cf. Sal 5, 7); non aborrisce nulla di quanto ha creato (cf. Sap 11, 25), nulla tranne il peccato.
Può succedere che taluno possa far del male ad altri senza che ciò costituisca una colpa: allorché compie qualcosa di non gradito al prossimo ma per il bene del medesimo. Dio fa altrettanto. Si dà il caso di persone sviate che, colpite dalla malattia, ritrovano il giusto sentiero; oppure il caso del malvagio che cambia vita passando dalla prosperità alla sventura. Non di rado infatti il dolore fa ritrovare il senno (cf. Is 28, 19).
Altro caso: non pecchi se, animato dall'amore per la Chiesa, desideri la caduta del persecutore: prima ti deve stare a cuore il bene della Chiesa che non la vita di un tiranno. «In ogni cosa sia benedetto il nostro Dio - dissero i Maccabei -, che ha consegnato [alla morte] gli empi» (2 Mac I, 17).
Questa avversione al male ciascuno di noi deve non solo auspicarla, ma alimentarla concretamente. Ne è peccato l'esecuzione capitale di un malfattore, dopo un equo processo (165); i giudici, secondo l'espressione di Paolo, sono in tal caso «esecutori del potere di Dio» (166), e non agiscono contro la carità dato che la condanna ha valore di castigo, oppure serve a qualche finalità superiore. Vale infatti di più il bene di un'intera città [liberata dall'iniquo dominatore ], che l'esistenza fisica di costui.
Non basta d'altra parte astenersi dall'odiare il prossimo, avendo noi l'obbligo di desiderare il suo vero bene, cioè che si converta e possa conseguire anch'egli la vita eterna.
Due sono i modi: possiamo amare qualcuno in senso generico, in quanto è creatura di Dio e potenziale candidato alla vita eterna; più in particolare, possiamo amarlo se è nostro amico e nostro compagno di fede.
Da un amore di fondo non possiamo escludere alcuna persona: bisogna pregare per tutti ed esser pronti a beneficiare chiunque si trovasse in estrema necessità. Non esiste invece un obbligo di trattare familiarmente anche chi ti avesse maltrattato, a meno che non abbia chiesto di perdonargli, ché in tal caso egli rientra nella cerchia degli amici. Se tu ti rifiutassi, saresti uno che respinge chi ti vuol essere [di nuovo] amico.
Nel Vangelo puoi leggere che «se perdonate agli uomini i loro falli, il Vostro Padre celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà i vostri peccati» (Mt 6, 14-15); e, nella preghiera dettata dal Signore: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 9).
«Amerai il prossimo tuo come te stesso». Abbiamo detto che, non concedendo venia a chi te la chiede, sei tu che pecchi, e sai pure che una carità alla ricerca della perfezione ti spingerà a trovar la maniera di riavvicinare l'offensore, benché tu non ne abbia il dovere. Per indurti a fare questo passo, considera quante ragioni ne indicano la convenienza.

I. La tutela della propria dignità. A ciascun grado di nobiltà corrisponde una particolare insegna, e nessuno deve rinunciarvi. La maggiore di tutte le dignità umane è quella d'essere figli di Dio. Il blasone che ci distingue è precisamente l'amore esteso anche all'avversario. «Amate i vostri nemici... affinché siate figli del Padre vostro che sta nei cieli» (Mt 5, 44-45). Restringere l'affetto unicamente all'amico non può essere la prova decisiva a favore della filiazione divina, tant'è vero che anche i pubblicani e i pagani sanno farlo (cf. Mt 5, 46).
2. Il desiderio di vincere, che è qualcosa di connaturato in ciascuno di noi. O tu conquisti alla causa dell'amore, mediante la bontà, la persona che ti ha offeso (e allora sei tu a superarlo); oppure è l'altro che riesce a coinvolgerti sul sentiero dell'odio, e tu perdi la battaglia [assieme a lui]. Tu dunque «non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene» (Rm 12, 21).

3. I vantaggi che ne derivano, come il farsi degli amici. Ricordandoci che la vendetta spetta al giudice divino, l'apostolo Paolo raccomanda: «Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare, se ha sete dagli da bere, poiché così facendo radunerai carboni ardenti sopra la sua testa» (167). Sant'Agostino prosegue: «Nessun invito più efficace all'amore, che cominciare noi per primi a mostrare benevolenza. Nessuno sarà così insensibile, per quanto deciso a non prender l'iniziativa di far la pace, da respingere il buon esempio». Un amico che resta fedele anche se messo a dura prova, si mostrerà impareggiabile (cf. Sir 6, 15); e quando il Signore ha gradito la condotta di un uomo, gli riconcilierà perfino i nemici (cf. Prv 16, 7).

4. Le tue preghiere troveranno più facilmente ascolto. Perciò, commentando il passo di Geremia: «Se si presentassero a me Mosè e Samuele, ecc.» (Ger 15, 1) san Gregorio fa notare che questi due personaggi son ricordati in particolare perché essi intercedettero per i propri nemici (168). Anche Cristo lo fece, dicendo: «Padre, perdona loro» (Lc 23, 34), e così pregando, Stefano procurò alla Chiesa un vantaggio straordinario: la conversione di Paolo.

5. Più facile risulterà la fuga dal peccato, il che deve starci parecchio a cuore. Talvolta infatti pecchiamo, e ci scordiamo di Dio; allora egli ci attrae a sé daccapo servendosi di una infermità o di espedienti consimili. Pur di sospingerci sul retto sentiero, egli chiuderà coi rovi della sofferenza ogni altro varco di cui parla Osea (cf. Os 2, 6). Così Saulo divenne prigioniero del Cristo, e l'autore di un salmo si fa portavoce del peccatore pentito: «Sono andato errando qual pecora smarrita: vieni in cerca del tuo servo, o Signore» (Sal 118, 176), o, la sposa nel Cantico: «Prendimi con te: corriamo!» (Ct 1, 3).
Ebbene, otterremo [più agevolmente] questo risultato allorché, facendo il primo passo verso la riconciliazione, apriamo le braccia verso chi si era reso nostro nemico. «Sarà usata per voi la stessa misura di cui vi sarete serviti» (Lc 6, 38), e poco avanti: «Perdonate e sarete perdonati» (Lc 6, 37), mentre Matteo ci annunzia la beatitudine della misericordia: «Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia» (Mt 5, 7).
Non vi è misericordia superiore a quella di offrire il perdono a chi ci abbia offeso.

1. «Non avrai altri dèi oltre a me» (Esodo 20, 3)

S'è veduto che tutta la legge di Cristo è basata sulla carità, e questa a sua volta si esprime compiutamente nei due precetti dell'amore, verso Dio e verso il prossimo.
Consegnando a Mosè il decalogo, Dio gli presentò due tavole di pietra, sulla prima delle quali erano incisi i tre precetti relativi all'amore verso Dio, sulla seconda i rimanenti sette, relativi all'amore verso il prossimo. L'intera legge, dunque, veniva riassunta nei due obblighi fondamentali [della carità].
«Non avrai altri dèi».
Per comprendere il perché di questo primo comandamento bisogna sapere che gli antichi violavano in vari modi tale diritto [esclusivo del vero Dio].
Vi era chi rendeva un culto ai demoni. «Gli dèi pagani sono spiriti malvagi» (Sal 95, 5), perciò questo è il peggiore e più orribile dei peccati.
Ancora oggi sono in molti a trasgredire il primo comandamento, ossia tutti coloro che si dedicano alle opere della magia per indovinare il futuro, e ai sortilegi. Entrambe presuppongono, come osserva sant'Agostino, un patto d'intesa col demonio. Anche Paolo raccomandava: «Non voglio che voi siate in comunione coi demoni» (I Cor 10, 20); e, ancora: «non potete partecipare alla mensa del Signore e a quella degli spiriti maligni» (I Cor 10, 21).
Altri adoravano i corpi celesti, considerando gli astri quasi altrettanti dèi. Vedi, nel libro della Sapienza: «Credettero dèi, governatori del mondo, il fuoco o il vento o l'aria veloce, o il firmamento stellato, o le acque violente o i luminari del cielo» (Sap 13, 2). Fu per questo motivo che Mosè raccomandò agli israeliti di non starsene troppo a osservare il firmamento, nel timore che finissero con l'adorare il sole, la luna e le stelle. Ecco il testo: «Quando tu alzerai gli occhi al cielo e vedrai lassù il sole, la luna e le stelle e tutti gli astri del firmamento, non ti lasciar sedurre al punto di prostrarti davanti a tali creature per adorarle» (Dt 4, 19). Ribadisce lo stesso concetto anche in altro passo del Deuteronomio (cf. Dt 5, 7-8).
Contro il primo comandamento peccano gli astrologi, i quali sostengono che gli uomini siano guidati dai corpi celesti (169), mentre in realtà si tratta semplicemente di creature destinate a servire. Soltanto Dio è il nostro signore.
Non son mancati neppure adoratori degli elementi terrestri, gente che credette il fuoco, il vento o l'aria manifestazioni degli spiriti invisibili (cf. Sap 13, 2). E cadono in un errore consimile quanti usano dei beni inferiori, nutrendo per i medesimi eccessivo attaccamento. L'avaro ad esempio è un idolatra (cf. Ef 5, 5).
Altri hanno adorato gli uccelli, oppure gente come loro o magari se stessi, mossi da diversi motivi: un affetto carnale, l'adulazione, là vana ostentazione di sé.
Leggiamo, quanto ai primi, nella Scrittura, che «un padre grandemente afflitto per l'immatura morte del figlio, ne fece riprodurre l'immagine, poi l'onorò come Dio mentre non era che un morto, istituendo per i suoi un culto con proprie cerimonie. L'empia abitudine si diffuse in seguito e s'osservò come legge» (Sap 14, 15).
Servi adulatori han reso un culto ad altri uomini, venerandoli più che Dio stesso e non solo in loro presenza ma dinanzi a immagini che li riproducevano (cf. Sap 14, 17). Il Signore ha avvertito: «Colui che ama il padre o la madre più di me, non è degno di me» (Mt 10, 37), e il salmo 145 ci ammonisce: «Non riponete fiducia nei potenti, uomini [come voi] incapaci di provvedere alla vostra salvezza» (Sal 145, 2-3).
Infine, spinti dalla presunzione certuni si fecero chiamare «dèi», come si può vedere nel caso di Nabucodonosor» (170). E in Ezechiele leggiamo, d'uno di essi: «Il tuo cuore si è inorgoglito e tu hai detto: 'Io sono un dio, e abito nella dimora di un dio, nel cuore del mare'» (Ez 28, 2). E qualcosa del genere fanno quelli che si attengono più alle proprie idee personali che ai divini precetti. Praticano verso se stessi un'autentica religione: nella continua ricerca di piaceri carnali, mostrano di adorare come un dio il proprio corpo. È di essi che l'Apostolo ha scritto: «Il ventre, per loro, è la divinità» (Fil 3, 19).
Da tutto ciò e da costoro dobbiamo tenerci lontani.
«Oltre a me». Dobbiamo adorare esclusivamente l'unico vero Dio. Ed eccone le ragioni.

I. La dignità di Dio. Anche nei suoi confronti, così come succede tra noi, negandogli l'ossequio dovuto gli si fa ingiuria. Chiunque occupi un rango elevato ha diritto a un particolare rispetto, tanto che verrebbe considerato traditore del re quell'uomo che gli rifiutasse un atto di riverenza.
Ebbene, vi sono taluni che si comportano così di fronte a Dio [negandogli l'adorazione]. «Hanno sostituito la gloria di Dio incorruttibile, con immagini di uomini mortali» (Rm I, 23), il che spiace a lui, sommamente, avendo proclamato per bocca di Isaia: «Io sono il Signore; questo è il mio nome: non darò la mia gloria a nessun altro, né agli idoli l'onore che è dovuto a me» (Is 42, 8).
Uno dei punti su cui si fonda la dignità divina deriva dalla sua onniveggenza; lo stesso suo nome sembra trarre origine dal verbo «vedere», dal vedere tutto e tutti, prerogativa della deità. Il profeta poteva perciò sfidare i falsi dèi: «Annunziate ciò che accadrà in avvenire, e noi riconosceremo che siete dèi» (Is 41, 23). «Nessuna cosa al mondo sfugge allo sguardo di Dio, ma tutto è chiaro e svelato agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto» (Eb 4, 13).
Attentano a simile capacità che loro non compete gli indovini; contro i quali dice Isaia: «Vi pare serio che un popolo debba consultare qualcun altro che non sia il proprio Dio, e per i vivi interpellare i morti?» (Is 8, 19).

2. Un ulteriore motivo di ossequio ce lo offre la generosità del Signore. Da Dio ci proviene ogni bene. Egli è il munifico creatore. «Tu allarghi la mano, e tutti sono provvisti di beni» (Sal. 3, 28). Anche questa dote [universale] pare sia contenuta nel nome «Dio»: il donatore per eccellenza, colui che riempie di bontà il creato.
Daresti a vedere di esser parecchio ingrato, se non ammetti che tutti i beni ti provengono da lui; anzi finiresti per inventarti un altro dio, come quegli israeliti che, rientrati dall'Egitto, si costruirono un idolo. Andiamo dietro all'oggetto del nostro cuore (cf. Os 2, 5), imitando i figli di Israele, ogni volta che riponiamo la speranza non in Dio ma in qualcun altro. Invece «beato è l’uomo che fa assegnamento su Dio» (Sal 39, 5), e l'apostolo Paolo interrogava in proposito i cristiani della Galizia: «Ora che avete conosciuto Dio anzi, che siete stati amati e conosciuti da lui -, come mai vi rivolgete di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, dei quali volete ancora essere schiavi?» (Gal 4, 9-10).

3. La fedeltà alle promesse fatte. Noi abbiamo rinunziato al diavolo, promettendo d'impegnarci solo dalla parte di Dio, e non dobbiamo mancare di parola. Assai grave è il rischio che si incorre, secondo che ricorda l'Apostolo: «Se uno viola la legge di Mosè, in base alla deposizione di due o tre testimoni morrà senza alcuno scampo; quanto più acerbi supplizi pensate voi che si meriti chi avrà calpestato il Figliolo di Dio, e avrà tenuto come profano il sangue del testamento grazie al quale fu santificato, e avrà fatto oltraggio allo Spirito?» (Eb 10, 28-29). E aggiunge che «una donna sarà chiamata adultera se, vivendo ancora il marito, essa diventa la donna d'un altro» (Rm 7, 3) e secondo la legge mosaica costei avrebbe meritato d'essere mandata al rogo. Perciò, stia attento il peccatore che crede di poter battere due strade, che zoppica da entrambi i lati (cf. I Re 18, 21).

4. L'inclemenza del dominio diabolico, adombrata nelle parole di Geremia: «Servirete giorno e notte ad altri dèi, che non vi daranno requie» (Ger 16, 13). Il tentatore infatti non si contenta di far cadere una sola volta ma, piuttosto, si ingegna di moltiplicare le cadute. «Chi fa il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34), e san Gregorio commenta: «L'errore che non vien cancellato dalla penitenza, presto ne trascina altri con sé».
La sottomissione al Signore è ben diversa. I suoi precetti non risultano opprimenti: «Il mio giogo è soave, [dice il Signore] e leggero il mio peso» (Mt 11, 30). Può considerarsi abbastanza soddisfatto l'uomo che prende a dedicarsi al servizio di Dio con l'assiduità che poneva nel peccare.
Ai cristiani, Paolo rivolge questo appello: «Come un tempo avete messo le vostre membra a servizio dell'impurità e dell'iniquità per soddisfare le concupiscenze, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia, per raggiungere la santità» (Rm 6, 19.).
I servi del diavolo diranno invece: «Ci siamo allontanati dalla via della verità... Ci stancammo, percorrendo le vie dell'iniquità e della rovina, e attraversammo deserti impraticabili» (Sap 5, 7). Davvero, conclude Geremia, «si consumarono in una vita iniqua» (Ger 9, 5).

5. L'immensità del premio. Da nessun altro vengono promesse ricompense sublimi come quelle derivanti dalla osservanza della legge di Cristo. Ai musulmani si dice sian riservati fiumi di latte e di miele, ai giudei una terra promessa, ma ai cristiani la stessa gloria degli angeli. «[Gli eletti] saranno in cielo simili agli angeli di Dio» (Mt 22, 30). Tenendo presente questa prospettiva, Pietro poté esclamare; «Signore, da chi potremmo andare? Tu hai parole di vita eterna!» (Gv 6, 69).

2. «Non nominare il nome del Signore tuo Dio invano» (Esodo 20,7)

Come non esiste che un unico Dio da adorare, così ve n'è uno soltanto al quale dobbiamo il massimo rispetto. Il suo nome va pronunziato con deferenza, mai vanamente. Ora, il termine vano può avere tre significati.
Equivale in certi casi a falso; vedi ad es. il salmo 11: «Ciascuno ha detto al suo prossimo cose che nascondevano inganni» (Sal 11, 3). Stai usando sconsideratamente il nome del Signore allorché vorresti servirtene per rendere credibile un discorso fatto di bugie. «Non giurare il falso, poiché io odio tutto questo, dice il Signore» (Zc 8, 17). E, ancora nel medesimo profeta: «Tu morrai perché hai preferito menzogne nel nome del Signore» (Zc 13, 3).
L'uomo insincero offende Dio, fa danno a sé medesimo e agli altri.
Se infatti il giurare per Iddio è un chiamarlo a testimone, quando tu giuri a giustificazione della falsità, o credi che egli non conosca come stiano effettivamente le cose (e allora tu non lo consideri onnisciente mentre tutto è aperto e chiaro dinanzi al suo sguardo (cf. Eb 4, 13); oppure supponi che egli possa sopportare la menzogna, proprio lui che l'ha in abominio e punisce i bugiardi (cf. Sal 5, 7); o infine ti ritieni al sicuro dalla sua collera, quasi che non ti possa punire come meriti.
Usando invano il nome di Dio l'uomo si fa del male, condannandosi a subire il giudizio divino. Dire: «Ti assicuro, per Iddio, che è come sostengo io!» altro non equivale che a: «Se sto mentendo, Dio farà bene a punirmi»!
E arreca danno agli altri. Non è possibile infatti che sussista tra le persone un rapporto durevole, se non su una base di reciproca fiducia. Ma è appunto in caso di sospetto che si ricorre al giuramento (cf. Eb 6, 16), sicché ne deriva in sostanza un'offesa a Dio, un castigo di più per noi stessi e scapito per una serena convivenza.
Vano, in altro senso, sta per inutile. «Il Signore conosce i pensieri degli uomini, e sa che sono inconcludenti» (Sal 93, 11). Quindi, se adoperiamo il suo nome a conferma di cose frivole, lo nominiamo invano.
Affinché gli uomini non giurassero il falso, ciò fu proibito nell'antica legge. Ad esempio: «Non pronunziare invano il nome del Signore, Iddio tuo, poiché il Signore non riterrà innocente chi avrà proferito il suo nome, senza ragione» (Dt 5, 11). Cristo, invece, dispone che non si giuri affatto: «Sapete che fu detto agli antichi: 'Non spergiurare'. Io però vi dico di non giurare mai, né per il cielo, perché è trono di Dio; né per la terra, ché è sgabello dei suoi piedi» (Mt 5, 33-34). E la ragione è semplice: nell'uomo non c'è parte che sia corriva a malfare quanto la lingua: nessuno, come ha scritto Giacomo, potrà domarla perfettamente (cf. Gc 3, 8); e potremmo esser portati con facilità a giurare solennemente [senza motivo proporzionato]. «Il vostro parlare sia: sì, sì; no, no» (Mt 5, 37).
Rettamente inteso, il giuramento va usato come le medicine: farvi ricorso quale rimedio davvero inevitabile. «Quel che v'è di più [nei vostri discorsi), è ispirato dal Maligno» (Mt 5, 37). «Non avvezzare la tua bocca al giuramento, né prender l'abitudine di pronunziare il nome santo... Chi giura e nomina continuamente Dio, non rimarrà immune da colpa» (Sir 23, 9).
Il peccato [in genere] o l'ingiustizia vengono talvolta indicati col nome vano. «Figli degli uomini, perché avete duro il cuore e amate la vanità?» (Sal 4, 3). Così, una persona che giurasse per compiere più agevolmente qualcosa di illecito, usa invano quel nome sacro.
Due sono le parti della giustizia: fare il bene, astenersi dal male. Così, se tu hai giurato di compiere un furto o qualcosa del genere, hai già violato la giustizia, e sebbene un simile giuramento non sia vincolante, tu sei spergiuro. Fu il caso di Erode nei confronti di Giovanni Battista (cf. Mc 6, 23, 26).
Ugualmente va contro la virtù della giustizia chi con giuramento si impegnasse di non fare un determinato bene, come l'entrare a far parte della Chiesa o di un Ordine religioso. Anche qui, pur non dovendosi tener fede alla parola data, chi lo avesse giurato diverrà spergiuro.
In conclusione, non si deve giurare in assenza di una causa proporzionata, né circa una materia illecita. Dice bene la Scrittura: «Giurerai per la vita del Signore con sincerità, ponderatezza e giustizia» (Ger 4, 2).
Un ultimo possibile significato della parola vano potrebbe aversi usandolo nel senso di sciocco. «Stolti per principio sono tutti quegli uomini che vogliono ignorare Dio» (Sap 13, 1). Del pari, chi adopera il nome di Dio stoltamente, come fanno i bestemmiatori, lo pronuncia invano. «E chi avrà bestemmiato il nome del Signore, sia messo a morte» (Lv 24, 16).
«Non nominare il nome del tuo Dio invano». Del nome divino, non si può fare un vario uso.

I. Come si è veduto, per dare maggior forza al discorso, ossia nel giuramento. E un'implicita ammissione che Dio è la verità per essenza, ed è allora una maniera di riconoscerne le prerogative: la legge perciò prescriveva che, dovendosi giurare, lo si facesse chiamando Dio a testimone (171). Non sbaglia quindi chi, avendo a impegnarsi solennemente, si appella ad altri. «Non giurate pronunziando il nome degli idoli» (Es 23, 13).
Ad ogni modo, anche nel caso che si giurasse su una qualunque creatura, in fondo è sempre Dio a essere coinvolto. Giuri sopra la tua vita, sulla tua testa? Bene: tu metti l'una o l'altra a rischio di subire il castigo da parte di Dio. Ma [con tranquillità] l'Apostolo poteva scrivere: «Io chiamo Dio in testimone contro la mia vita [se non ho detto la verità]» (2 Cor 1, 23).
Altrettanto si dica quando giuri sopra il Vangelo: giuri su colui che ne è l'ispiratore. Chiunque abbia l'abitudine di giurare su Dio o su suo Vangelo con leggerezza, pecca.

2. Il nome santo può essere invocato per santificare le cose. Lo facciamo nel conferire il battesimo, del quale san Paolo dice: «[Eravate esclusi dalla eredità del regno di Dio, ma] siete stati mondati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (I Cor 6, 11). Il sacramento riceve la propria efficacia esattamente in forza dell'invocazione della Trinità. E Geremia invocava sul popolo il nome del Signore (cf. Ger 14, 9).

3. Lo adoperiamo per scacciare l'Avversario. Prima di somministrare il battesimo si procede alla rinunzia d'ogni rapporto con il diavolo. Un tuo ritorno al peccato equivarrebbe al vano uso del nome salvifico.

4. Usarlo [correttamente] è lo stesso che enunciare la propria fede in Dio. «Come [i pagani] invocheranno uno in cui non credono [per non averne sentito parlare]?» (Rm 10, 14). Invece «chiunque invocherà il nome del Signore [con fede] sarà salvo» (Rm 10, 13).
La nostra dichiarazione di fede può essere verbale, quando parliamo della gloria di Dio: «Sono creature che mi glorificano tutti coloro che invocano il mio nome» (Is 43, 7). Usi male del suo nome se denigri la gloria che spetta al Signore.
La fede può esprimersi concretamente, nel compimento di quelle opere che tornano a gloria di Dio. «La vostra luce risplenda davanti agli uomini, affinché essi vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5, 16). Fanno il contrario coloro di cui parla l'Apostolo: «Per colpa vostra il nome di Dio è oggetto di derisione tra i pagani» (Rm 2, 24).

5. È un valido rifugio. «Solida torre è il nome del Signore: il giusto vi cerca riparo e si sente al sicuro» (Prv 8, 10). Gesù promette la vittoria sui demoni a chi invocherà con fede il proprio nome (cf. Mc 16, 17), l'unico nome di cui gli uomini possano disporre per conseguire la salvezza (cf. At 4, 12).

6. Infine, nel nome di Dio si concludono egregiamente le imprese umane. Ce lo raccomanda l'Apostolo: «Qualunque cosa si compia da parte vostra, in parole o in opere, tutto fate nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo per mezzo suo, grazie a Dio Padre» (Col 3, 17). «Nostro aiuto è il nome del Signore, che ha creato i cieli e la terra» (Sal 123, 8).
Quindi, se uno comincia a fare qualcosa nel nome di Dio e poi non la porta a compimento, come nel caso di un voto inadempiuto, anche costui ha fatto un uso indebito del nome santo. «Quando hai fatto un voto a Dio, non indugiare a soddisfarlo poiché egli non ama gli stolti: quello che hai promesso, adempilo. E meglio non far voti, che farli e poi non mantenerli... Perché dar motivo a Dio di sdegnarsi per le tue parole?» (Sir 5, 3; cf. 75, 12).

3. «Ricordati del giorno di riposo, per santificarlo» (Esodo 20, 8)

Occupa convenientemente il terzo posto, dato che prima dobbiamo venerare Dio col cuore, indi con le parole, e prestargli infine il dovuto ossequio nell'agire. Per questo egli ha stabilito che gli uomini avessero un giorno determinato, in cui dedicarsi [più interamente] al suo servizio.
Tale opportunità è ben motivata.

I. Il comandamento del giorno sabatico (172) doveva confutare l'errore - previsto dallo Spirito Santo - di quei filosofi che avrebbero sostenuto l'esistenza ab aeterno del creato. «Negli ultimi giorni verranno degli uomini beffardi, schernitori, che vivono secondo le loro passioni. E diranno: dov'è la promessa della sua venuta? Poiché, da quando i padri sono morti, tutto è rimasto come era fin dal principio della creazione. Ma essi a bella posta vogliono ignorare come in principio vi erano i cieli e una terra, che la Parola di Dio aveva fatto emergere dalle acque» (2 Pt 3, 3-5).
Dio ha voluto che, a ricordo della creazione operata in sei tempi - nonché del settimo, in cui egli cessò dal chiamare altre creature all'esistenza -, osservassimo anche noi un giorno di riposo. È appunto il «ricordati di santificare la festa».
I giudei celebravano di sabato la memoria della prima creazione. Cristo operò la seconda proprio il giorno in cui si concludeva la settimana [giudaica]. Da questa seconda creazione non ebbe origine l'uomo terrestre, bensì l'uomo spirituale: la nuova creatura, quella che ha valore agli occhi del Padre (cf. Gal 6, 15). Essa prese a vivere in forza della risurrezione di Gesù (cf. Rm 6, 4-5). Ora, la risurrezione del Signore avvenne nel giorno che i cristiani hanno a lui dedicato. Per questo noi celebriamo la domenica [giorno della risurrezione, o della nuova creazione], come i giudei avevano il sabato in venerazione.

2. Esso ha valore di insegnamento religioso intorno al redentore, il cui corpo nel sepolcro fu esente dal processo di decomposizione. La sua carne, secondo il salmista, riposò nella speranza (cf. Sal 15, 9), ossia nella certezza che «il Santo» non sarebbe stato abbandonato alla corruzione della morte (cf. Sal 15, 10). Con la quiete del giorno festivo è simboleggiata la sua deposizione dalla croce, come i sacrifici ne prefigurarono la morte. Noi non pratichiamo più i riti sacrificali dell'antica alleanza per il motivo che, sopraggiunta la realtà messianica, i simboli hanno perso il loro significato. Col sorgere del sole svaniscono le ombre notturne. Tuttavia veneriamo il sabato in onore della gloriosa Vergine che pure in tal giorno serbò la fede nel Cristo, sebbene [come uomo] lo sapesse morto.

3. Poi [tale precetto] ha il compito di dar maggiore efficacia alla promessa quiete [eterna], allorché si avvererà qualcosa di assai più grande e durevole di quanto profetava Isaia ai deportati in Babilonia: «Il Signore ti darà riposo dalla tua pena, dai tuoi affanni e dalla dura servitù in cui eri tenuto» (Is 14, 3) e abiteremo in un soggiorno di pace, in dimora sicura, in luoghi di perfetta quiete (cf. Is 23, 18).
L'uomo attende di potersi riposare sia dal peso della vita terrena, sia dagli assalti delle tentazioni, sia dalla dipendenza da satana. Cristo ha promesso tutto ciò a coloro che seguiranno lui: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi, e io vi darò completo riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché sono mite e umile di cuore; e troverete pace per le anime vostre; poiché il giogo è soave, e leggero il mio peso» (Mt 11, 28-30).
Dobbiamo riflettere sul fatto che se il Creatore operò in sei fasi (173), riposandosi in quella successiva, lo fece per mostrarci che ogni cosa dev'essere compiuta nel miglior modo possibile. Anche se avremo faticato poco, troveremo un abbondante riposo (cf. Sir 51, 35), poiché l'eternità eccede senza paragone il tempo presente: assai più che mille anni di fronte alla durata di un giorno (cf. Sal 89, 4).

4. Esso si rivela quale mezzo adattissimo ad alimentare l'amore verso Dio. Da un lato è vero che «il nostro corpo corruttibile è di peso all'anima, e questa abitazione di argilla grava la mente nei suoi pensieri» (Sap 9, 15), ossia l'uomo tende sempre a cose che sono inferiori a lui per natura, se non cerca di sottrarsi al loro fascino. Opportuno quindi un giorno che faciliti questa elevazione.
Vi sono uomini che stabilmente si dedicano alla quiete [della contemplazione], che sembrano ripetere in continuazione: «Benedirò il Signore in ogni tempo» (Sal 33, 2) e fan proprio l'invito dell'Apostolo di pregare senza intermissione (cf. I Ts 5,17): vivono quasi un lungo giorno consacrato a Dio.
Altri ve ne sono, che fanno questa offerta del loro tempo a intervalli regolari. Ad esempio, lodano il Signore sette volte al dì [nella recita del divino ufficio]. Affinché i rimanenti uomini non si scordassero di Dio completamente, è stato necessario assegnar loro un giorno stabilito: l'unico modo per evitare che il loro amore verso di lui si raffreddi troppo. Anch'essi potranno gustare le delizie dell'incontrarsi con Dio, venerandolo almeno nel giorno del riposo (cf. Is 58, 13-14), e con Giobbe troveranno gioia nell'Onnipotente, nel sollevare il volto e il cuore verso di lui (cf. Gb 22, 26).
Il giorno della festa non è stato istituito perché l'uomo lo trascorra per intero nei divertimenti, bensì per rendere più intensa la lode e la preghiera (174). Sant'Agostino sosteneva che arare in giorno di festa sarebbe stato un male minore che immergersi senza freno nei passatempi.

5. Con esso ci viene fornita la possibilità di esercitare le opere di misericordia. È sempre esistita infatti gente che, disumana verso sé e verso gli altri, non smetterebbe mai d'affaticarsi pur di accumulare nuovi guadagni. Ordina perciò il Signore: «Osserva il giorno del riposo santificandolo, come il Signore, Iddio tuo, ti ha comandato. Lavora sei giorni... ma al settimo c'è riposo, è sacro al Signore, Iddio tuo; non fare nessun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava... affinché anch'essi possano prender fiato al pari di te» (Dt 5, 12-14).
«Ricordati di santificare il giorno del riposo». Abbiamo detto che, mentre i giudei celebravano il sabato, noi cristiani dedichiamo al Signore la domenica e altre feste tra le principali. Vediamo adesso come convenga vivere tali giornate.
Cominciamo intanto col far notare che la Scrittura non dice semplicemente «osserva», bensì «ricordati di santificare» il giorno di festa.
Santo si può intendere in due sensi. Indica ciò che è puro («Voi siete stati lavati, siete stati santificati» (I Cor 6, 11)), o una cosa consacrata al culto di Dio (e può dirsi santo un luogo, un determinato tempo, le vesti e i vasi sacri). Ebbene, la festa dobbiamo celebrarla tenendo presenti entrambi i significati del termine. Dobbiamo cioè dedicarci al giorno del riposo con animo puro, attendendo in prevalenza al divino servizio. Bisognerà astenersi da alcune cose, e farne invece alcune altre.
Evitare cioè tre generi di occupazioni, cominciando dai lavori servili. «Abbiate cura... di non portare un peso in giorno di sabato... In tale giorno non fate alcun lavoro» (Ger 17, 22); altrettanto prescriveva il Levitico: «Non farete in quel giorno alcuna opera servile» (Lv 23, 25). Per opera servile deve intendersi quella che affatica il corpo: infatti l'attività liberale è propria dell'anima, come il pensare e simili occupazioni più spirituali, riguardo alle quali l'uomo non può subire costrizioni.
Tuttavia, quattro scusanti possono giustificare il lavoro fisico nel giorno festivo.
La necessità: il Signore stesso difese i discepoli che [per sfamarsi] coglievano spighe di sabato (cf. Mt 12, 1-2). Per l'utilità della Chiesa: così il Vangelo narra che i sacerdoti in quel giorno compivano tutto ciò che era richiesto dai sacrifici cultuali (cf. Mt 12, 1-5). Per aiutare il prossimo: Gesù curò di sabato l'uomo dalla mano inaridita, e ridusse al silenzio quei giudei che lo avevano contestato, portando loro l'esempio della pecora tratta in salvo (cf. Mt 12, 10-13). Per ordine della superiore autorità: ad esempio, il Signore ordinò che gli israeliti praticassero la circoncisione anche di sabato (cf. Gv 7, 22-23).
Poi dovremo astenerci [più che mai nel giorno sacro] dalle colpe. Si può qui applicare l'avvertenza di Geremia: «Se volete salva la vita, non portate pesi di sabato» (Ger 17, 21), poiché il peccato è un tremendo fardello per l'anima, che faceva sospirare Davide: «Le mie iniquità... come un grave peso mi opprimono» (Sal 37, 5).
Orbene, anche il lavoro servile può costituire peccato, una specie di schiavitù interiore (cf. Gv 8, 34). Cosicché l'invito a non compiere lavori servili nel tempo della festa, può intendersi come un ulteriore invito a non cadere in peccato. Viola quindi questo precetto chi pecca nel giorno di festa. Potrebbe ripeterci il profeta, a nome del Signore: «I vostri sabati e le adunanze rituali non le posso soffrire» (Is I, 13-14). E sapete perché? Per il fatto che «il vostro è un ritrovarsi che sa d'iniquo» (Is I, 13-14). Per questo Jahvè dichiarava di odiarle, d'essere stanco di sopportarle.
Va evitata l'inerzia totale. «L'ozio è il maestro di tutti i vizi» (Sir 33, 29), per cui Girolamo raccomandava a Rustico: «Abbi sempre qualcosa da fare, in modo che il demonio ti trovi continuamente occupato». Non sarebbe nel giusto chi si contentasse di osservare le feste principali, per poi restarsene in ozio nei rimanenti giorni. «Fa onore al re osservare la giustizia» (Sal 98, 4), nel nostro caso il discernimento. Nella storia dei Maccabei si racconta che alcuni israeliti si erano nascosti e, (convinti che. non fosse lecito neppur difendersi di sabato, quando i nemici irruppero su di loro li massacrarono (cf. I Mac 2, 29-38). Accade qualcosa di simile a molti che trascorrono inerti i giorni della festa. «La videro i suoi nemici, e risero dello stato di abbandono [in cui giaceva Gerusalemme]» (Lam I, 7). Era assai meglio imitare quegli altri giudei che stabilirono, prudentemente: «Chiunque venga a battaglia contro di noi in giorno di sabato, combatteremo contro di lui, per non morire» (I Mac 2, 41).
«Ricordati di santificare la festa». Sin qui si è veduto che santo può avere il senso di cosa monda o consacrata a Dio. E abbiamo esaminato pure da quali pratiche ci si debba astenere per la durata del giorno festivo.
Vediamo adesso quali siano le specifiche occupazioni dei giorni santi.
È conveniente innanzitutto attendere all'offerta del sacrificio. Jahvè prescrisse che ogni giorno gli fossero immolati due agnelli, uno al mattino, l'altro all'ora del véspro. Ma di sabato l'offerta doveva essere raddoppiata (cf. Nm 28, 9). E questo indica che nel giorno festivo dobbiamo offrire a Dio in sacrificio, per intero, il nostro essere. «Tutto proviene da te, e noi non facciamo che restituirti quello che la tua mano ci ha dato» (I Cr 29, 14).
Rimettiamo nelle sue mani la nostra anima, dolendoci dei peccati commessi («Sacrificio a Dio è uno spirito contrito» (Sal 50, 19)) e ringraziandolo dei benefici («S'innalzi la mia preghiera come un incenso al tuo cospetto» (Sal 140, 2)). Il giorno festivo infatti è particolarmente idoneo a procurarci quella letizia spirituale che promana dalla preghiera, per cui in tal giorno dovremo moltiplicare il nostro dialogo col Signore.
È giusto affliggere il corpo, [tra l'altro] mediante il digiuno («Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi quale ostia viva» (175) oltre che mediante la lode («L'offerta della lode mi onorerà» (Sal 49, 23)); perciò nel giorno festivo vengono moltiplicati i canti.
Farai bene a sacrificare qualcosa dei tuoi averi, distribuendo il superfluo. «Non vogliate dimenticarvi della beneficenza e della comunione [nella carità], poiché con tali vittime si guadagna la benevolenza di Dio» (Eb 13, 16). Una carità operosa e più abbondante che negli altri giorni della settimana, facendo sì che la letizia divenga generale. «Mandate una parte [dei vostri cibi e delle vostre bevande] a quelli che non han potuto preparare nulla, perché questo giorno è sacro al Signore» (Ne 8, 10).
Dobbiamo inoltre dedicarci alla meditazione delle divine verità, come fanno tuttora gli ebrei. «Gli oracoli dei profeti si leggono tutti i sabati» (At 13, 27). Dunque, i cristiani, che devono mostrarsi più perfetti di loro, devono frequentare la chiesa per ascoltarvi la parola di Dio e i canti della liturgia. «Chi è da Dio, ascolta le parole di Dio» (Gv 8, 47).
Il nostro parlare dev'essere [più che mai] teso alla edificazione del prossimo: «Non esca dalla vostra bocca alcun cattivo discorso, ma tale che sia atto a insegnare le verità della fede e risulti utile a coloro che ascoltano» (Ef 4, 29). Ciò, assieme alla riflessione sulla divina parola, fa del bene a chi vive nel peccato, poiché mutano in meglio le sue disposizioni interiori. «La mia parola non è forse come il fuoco, dice il Signore, come il martello che frantuma le pietre?» (Ger 23, 29).
Non ne ricavano frutto invece quei buoni che non si preoccupano di comunicare ad altri la Parola che hanno ascoltato, oppure non l'ascoltano essi stessi. «I cattivi discorsi corrompono i costumi virtuosi. State all'erta, voi giusti, e non peccate» (I Cor 15, 33-34); e un salmo ci esorta alla continua meditazione della legge di Dio, quale mezzo validissimo per evitare di offenderlo (cf. Sal 118, 11). La dottrina [del Signore] infatti istruisce chi non sa («La tua parola è una lampada dinanzi ai miei piedi, una luce sui miei sentieri» (Sal 118, 105), e infervora il tiepido: «La parola del Signore lo infiammò» (176).
Infine, sarà utile dedicarci alle pratiche che alimentano la pietà, come fanno i più progrediti [nella vita spirituale]. «Fate esperienza di quanto sia soave il Signore» (Sal 33, 9). Ne trarrà vantaggio l'anima, innanzi tutto: l'anima che desidera quei momenti di quiete, non meno che il corpo affaticato. E non c'è luogo in cui lo spirito si senta rinascere, meglio che accanto al Signore. «Sii per me un Dio protettore e un luogo in cui sentirmi al riparo» (Sal 30, 3). Resta in vigore [anche per noi cristiani] un giorno in cui poter riposare: chi partecipa del riposo di Dio, trova ristoro dalle proprie fatiche (cf. Eb 4, 9-10). Rientrati nella quiete dello spirito, ci riposeremo in compagnia della Sapienza (cf. Sap 8, 16).
Prima però di poter giungere a questa pace, l'anima deve purificarsi da tre motivi d'inquietudine. Dal travaglio che è frutto del peccato («Il cuore dell'empio è simile a un mare in tempesta, che non riesce a calmarsi») (Is 57, 20); dalle passioni della carne, giacché «la carne ha desideri opposti a quelli dello spirito e lo spirito desideri contrari a quelli della carne» (Gal 5, 17); dalle occupazioni profane. «Marta, Marta tu t'inquieti e ti affanni per troppe cose» (Lc 10, 41).
Dopo, sì, l'anima può, senza impacci, riposare in Dio, stare nell'intimità del suo Signore (cf. Is 58, 13-14).
Ecco perché i santi hanno preferito sempre staccarsi da tutto: questa [pace dell'anima] è simile alla perla di gran valore, di cui parla Matteo: il mercante che ne ha scoperto l'esistenza si dà da fare, e investe in essa il suo capitale pur di entrarne in possesso (cf. Mt 13, 46).
È [un anticipo del]la vita eterna, [del] gaudio interminabile. È il luogo del nostro riposo, dove abbiamo scelto di abitare per sempre (cf. Sal 131, 14). E che Dio ci accompagni!

4. «Onora tuo padre e tua madre, affinché siano prolungati i tuoi giorni sopra la terra che il Signore, tuo Dio, ti dà» (Esodo 20, 12)

La perfezione dell'uomo, dunque, consiste nell'amare Dio e il prossimo. I primi tre comandamenti riguardanti la carità verso Dio erano incisi sulla prima delle tavole di pietra; sulla seconda, i rimanenti sette, relativi alla carità verso se stessi e gli altri uomini.
Non possiamo limitarci a esprimere solo verbalmente questo nostro amore: come raccomanda l'apostolo Giovanni, dobbiamo manifestarglielo in concreto e con sincerità (cf. I Gv 3,18), evitando di nuocergli e, al contrario, facendo gli tutto il bene possibile. Ecco perché tra i comandamenti ne troveremo alcuni che invitano a ben fare, altri invece che vietano di recar danno al prossimo.
Si noti però che mentre rientra nei limiti delle nostre capacità il cercar di non ledere il prossimo, mai riusciremmo a beneficiare tutti quanti i bisognosi. Dice in proposito sant'Agostino che tutti devono esser oggetto del nostro amore, ma non siamo tenuti ad aiutare ciascuna persona in particolare.
La precedenza spetta ai congiunti, poiché «se uno non ha cura dei suoi, e massimamente di quelli della propria famiglia, ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele» (I Tm 5, 8). Primi fra tutti, nostro padre e nostra madre. Scrive Ambrogio che «Dio va amato per il primo, ma subito appresso vengono i genitori». E Aristotele ce ne fornisce la ragione: mai potremo ricambiare interamente la somma di benefici che, in quanto figli, abbiamo ricevuto dai nostri genitori. Offeso gravemente, un padre potrebbe giungere a scacciare suo figlio, mentre costui non potrà fare altrettanto, in nessun caso.
I genitori danno ai figli tre sorta di beni. L'inizio della terrena esistenza. «Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare le pene sofferte da tua madre. Ricordati che senza di loro mai saresti venuto al mondo» (Sir 7, 27-28). Il nutrimento e tutto il resto che è necessario per vivere; un figlio nasce nudo, e riceve dai genitori riparo e vesti. Essi, infine, provvedono alla sua educazione. «Per precettori abbiamo avuto i nostri parenti carnali» (Eb 12, 9). «Hai dei figli? Allevali bene» (Sir 7, 23).
Due sono gli insegnamenti di base che occorre dare ai figli il più presto che si può, considerando che «abituato il fanciullo a una buona condotta, egli non l'abbandonerà nemmeno quando comincerà a invecchiare» (Prv 22, 6). È un bene che l'uomo si avvezzi al giogo [della disciplina] fin da piccolo (cf. Lam 3, 27).
Queste due raccomandazioni fondamentali son le medesime che Tobia dava al proprio figliolo: il timor di Dio e la fuga da ogni specie di ingiustizia (cf. Tb 4, 6). Una simile impostazione esemplare condanna quei genitori che, all'opposto, godono delle malefatte dei propri figli. [Dal canto loro] «i figli nati da unioni illegittime, nel giorno del giudizio attesteranno l'immoralità dei genitori» (Sap 4, 6), e talvolta Dio punisce il peccato dei genitori nella loro prole (177).
E allora evidente che, ricevendo la vita, il nutrimento e l'educazione, noi dobbiamo avere nei loro riguardi un rispetto maggiore di quello che si ha verso gli altri superiori da cui otteniamo determinati beni temporali. Dopo Dio, che ci ha dato l'anima, vengono i genitori. «Chi teme il Signore, onora suo padre, e serve i propri genitori come suoi signori: essi lo hanno generato, ed egli [li ricambia] coi fatti e le parole, con grande condiscendenza. Figlio mio, onora tuo padre... affinché riposi su di te la sua benedizione» (Sir 3, 8-10).
Così facendo, tu onori te stesso. Difatti, come afferma la Scrittura, «la gloria di un uomo sta nell'onore di suo padre, mentre fa vergogna a un figlio un padre disonorato» (Sir 3, 13).
Essi provvidero alle nostre necessità per tutto il tempo della fanciullezza; quindi dobbiamo pensare a essi, al sopraggiungere della tarda età. «Figlio, soccorri tuo padre nella sua vecchiaia e non lo contristare durante la sua vita. Anche se gli vien meno la mente, abbine compassione: non disprezzarlo vantandoti del tuo vigore» (Sir 3, 14-15). «Quanto spregevole è chi trascura suo padre! e chi disgusta sua madre è maledetto da Dio» (Sir 3, 18).
Cassiodoro, per umiliare certi figli snaturati, narra che le giovani cicogne usano ricoprire con le proprie penne i genitori che, a causa dell'età, le hanno perdute, e li nutrono dividendo con loro il cibo, non essendo quelli più in grado di procurarselo. Una commovente delicatezza, questo restituire quanto si ricevette in dono nei primi anni della vita!
Essi ci hanno dato un'educazione, e dobbiamo ubbidire. «Figlioli, siate ubbidienti in tutto ai genitori» (Col 3, 20): in tutto, tranne ovviamente in ciò che fosse peccato. In tal caso la sola, vera pietà [filiale] sarà il mostrarsi irremovibili, come san Girolamo consiglia a Eliodoro. Del resto, conosciamo tutti le parole di Gesù: «Se uno non ama meno di me il padre e la madre, non è degno di me» (Lc 14, 26). Dio infatti è il nostro padre più vero: forse non è lui «che t'ha procreato, colui che t'ha fatto e per cui tu sussisti?» (Dt 32, 6).
«Onora tuo padre e tua madre». Solo a questo comandamento fa seguito una postilla: «affinché ti siano prolungati i giorni sopra la terra», onde cioè rassicurarci che sebbene si tratti di precetto conforme a natura, gli è stato annesso un premio da parte di Dio.
Ben cinque [anzi] sono i beni destinati a quanti tengono nel dovuto ossequio i propri genitori.

I. La grazia, attualmente, e in futuro l'eterna gloria: due cose desiderate in sommo grado. La benedizione paterna accompagnerà il figlio rispettoso sino alla fine (cf. Sir 3, 9-10), mentre assai diversa è la sorte di chi oserà insultare i genitori: sono maledetti, tali figli, perfino della legge, come si può vedere nelle pagine del Deuteronomio (cf. Dt 27, 16).
L'evangelista Luca ci ricorda che «chi è ingiusto nelle piccole cose, è ingiusto anche nelle grandi» (Lc 16, 10); orbene, la vita fisica è quasi un nulla a paragone della vita di grazia. Perciò, se ti mostri ingrato riguardo al beneficio primario che ricevesti dai tuoi genitori, ti rendi indegno di esser ammesso alla vita soprannaturale della grazia (maggiore della precedente), e assai più indegno della vita eterna di gloria, massimamente desiderabile.
2. Altra cosa che gli uomini bramano è la longevità. La Scrittura promette una vita più lunga a chi onora i genitori (cf. Sir 3, 7). Fa attenzione però che una vita è veramente lunga quando è piena di [autentici] beni. Essa non si misura, infatti, in base alla durata temporale bensì all'attività, come insegna il filosofo (Aristotele). Un'esistenza ricca di opere virtuose. Quindi può dirsi con verità che l'uomo onesto, e [tanto più] il santo, ha vissuto a lungo anche se morisse giovane. È per lui l'elogio della Sapienza: «Divenuto perfetto in breve tempo, compì le opere di una lunga vita. La sua anima era gradita a Dio» (Sap 4, 13-14).
Fa degli ottimi affari quel tale che in una giornata riesca a combinare quanto ad altri riesce di concludere nell'arco di un anno intero. E non dimentichiamo neppure che, alle volte, un protrarsi dell'esistenza terrena può condurre a una [triste] morte e fisica e spirituale, vedi il caso di Giuda.
Chi tribola i genitori raccoglie frutti mortiferi. Dai nostri genitori ricevemmo la vita, come gli uomini d'arme hanno in custodia dal re un feudo. E se è giusto che, in pena del loro tradimento, i feudatari perdano la signoria di cui godevano, così non sono degni di vivere quei figli che sono ingiusti verso chi li mise al mondo. «L'occhio che schernisce il padre e disprezza l'età della madre, sia cavato dai corvi della valle e lo divorino i figli dell'aquila» (Prv 30, 17). (Le giovani aquile possono raffigurare i re e i principi, i corvi gli ufficiali subalterni).
Se non sempre la morte precoce viene a punire i figli ingrati, non per questo potranno sperare d'essere sfuggiti alla morte spirituale.
Dal canto suo, un padre non deve eccedere nel lasciare ai figli troppa libertà; non dovrà mai rinunziare interamente all'autorità paterna (cf. Sir 33, 21; 20).

3. Chi ha saputo onorare i propri genitori, avrà in sorte a sua volta figli riconoscenti e amabili. E nell'ordine delle cose che un padre accumuli beni per i figli. Non altrettanto sicura è la gratitudine da parte di questi ultimi. Però «chi avrà rispettato suo padre, sarà allietato dai figli» (Sir 3, 6). Anche qui può ripetersi: «Nella misura in cui avrete misurato, sarà misurato a voi» (Mt 7, 2).

4. Ne deriva una buona fama. «La gloria di un uomo sta nell'onore di suo padre» (Sir 3, 13) e, al contrario, «quanto è spregevole colui che non si cura [delle necessità] di suo padre» (Sir 3, 18)!

5. Forse verranno anche le ricchezze. «La benedizione del padre consolida le famiglie nate dalla sua prole; la maledizione della madre ne sradica le fondamenta» (Sir 3, 11).
«Onora tuo padre e tua madre», dunque. Si noti però che il rispetto è dovuto non solo a coloro che ci hanno fisicamente generato, bensì a chiunque possa dirsi nostro padre o nostra madre per altri titoli. Anch'essi meritano l'ossequio da parte nostra.
Chiamiamo infatti padri gli apostoli e altri santi che hanno alimentato la nostra fede con la dottrina e l'esempio. «Quand'anche aveste migliaia di maestri in Cristo, non avreste tuttavia molti padri. Difatti io vi ho generati in Cristo Gesù per mezzo del vangelo» (1 Cor 4, 15). Anche altrove la Scrittura ci invita a tessere l'elogio degli uomini pii, che hanno contribuito ad alimentare in noi l'amore per la vita integra (cf. Sir 44, 1). Ma che sia una lode fatta non semplicemente di belle parole. Imitiamoli, con la maggiore fedeltà possibile. «Ricordatevi dei vostri capi spirituali, che vi predicarono la parola di Dio: e considerando quale fu il termine della loro vita, imitatene la fede» (178).
Chiamiamo giustamente padri anche i nostri superiori. Dobbiamo venerarli in quanto ministri di Dio. Ha detto Gesù, rivolto a essi: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi vi disprezza, è me che disprezza» (Lc 10, 16). Venerarli mediante l'ubbidienza. «Ubbidite a coloro che vi guidano e siate disciplinati, perché essi vegliano sulle vostre anime e dovranno renderne conto» (Eb 13, 17). È giusto, inoltre, contribuire al loro sostentamento.
Sotto un analogo profilo vanno considerati anche i nostri governanti. Ad esempio, i servi si rivolsero a Naam, capo dell'esercito del re dell'Aram, con l'appellativo di «Padre» (2 Re 5, 13), e ciò in quanto [i sovrani e i loro ministri] hanno il compito di promuovere il bene dei sudditi. Comportiamoci, a nostra volta, da sudditi leali. Insegna l'apostolo Paolo: «Ognuno sia soggetto alle autorità superiori poiché non c'è autorità che non venga da Dio. Chi si oppone all'autorità, resiste all'ordine stabilito da Dio» (Rm 13, 2). E non già in quanto mossi dal timore, non per la sola paura del castigo, ma spinti dall'amore [almeno del bene comune], secondo una retta coscienza. Il motivo lo si è visto, poiché come ha detto l'Apostolo, il potere trova in Dio la sua origine; quindi è un debito da soddisfare, in diversi modi: «A chi è dovuta l'imposta [sia versata] l'imposta; a chi la gabella, la gabella. A chi [spetta] la riverenza, la riverenza; a chi l'onore, l'onore» (179). «Figlio mio, temi il Signore e il re» (Prv 24, 21).
Hanno diritto a una particolare benevolenza, i benefattori. Essi ascoltarono l'invito del Signore (cf. Sir 4, 10), aiutando ci come fa un padre, perciò noi siamo tenuti a ricambiare. «Non dimenticare - ad esempio - la bontà di chi ti è stato garante: egli ha esposto la sua vita per te» (Sir 29, 20). Agli ingrati potranno applicarsi le parole della Sapienza: «La speranza dell'ingrato svanirà [quando egli tornerà a trovarsi nel bisogno] come brina invernale e si disperderà come inutile acqua che passa» (Sap 16, 29).
C'è infine una paternità che deriva dalla canizie. Gli anziani contribuiscono al tuo sapere, insieme ai genitori (cf. Dt 32, 7). «Alzati in piedi davanti a chi ha già i capelli bianchi; onora i vecchi» (Lv 19, 32). «In mezzo ai grandi non ritenerti pari e quando uno [di essi] parla non prender tu la parola» (180); e ancora: «Ascolta in silenzio: in cambio del rispetto che dimostri, sarai ben voluto» (Sir 32, 9).
Tutti costoro, dunque, devono esser trattati con particolare onore: hanno in sé un qualche riflesso del Padre che sta nei cieli. Avendo in mente anche loro, Gesù ha detto: «Chi disprezza voi, disprezza me» (Lc 10, 16).

5. «Non uccidere» (Esodo 20, 13)

Tra i diversi mali da cui la legge divina intende tenerci lontani, il massimo che possiamo recare al prossimo è quello di privarlo della vita. Ciò è espressamente proibito dal quinto comandamento.
Vi sono state in proposito tre erronee interpretazioni.
Taluni sostennero che non sia lecito uccidere neppure le bestie. Ma è falso, dato che non vi può essere alcun male nel [retto] uso delle creature che sono soggette al dominio dell'uomo. Rientra nel disegno naturale che le piante siano alimento per gli animali, come taluni di questi serviranno a nutrire gli altri, e tutto ciò che è commestibile è ordinato al sostentamento del genere umano. «Tutto ciò che si muove e che ha vita vi servirà da cibo: io vi do tutto questo, come vi detti l'erba verde» (Gn 9, 3). Anche Aristotele insegna, nel suo trattato di Politica, che la caccia va considerata alla stregua d'una giusta guerra.
Anche san Paolo ci rassicura: «Mangiate di tutto quello che si vende al mercato, senza preoccuparvi di niente per scrupolo di coscienza, perché 'del Signore è la terra con tutto quello che essa contiene'» (I Cor 10, 25; cf. Sal 23, 1). Quindi il «non uccidere» equivale a non uccidere l'uomo.
Altri hanno creduto di vedere nel precetto in questione il divieto assoluto di qualsiasi condanna a morte. Sarebbero degli omicidi, secondo costoro, gli stessi giudici secolari che comminassero, a norma di legge, la pena capitale. Li contraddice però Agostino, facendo notare come Dio non può perdere, a motivo del quinto comandamento, i suoi diritti sopra la vita umana. «Son io che posso far morire, e sempre io l'unico capace di ridar la vita» (Dt 32, 39). Di conseguenza è lecito anche a coloro che, per mandato divino, esercitano la giustizia. Agiscono in rappresentanza di Dio, dato che ogni [giusta] legge promana da lui: «È nel mio nome che regnano i re, e i magistrati applicano il diritto» (Prv 8, 15). Così ragiona l'Apostolo: «Vuoi non aver paura dell'autorità? Comportati bene e riceverai la sua approvazione. Se invece agisci male, temi; non per nulla porta la spada; essendo ministra di Dio, deve punire chi opera il male» (Rm 13, 3-4.). Anche a Mosè fu raccomandato [per il bene del popolo eletto]: «Non permettere che viva chi si è rivelato nocivo» (181). Facoltà analoga appartiene ai rappresentanti di Dio, che ne ricevano da lui il mandato. In altri termini, se Dio, autore della legge, non infrange la medesima infliggendo la pena di morte prevista per determinati peccati (182), non pecca chi ne esegue il volere. Senso autentico del precetto è dunque: «Non uccidere (di tua iniziativa)».
Nel comandamento «non uccidere» altri vollero vederci la proibizione di attentare alla vita altrui: il suicidio così risulterebbe lecito. Citavano il caso di Sansone (cf. Gdc, 16, 28-30), di Catone (183), e di un certo numero di vergini [cristiane] che, come racconta Agostino nel De civitate Dei, si gettarono tra le fiamme [per sfuggire agli aggressori]. Ma è lo stesso dottore della Chiesa che formula un giudizio negativo: «Chi si uccide, uccide una persona umana». Ora, se non è lecito privare alcuno della vita, tranne che per comando divino, neppure può esser consentita l'uccisione di se stessi; a meno che non sia ancora Dio a ordinarlo o [lo consenta] mediante un impulso dello Spirito, come si crede avvenisse a Sansone. Diversamente: non uccidere e non ucciderti.
Un uomo può divenire omicida in diversi modi. Fisicamente, macchiandosi le mani di sangue (cf. Is I, 15), il che non solo va contro il dovere di amare il prossimo come amiamo noi stessi (e un omicida si priva della grazia che è seme di vita eterna (cf. I Gv 3, 15), ma va contro l'istinto naturale. Difatti «ogni essere vivente è attratto da quelli della sua specie» (Sir 13, 19). Per questo, Dio prescrisse a Mosè di mettere a morte chi avesse percosso un altro, da farlo morire (cf. Es 21,12). L'assassino è più crudele del lupo, del quale si legge che rifiuta di cibarsi della carne di un suo simile (184).
Anche con la bocca si può dare la morte, ad es. istigando qualcun altro a commettere omicidio, oppure ricorrendo alla provocazione, accusando [ingiustamente] o calunniando. È proprio vero che [spesso] «gli uomini hanno lance e saette al posto di denti, e per lingua una spada acuta» (Sal 56, 5).
Dando manforte a chi non esita a versare il sangue. Ed equivale a condividere la responsabilità nel crimine (cf. Prv 1, 15) il frequentare uomini malvagi.
Lo stesso si dica di chi approva l'operato di un [ingiusto] uccisore. «Chi fa cose inique - e fra le altre iniquità c'è l'omicidio - è degno di morte; e non solo chi le fa, ma anche chi le approva» (Rm 1, 32). E bada che tu dai il consenso quando, potendo intervenire, non fai nulla per sventare un delitto. «Libera chi [innocente] è condotto a morte» (Prv 24, 11). Casi analoghi: se ne hai i mezzi ma, per negligenza o avarizia, neghi il tuo soccorso a chi sta nel bisogno. «Dai da mangiare, scrive sant'Ambrogio, a chi muore di fame: se ti rifiuti, hai finito d'ucciderlo ».
Abbiamo parlato di chi uccide una persona fisicamente. C'è anche chi spegne nell'anima la vita della grazia, col trascinarla nel peccato mortale. Satana «fu omicida dal primo momento» (Gv 8, 44), sospingendo l'uomo appunto verso la colpa grave. C'è pure chi nel medesimo tempo, uccidendo una donna incinta, danneggia il bimbo quanto alla vita fisica, e quanto ai diritti della sua anima (185). Uguale danno fa a se stesso il suicida.
«Non uccidere». Nel vangelo secondo Matteo, Cristo ci ha lasciato questo ammaestramento: che la nostra giustizia dev'essere superiore a quella ispirata dall'antica legge (cf. Mt 5, 21-22). I cristiani cioè devono osservare con impegno maggiore i precetti evangelici, di quanto i giudei non praticassero le prescrizioni legali. Una fatica più grande meriterà migliore ricompensa, poiché «chi semina poco mieterà poco, mentre chi semina molto, mieterà anche molto» (2 Cor 9, 6). Nella legge [mosaica] erano promesse ricompense temporali e terrene: «Se sarete docili e ubbidirete, avrete in premio i beni del paese» (Is 1, 19); invece nella legge evangelica vengono assicurati beni celesti ed eterni. Quindi la giustizia di un uomo, consistente nell'osservanza della divina volontà, dev'essere più perfetta, in proporzione dei beni superiori [che vi sono connessi].
Un precetto del vangelo qui viene esaminato a parte. «Voi avete udito che fu detto agli antichi: 'Non uccidere; e chiunque avrà ucciso sarà condannato in giudizio'; ma io vi dico che sarà condannato in giudizio chiunque va in collera con suo fratello» (Mt 5, 21-22), ossia dovrà subire la pena stabilita dalla legge. «Se - ad esempio - uno trama contro il suo prossimo per ucciderlo con inganno, anche dal mio altare lo strapperai a forza, per farlo morire» (186).
Ognuno di noi deve guardarsi dall'ira, con molta attenzione.

1. Non lasciamoci, innanzi tutto, trasportare troppo facilmente dalla collera. «Ognuno sia pronto ad ascoltare, ma lento a parlare e cauto nell'abbandonarsi all'ira, poiché l'uomo adirato non compie ciò che è giusto dinanzi a Dio» (Gc 1, 19). È un peccato, l'ira, e Dio la punisce.
A questo punto si impone un problema: qualunque specie d'ira è contraria alla virtù? Gli stoici sostennero che nessuna passione può giungere a dominare il savio, e affermavano anzi che la vera virtù consiste nella imperturbabilità dello spirito. I seguaci di Aristotele (187) invece ritenevano che il sapiente potesse adirarsi, purché in misura contenuta. Tra le due, quest'ultima è l'opinione più prossima al vero.
Il vangelo infatti ci documenta la presenza di codesto e altri simili moti nell'animo del Cristo (188), in cui allo stato sorgivo si trovava la perfetta sapienza.
Del resto la stessa ragione ci dice che se tutte le passioni (189) fossero di per sé incompatibili con la virtù, alcune facoltà dell'anima risulterebbero inutili; la loro presenza nell'uomo sarebbe addirittura nociva, non potendosi esprimere sempre in maniera opportuna. Gli appetiti (190) irascibile e concupiscibile avrebbero solo l'apparenza dell'utile.
Dobbiamo concluderne piuttosto che vi è una sorta d'ira che si può e si deve condannare, e una virtuosa indignazione.
Vi può essere ira semplicemente a livello del giudizio, senza ripercussioni sensitive: e questa, più che ira vera e propria, è riprovazione critica. Così, diciamo che il Signore si adira nel castigare i cattivi. «Sopporterò le conseguenze dell'ira del Signore, poiché l'ho offeso» (Mic 7, 9).
Una forma d'ira più strettamente effetto di passione scaturisce dall'appetito sensitivo (191). Essa è, a volte, controllata dalla riflessione come nel caso di uno che si adira nel momento opportuno, in una misura adeguata alle concrete circostanze e per un ragionevole motivo. Si tratta allora di un atto virtuoso, ed equivale allo zelo (192). Il filosofo (Aristotele) scrive infatti che la mansuetudine non è [tanto] l'astensione dall'ira [quanto piuttosto la capacità di temperare i propri interventi] (193).
Infine c'è una irascibilità che sfugge al dominio della ragione ed è sempre peccato, veniale o mortale, secondo i casi, in rapporto con il movente.
Può essere peccato grave sia in se stessa, sia per gli elementi che l'accompagnano. L'omicidio è grave di sua natura, in quanto vìola direttamente (194) un comandamento di Dio. Può darsi che talvolta, a un moto che di per sé costituirebbe trasgressione grave della legge, non segua il consenso (metti il caso di un impulso sensuale inducente alla fornicazione, cui però non si aderisca): non vi è gravità di peccato.
Un ragionamento del genere vale per l'ira che, dovendola definire, è un moto dell'animo teso a vendicare un'offesa subìta. Questa è, sostanzialmente, l'ira. Orbene, se tale impulso è tanto violento da travolgere al tutto la ragione, si avrà peccato mortale; mancando invece il deliberato consenso, la mancanza è leggera. Tanto più se poi la reazione non è neppure esagerata: il consenso non ne aggraverebbe la valutazione morale.
Le parole: «Chiunque va in collera col suo fratello sarà condannato in giudizio» (Mt 5, 22) vanno intese come riprovazione del proposito di danneggiare qualcuno in grave misura. Potrebbe essere, se c'è consenso, colpa grave. Dio saprà giudicare ogni nostra azione, egli che «chiamerà in giudizio a rispondere su tutto ciò che è occulto, bene o male che sia» (Qo, 12, 14).
Oltre a ciò, non dobbiamo adirarci con leggerezza considerando il desiderio che ciascuno di noi nutre per la libertà e quindi la ripugnanza a divenire schiavi. Ebbene, un uomo in preda all'ira non è certo padrone di sé. «Il furore è capace di crudeltà e la collera è impetuosa» (Prv 27, 4); o, ancora: «Son pesanti le pietre e la sabbia, ma la furia dello stolto è più insopportabile dell'una e dell'altre» (Prv 27, 3).

2. L'ira va controllata anche per evitare di subire troppo a lungo la sua influenza. «Se vi adirate, non lasciate che l'ira stessa vi trasporti al peccato» (Sal 4, 5). Perciò «non tramonti il sole sul vostro risentimento» (Ef 4, 26). Nel Vangelo, Gesù medesimo ci spiega il perché ci convenga tentare la riconciliazione con il nostro avversario, finché siamo a tempo (cf. Mt 5, 25).

3. Tutt'altro che trascurabile il rischio di scendere a vie di fatto. L'ira comincia con invadere il cuore, fino a mutarsi in odio. Da reazione istintiva, essa si trasforma in uno stato di persistente malanimo. L'apostolo Giovanni ci avverte: «Colui che odia il proprio fratello è un [potenziale] omicida» (I Gv 3, 15); anzi equivale in qualche modo a un dare la morte anche a se stesso, privando l'anima della vita di grazia. Sant'Agostino, nella sua regola cenobitica, ha scritto in proposito: «Fate in modo di non aver mai liti tra voi, o almeno finitele al più presto, perché l'ira non abbia a crescere sino a trasformarsi in odio e, facendo una trave da un semplice fuscello, renda l'anima omicida» (195). E Giacobbe, chiamati i figlioli attorno al giaciglio, maledisse la violenza di Simeone e di Levi, la loro vendetta crudele (cf. Gn 49, 7).

4. Da un risentimento covato nell'intimo possono venire le offese verbali. «Lo stolto manifesta subito la sua collera» (Prv 12, 16), mediante parole ingiuriose o un contegno altezzoso.
Riguardo a chi insulta il suo prossimo, Gesù ha emesso una severa sentenza: «Chi avrà detto al suo fratello 'racha', sarà condannato nel sinedrio; e chi gli avrà detto 'pazzo', sarà condannato al fuoco della Geenna» (196). Invece «una risposta dolce placa l'ira, proprio come una parola pungente eccita la collera» (Prv 15, 1).

5. Più che mai l'ira va tenuta sotto controllo affinché non ci spinga a forme di rappresaglia fisica. Sempre bisogna stare attenti che nel nostro agire sia salva la giustizia e la misericordia. La collera tende a impedire l'esercizio di entrambe le virtù. Infatti, come insegna san Giacomo, «l'uomo adirato non compie ciò che è giusto dinanzi a Dio» (Gc 1, 20); se anche volessimo, non potremmo giudicare equamente. Rispose bene perciò un certo filosofo al suo offensore: «Ti punirei, se non mi trovassi in preda all'ira». E anche la misericordia è inattuabile finché si è in collera (cf. Prv 27, 4). Non pochi uomini giunsero a divenire omicidi, spinti dal furore (cf. Gn 49, 6).
Ecco le ragioni per cui Cristo ci insegna ad astenerci non soltanto dall'omicidio, ma dalla stessa ira [che può provocarlo]. Il bravo medico non si limita a estirpare quei mali che vede a fior di pelle, bensì li rimuove dalla radice, onde evitare una ricaduta. In altri termini, il Signore vuole che ci asteniamo da ciò che è incentivo di [sempre più grave] peccato. Dall'ira, quindi, che è il fomite dell'omicidio.

6. «Non commettere adulterio» (Esodo 20, 14)

Dopo quella di uccidere, segue la proibizione di adulterare l'unione matrimoniale; ed è logico, dal momento che con le nozze l'uomo e la donna diventano quasi un'unica persona: «Saranno, dice il Signore, una sola carne» (Gn 2, 24). Perciò, dopo l'ingiuria [omicida, o comunque lesiva] contro un individuo non ve n'è altra più atroce di quella che offende la persona che maggiormente gli è congiunta.
L'adulterio è vietato tanto alla donna, quanto all'uomo. Vediamo prima però la trasgressione da parte della donna, dato che in lei sembra assumere una particolare gravità.

I. Con una relazione extraconiugale, la donna commette tre gravi peccati, come si può rilevare da una pagina del Siracide: «La donna che lascia il marito... prima ha disubbidito alla legge dell'Altissimo, poi ha mancato contro il suo sposo, infine s'è macchiata d'adulterio e [forse] ha avuto prole da un uomo non suo» (Sir 23, 32-34).
Essa pecca quindi da incredula, nel senso che non ha voluto adeguarsi alla legge di Dio emanata espressamente contro l'adulterio. «Non divida, la creatura, quello che Dio ha congiunto» (Mt 19, 6).
Trasgredisce all'impegno solenne, da lei concluso di fronte alla Chiesa e per il quale venne invocato Dio quale testimone e garante del vincolo di fedeltà. Facile applicare al caso ciò che segue: «Il Signore è testimone tra te e la donna della tua giovinezza, verso la quale ora ti mostri infedele; eppure ella era la tua compagna e la donna nei confronti della quale ti sei impegnato» (Mt 2, 14).
Pecca di tradimento, voltando le spalle all'uomo [cui è legata da un sacro rapporto d'amicizia]. Se la donna maritata non si appartiene più ma è del marito (e similmente l'uomo ammogliato divide con la sposa la potestà su se stesso) tanto che san Paolo fa notare come la pratica della astinenza coniugale da parte di uno di essi richieda il consenso dell'altro (cf. 1 Cor 7, 4), per questo la donna adultera non è leale: si consegna illecitamente a un altro, simile a chi muta proprietario di sua iniziativa. «Essa ha abbandonato il marito avuto nella giovinezza, dimenticando il patto giurato al proprio Dio» (Prv 2, 17).
Pecca infine commettendo un furto, nel caso avesse figli dall'unione illegittima: un furto non certo lieve perché sottrae l'asse ereditario alla legittima prole. In un caso del genere, la donna dovrebbe cercare di affidare a un convento o a un monastero i figli naturali (o sistemarli in qualche altra maniera adatta) (197) sì da escludere una loro compartecipazione alla successione nei beni ereditari.
Macchiandosi d'adulterio perciò una donna agisce da sacrilega, ed è rea di tradimento e ladra.

2. Quantunque spesso ci si illuda del contrario, i mariti adulteri peccano non meno che le precedenti.
Infatti, sulla base della Scrittura sopra citata («Neppure lo sposo è padrone assoluto del proprio corpo» (1 Cor 7, 4)) i coniugi si trovano su un piano di parità giuridica: né l'uno, né l'altra può gestire l'uso del matrimonio prescindendo dal consenso della controparte. Per farcelo meglio comprendere, Dio non trasse la donna da un piede o, che so io, dalla testa di Adamo, bensì dal suo fianco (198). Ma solo con l'avvento del Cristo il matrimonio acquistò la pienezza dei valori; fino a quel momento un giudeo poteva prendersi diverse mogli, mentre la donna non godeva di analogo privilegio. Era tollerata perciò una disparità di trattamento.
L'uomo dovrebbe riuscire più agevolmente a controllarsi, se si considera la tipica passionalità femminile. San Pietro ricorda ai mariti il dovere di trattare con comprensione la sposa, «sapendo che la donna è un essere più debole» (1 Pt 3, 7).
Quindi, se pretendi dalla tua sposa una fedeltà che tu però non intendi osservare, vai contro l'impegno [che pure ti sei assunto].
Eppoi, godendo di una maggiore autorità (lui che è una guida per sua moglie, che da lui prenderà chiarimenti in materia di fede) (cf. 1 Cor 14, 34-35), l'uomo deve proporsi a modello. Anche per questo, Dio affidò a un uomo - Mosè - il precetto di cui parliamo.
Un sacerdote che venga meno al dovere specifico di istruire pecca più che un semplice laico, e il vescovo più del sacerdote. Analogamente, nel compiere l’adulterio pecca [più gravemente] l'uomo, in quanto egli viene a mancare alla parola data e al dovere del buon esempio.
Dal canto loro le mogli tengano a mente la raccomandazione di Cristo: «Osservate e fate tutto ciò che [di bene] essi vi dicono: ma non agite secondo le opere loro» (Mt 23, 3).
«Non commettere adulterio». La proibizione, si è detto, riguarda tanto l'uomo, quanto la donna. Ora bisogna aggiungere l'opinione di certuni che, pur dicendo si convinti che l'adulterio costituisca un [grave] peccato, non credono che lo sia anche la fornicazione. Ma li confuta apertamente san Paolo: «Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri» (Eb 13, 4). «Non sapete che gli ingiusti non possiederanno il regno di Dio? Attenti a non illudervi: né fornicatori, né adulteri... saranno eredi del regno di Dio» (1 Cor 6, 9). Dato che nessuno viene escluso dal regno dei cieli, tranne che a causa di gravi violazioni della legge divina, evidentemente anche la fornicazione è da considerarsi tale.
Magari però tu vuoi dire che di gravità non può parlarsi, come nel caso dell'adulterio, poiché fornicando non si svilisce [necessariamente] il corpo di una donna coniugata. Allora ti rispondo che l'oltraggio riguarda, qui, un corpo ancora più nobile: il corpo [mistico] di Cristo, del quale fai parte tu e il tuo prossimo, o i vostri stessi corpi che furono consacrati dal battesimo. «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? - ci domanda l'apostolo Paolo; e prosegue: «E io potrei prendere le membra di Cristo per farne membra d'una meretrice? Non sia mai!» (I Cor 6, 15). Quindi sbaglia chi dice che la fornicazione non è peccato mortale.
Ne concludiamo [anzi] che il sesto comandamento intende proibire non solo l'adulterio [e la fornicazione], ma qualunque dissolutezza carnale, fuori dell'unione matrimoniale.
Altro errore è quello di quanti affermano che i rapporti coniugali non siano mai esenti da colpa. Diversamente Paolo non direbbe: «Il matrimonio sia da tutti tenuto in onore» (Eb 13, 4). L'unione tra gli sposi dunque non soltanto non costituisce in se stessa alcuna violazione morale, ma è altresì meritoria ogni volta che gli sposi si trovino in stato di grazia. Talvolta le loro dimostrazioni d'affetto potranno comportare delle venialità, e qualche altra volta raggiungere la colpa grave (199).
Se il reciproco effondersi nell'amore si accompagna all'intento di procreare, i coniugi agiscono virtuosamente, ed è atto di giustizia rendere il debito coniugale; allorché, invece, pur non eccedendo i limiti propri del matrimonio, si abbia di mira unicamente la soddisfazione della sensualità, avremo anche un peccato veniale. Superati invece i suddetti limiti (magari sul piano della semplice fantasia), la colpa è grave.
È bene inoltre conoscere i vari motivi in base ai quali sono vietati l'adulterio e la fornicazione.

1. La vita spirituale ne riceve una ferita profonda. «L'adultero - infatti - è corto di senno: solo chi vuole rovinarsi agisce come lui» (Prv 6, 32). L'espressione della Volgata propter cordis inopiam sottolinea bene l'inaridimento della sensibilità di spirito, nell'uomo carnale.

2. Mette a rischio la stessa vita fisica, poiché stando alla legislazione mosaica, gli adulteri erano passibili della pena capitale (cf. Lv 20,10-12; cf. Dt 22, 22). E anche se attualmente un tale rischio non esiste, la cosa si risolve sempre a danno del colpevole: se infatti il massimo castigo veniva accettato con rassegnazione, otteneva al reo il perdono della colpa; invece, restando qui impunita, essa dovrà essere espiata nella vita ultraterrena.

3. Questo genere di peccati, conduce allo sperpero delle proprie sostanze: l'esempio più convincente l'abbiamo nel figliol prodigo, il quale «scialacquò tutto il suo patrimonio con una vita dissoluta» (Lc 15, 11-13). Anche il Siracide avverte: «Non abbandonarti nelle mani di una cortigiana, se non vuoi rovinare te stesso e le tue fortune» (Sir 9, 6).

4. Umilia i figli nati da una illecita unione. «I figli degli adulteri non giungeranno a maturità e sparirà il seme di un letto illegittimo; eppoi, anche se vivessero a lungo, non godranno di nessuna stima, e la loro vecchiaia sarà senza onore» (Sap 3, 16-17). Anche tra le fila del clero questi sfortunati non troveranno posto, finché sia possibile reclutare chierici privi di demerito (200).

5. La persona coinvolta nell'adulterio, e specialmente la donna, ne esce degradata. «La donna adultera sarà considerata come un rifiuto che si calpesta per la strada» (Sir 9, 10), mentre di un uomo che sia incorso nel medesimo fallo leggiamo nella Scrittura: «[L'adultero] non raccoglierà che battiture e infamia; la sua vergogna non sarà dimenticata» (Prv 6, 33). E san Gregorio [Magno] pone infine in rilievo come, pur costituendo un crimine minore rispetto ai peccati in cui prevale la perversione dell'intelligenza, tuttavia i peccati della carne rivestono un aspetto di particolare ignominia; e la ragione è semplice: essi avviliscono l'uomo al livello della bestia. L'uomo cioè, non avendo compreso a quale onore Dio l'abbia innalzato, si è abbrutito, simile nel modo di vivere agli animali inferiori (cf. Sal 48, 21).

7. «Non rubare» (Esodo 20, 15)

Con la sua legge, Dio proibisce ripetutamente il danneggiamento del prossimo: nella persona («non uccidere»), nel congiunto cui è legato da un sacro vincolo («non commettere adulterio») e, come stiamo vedendo, nei beni esteriori («non rubare»).
Il divieto si estende a qualunque sottrazione indebita, sotto qualsiasi forma.

I. Costante del furto è che lo si effettua [generalmente] di nascosto; nessuno si lascerebbe vuotare la casa, se potesse indovinare in quale momento il ladro passerà all'azione (cf. Mt 24, 43). Un modo d'agire esecrabile, il suo, che lo accomuna al tradimento; e [quando egli viene scoperto] sarà additato al pubblico disprezzo (cf. Sir 5, 17).
2. C'è però chi ruba con aperta violenza (201), e ovviamente accresce la gravità del fatto. Principi e re sono [spesso] classificabili entro questa categoria, e il profeta Sofonia adopera parole sferzanti: «Le autorità [di Gerusalemme] sono in mezzo a lei come leoni ruggenti; i suoi giudici son come lupi della sera, che non lascian niente per il mattino» (Sof 3, 3).
Essi agiscono contro i disegni del Signore, che vuol trovare rettitudine negli uomini investiti di pubblica autorità, onde poter ripetere: «E in mio nome che regnano i re e i magistrati applicano il diritto» (Prv 8, 15).
Anche costoro s'impadroniscono dei beni altrui, o nascostamente o col sopruso, facendo concorrenza ai ladri e correndo dietro ai donativi (cf. Is I, 23); oppure raggiungono i propri intenti emanando leggi [inique] e) e stabilendo tasse già destinate in partenza ad alimentare il reddito personale. Tanto che Agostino si chiede che altro siano i regni, se non latrocini su vasta scala. Di sicuro lo sono, perlomeno, le inique pubbliche amministrazioni.

3. Si ruba col trattenere il salario dovuto all'operaio. Perciò il Levitico raccomanda che la paga giornaliera del bracciante non rimanga a lungo tra le mani dell'amministratore (cf. Lv 19, 13).
È sottinteso, una volta di più, l'obbligo di dare a ciascuno il suo, si tratti [del servo o] del padrone, del chierico o del suo prelato. E l'invito alla giustizia che san Paolo rivolge a tutti: «Rendete a ognuno quanto gli è dovuto: a chi l'imposta, l'imposta; a chi la gabella, la gabella; a chi la riverenza, la riverenza; a chi l'onore, l'onore» (Rm 13, 7). Siamo tenuti infatti a versare il nostro contributo a quanti amministrano il bene comune (202).

4. A riprovazione delle [frequenti] frodi commerciali, dice il Signore: «Nella tua sacca non nascondere due pesi, uno esatto e l'altro più grande. Non avere in casa due misure, quella giusta e quella che hai manipolato» (203); «Non commettere ingiustizie... nelle misure di lunghezza, di peso e di capacità. Usate bilance giuste, fate pesi giusti, siano esatti l'efa e l'hin» (204); o ancora, tra i Proverbi: «Doppio peso è in abominio presso Dio; bilancia falsa non è cosa buona» (Prv 20, 23).
Un discorso del genere vale ovviamente per quegli osti che mescolano l'acqua al vino. E viene condannato anche l'interesse eccessivo richiesto nelle usure. L'usuraio [assieme agli altri operatori di frode] rischia d'essere escluso dal regno dei cieli (cf. Sal 14, 1). L'avvertimento riguarda banchieri e cambiavalute, che combinano imbrogli d'ogni sorta, e i venditori di panni e l'intera classe dei negozianti...
Prevedo un'obiezione: «Ma perché non dovrei esser libero di dare [a interesse] il denaro che mi è stato chiesto in prestito, come faccio quando consegno a nolo un cavallo oppure in affitto una casa?».
Ti rispondo che, se in tale genere di affari c'è peccato, esso deriva dal volersi far pagare due volte una stessa e identica cosa. Nei beni immobili infatti, o comunque alienabili, vanno distinti il bene preso in se stesso, dal suo uso. Posso perciò far pagare una quota d'affitto a chi si serve della mia abitazione, restandone io proprietario. E altrettanto dicasi in casi consimili.
Ove però esistano beni che si risolvono nell'uso dei medesimi - cioè come mezzo per effettuare gli scambi -, non ce ne possiamo servire per ricavarne un usufrutto (205). Mentre infatti usiamo il frumento impiegandolo [per la semina o l'alimentazione], il denaro esaurisce il suo ruolo nel mediare lo scambio di altri beni. Così se vendi il tuo denaro, vendi [la medesima cosa, di cui hai già ricevuto l'equivalente] due volte.
5. Nello stesso peccato [di appropriazione indebita] cadono quanti si comprano qualche carica onorifica, temporale o [peggio] di natura spirituale. Del primo caso leggiamo nella Scrittura: «Ingoiò ricchezza e la vomiterà, gliela ricaccerà dal ventre Iddio» (Gb 20, 15). I tiranni e tutta la genìa di signorotti che servendosi della violenza si sono posti a capo di un regno, di una provincia o di un feudo, sono dei ladri e in quanto tali hanno l'obbligo di restituire il maltolto.
A chi si è procacciato benefizi ecclesiastici a suon di quattrini, Gesù ha detto: «Chi non entra nell'ovile per la porta ma vi sale da un'altra parte, è ladro e brigante» (Gv 10, 1). Simoniaci, dunque, uguale a ladri.
«Non rubare». Molte le ragioni che ci devono indurre a evitare qualunque tipo di violazione del settimo comandamento.
Spesso è un autentico crimine, paragonabile all'omicidio. Dichiara Ben Sirac (206): «Uccide il prossimo chi gli sottrae il cibo, e sparge sangue chi priva l'operaio della sua mercede» (Sir 34, 25); e qualche versetto più avanti: «Un assassino e uno che campa defraudando l'operaio sono fratelli [degni l'uno dell'altro]» (Sir 34, 27).
Il furto poi comporta non pochi rischi. Forse nessun altro peccato è così pericoloso. Perché una colpa venga perdonata si richiede il pentimento e una corrispondente soddisfazione. Nella maggior parte dei casi, il pentimento sopraggiunge presto: prendi, che so, un delitto compiuto per impulso dell'ira; oppure la fornicazione, al placarsi della concupiscenza, e via dicendo.
Ora, anche ammesso che il ladro si penta, non è detto che egli sia egualmente pronto a rendere la refurtiva; e in più si aggiunga il dovere di risarcire gli eventuali danni causati al legittimo proprietario, oltre alla penitenza che gli verrà imposta per il peccato stesso... Per questo esclamava un profeta: «Guai a colui che accumula roba non sua! Quando la smetterà di affondare nella melma?» (Ab 2, 6). Dal fango denso di un pantano è difficile tirarsi fuori.
Il frutto dei latrocini si rivela sterile. Non giova certo allo spirito: «Non tornano utili i tesori di mal acquisto» (Prv 10, 2). Le ricchezze infatti producono un guadagno spirituale solo nella misura in cui vengono date in elemosina o per offrire sacrifici di culto (cf. Prv 13, 8); ma di ciò che si possiede ingiustamente sta scritto: «Io, il Signore, amo il [rispetto del] diritto, e odio la rapina che vorrebbe alimentare gli olocausti» (Is 61, 8). Analoga riprovazione la trovi in una pagina del Siracide: «Chi offre un sacrificio pagandolo col denaro dei poveri, somiglia a chi sgozza il figlio sotto gli occhi di suo padre» (Sir 34, 24).
Né ci si può illudere che giovino a lungo: «Guai a chi compie illecite rapine nella speranza di mettere in alto il suo riparo e sfuggire ai colpi della sventura!... Certo, grideranno [contro di lui] le pietre dei muri, e faranno loro eco le travi dei bastioni» (207).
«Chi accresce le sue ricchezze con usura e interessi, le accumula [non per sé ma] per chi sente pietà verso i poveri» (Prv 28, 8). In altri termini; «La ricchezza del peccatore passa nelle mani del giusto» (Prv 13, 22).
Infine, il furto cagiona un danno ai beni già posseduti [magari onestamente]: li manda in rovina, un po' come il fuoco che cade sopra la paglia. «Il fuoco divorerà la tenda dell'uomo venale» (Gb 15, 34).
E tieni presente che un ladro non danneggia solo la propria anima, ma l'esistenza dei suoi figli, obbligati spesso a rimetterci di tasca [nell'indennizzo delle vittime].

8. «Non dir falsa testimonianza contro il tuo prossimo» (Esodo 10, 16)

Dopo il divieto di nuocere al prossimo mediante azioni ingiuste, il Signore ci comanda di non fargli del male nemmeno con le parole, deponendo il falso contro di lui, sia di fronte a un giudice, sia nei rapporti abituali.
Nel corso di un processo, possono violare il precetto tre categorie di persone.
Innanzitutto, colui che accusa falsamente un altro. «Non andar seminando la diffamazione tra il tuo popolo - si legge nel Levitico - e non portare accuse infondate contro il prossimo, per attentare alla sua vita» (Lv 19, 16). Erra anche chi ha l'obbligo di parlare, e non lo fa: manca al dovere della correzione fraterna (208).
Il falso testimone non rimarrà impunito (cf. Prv 19, 5). E possono aver connessione con [la non-osservanza del]l'ottavo comandamento tutti gli altri precetti fin qui esaminati: si deforma la verità, spesso, per coprire un omicidio, un furto e via dicendo.
La pena cui essi [anticamente] andavano incontro è descritta nel Deuteronomio: «I giudici faranno una diligente inchiesta, e se troveranno che quel testimone mentisce e ha deposto il falso contro un suo fratello, trattate lui come aveva pensato di fare al fratello... Il tuo occhio non si muova a compassione: gli farai pagare vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano e piede per piede» (Dt 19, 18.19; 21).
Ed è giusto il principio, dal momento che «una mazza, una spada, un'acuta saetta è il delatore del prossimo con le sue false accuse» (Prv 25, 18).
Incorre nella medesima riprovazione la persona del giudice che si pone al servizio dell'iniquità. «Non commettere ingiustizia nel giudicare; non guardare se uno è povero e non aver preferenze per chi è grande, ma giudica con imparzialità il tuo prossimo» (Lv 19. 15).
Nel parlare quotidiano, facilmente vanno contro l'ottavo comandamento le seguenti persone.
I maldicenti. Chi sparla del prossimo non è gradito a Dio (cf. Rm I, 30), anzi gli dà disgusto poiché nulla l'uomo ha di più caro, che la propria [buona] fama. Il buon nome è meglio di un unguento prezioso o di grandi ricchezze (cf. Qo 7, 2; cf. Prv 22, 1), e i detrattori cercano di toglierceli. «Se il serpente morde prima d'essere incantato, non c'è nulla da fare per l'incantatore» (Qo 10, 11). Non provvedendo a riparare dopo aver leso in maniera grave l'altrui fama, costoro non si salvano.
Poi viene chi dà facile credito al maldicente. Raccomanda la Scrittura: «Fa siepe di spine alle tue orecchie, non ascoltare una lingua facile a dir male degli altri; e alla tua bocca metti un chiavistello» (Sir 28, 28). L'uomo [assennato] non deve ascoltare volentieri questi tali: deve anzi mostrarsi accigliato, severo. Può darsi che si ottenga quanto, figuratamente, dicono i Proverbi: come il vento di tramontana dissipa la pioggia, così un ascoltatore dallo sguardo carico di rimprovero può costituire un freno per la lingua del maldicente (cf. Prv 25, 23).
Seguono le persone pettegole, pronte a riportare tutto ciò che han raccolto in giro. Eppure «vi sono sei cose che il Signore detesta, anzi sette che il suo spirito abomina; [e quest'ultima è rappresentata da] chi semina discordie tra i fratelli» (Prv 6, 16). «Maledetto il delatore... che manda in rovina quanti vivono in pace... Un colpo di sferza produce una piaga ma un colpo di lingua guasta più a fondo» (Sir 28, 15).
Dei cortigiani [nel senso peggiorativo], ossia degli adulatori un salmo riferisce la mentalità: «Il peccatore vien lodato per i suoi progetti [infami], e l'iniquo è applaudito» (Sal 10, 3). «Bada, popolo mio, che chi ti chiama 'beato' ti sta illudendo» (Is 3, 12). Perciò il savio si augura di essere rimproverato, nei suoi errori, con misericordia; preferisce essere sgridato piuttosto che lasciarsi ungere il capo con l'olio profumato dei malvagi (cf. Sal 140, 5).
La mormorazione, per concludere, così frequente nei sudditi. La Sapienza ci esorta: «Guardatevi dalle vane mormorazioni e trattenete la lingua dalla critica facile» (Sap I, 11), tanto più che [alle volte] «un superiore si lascia piegare dalla pazienza, e una parola moderata può vincere la durezza» (Prv 25, 15).
«Non dir falsa testimonianza contro il tuo prossimo», in sintesi, proibisce ogni sorta di deformazione della verità. «Guardati dalle menzogne, perché l'avvezzarsi a questo errore non è affatto un bene» (Sir 7, 14). E ciò per quattro motivi.

I. Il mentire ci rassomiglia al diavolo. Come un uomo lo si riconosce dal suo modo di parlare, dalla particolare cadenza, tipica di una regione o di un paese (cf. Mt 26, 73), vi sono uomini che potremmo chiamare diabolici, figli del demonio, per l'enormità o la sottigliezza dei loro raggiri. Il diavolo è menzognero, padre dell'inganno, egli che per primo osò alterare la verità: «No, voi non morrete; [anzi] diventereste come Dio, acquistando la conoscenza del bene e del male» (Gn 3, 4).
Chi invece è veritiero si comporta da figlio di Dio, verità per essenza.
2. Si guastano i rapporti sociali. Sarà impossibile una pacifica convivenza qualora venga a mancare la fiducia reciproca. L'apostolo Paolo perciò fa appello alla sincerità: «Ognuno parli col prossimo senza doppiezza, giacché siamo tutti membra [del corpo mistico di Cristo]» (Ef 4, 25).

3. Ne va di mezzo oltre tutto la propria fama. Difatti non si concede facilmente credito a un uomo che racconta frottole come se niente fosse. Non gli credi neppure quando dice la verità. «Da ciò che è sporco si può ricavare qualcosa di pulito? E come ottenere, da un bugiardo, la verità?» (Sir 34, 4).

4. L'anima ne subisce detrimento. Il bugiardo, ossia una bocca menzognera, «uccide l'anima» (Sap I, 11). Tu [Signore] detesti [e ti proponi di annientare] chi trama insidie ai danni del prossimo (cf. Sal 5, 7). Non di rado, quindi, la menzogna è peccato mortale.
Si impone una valutazione morale dei diversi tipi di bugie: ve ne sono di assai gravi, ma anche di leggere.
E colpa mortale sostenere l'errore circa le verità di fede. Devono guardarsene [in particolare] i teologi, specie se in vista, e i predicatori. E la più grave, tra le alterazioni della verità, denunciata fin dal tempo dell'apostolo Pietro, che scrive: «Come ci furono in mezzo al popolo [israelitico] dei falsi profeti, ci saranno pure in mezzo a voi [cristiani] dei falsi dottori, che introdurranno con astuzia delle sette rovinose» (2 Pt 2, 1).
C'è chi sostiene il falso, per desiderio di apparire sapiente [sempre in materia di fede]. Se costoro arrivassero a burlarsi dei credenti e a mettere in ridicolo la loro osservanza (cf. Is 57, 4), potrebbero peccare anche mortalmente, assieme a chi danneggia in modo grave il prossimo, con le sue menzogne.
Altri, invece, se non dicono il vero, lo fanno senza danneggiare gli altri: ad esempio, per un senso di male intesa umiltà, nel confessarsi. Li disapprova sant'Agostino: «Come bisogna ammettere quello che uno ha compiuto, così non bisogna inventare ciò che non si è fatto». Una bugia non fa mai piacere a Dio, che non ha bisogno delle nostre favole (cf. Gb 13, 7). Egli sa bene infatti che «c'è il perverso che si umilia a bella posta, mentre ha l'animo pieno di intenzioni malvage» (Sir 19, 23). E c'è anche il giusto che eccede nell'avvilire se stesso.
Si dicono pure le bugie nel timore d'essere umiliati, come accade a chi inavvertitamente abbia affermato qualcosa di erroneo e, resosene conto, si vergogna di rettificare. Tu però «non arrossire nell'ammettere che hai sbagliato» (Sir 4, 30).
Non manca chi ricorre al raggiro onde ottenere ciò che vuole, oppure per evitarsi un castigo. Si rifugiano nella menzogna, «si sono trincerati nella frode», secondo una espressione di Isaia (Is 28, 15). Efficace una sentenza dei Proverbi: «Chi cerca di costruire sopra la menzogna, si pasce di vento» (Prv 10, 4).
Qualcuno giura il falso nel tentativo di rendersi utile verso qualche amico, per scamparlo da morte o da altra incresciosa situazione. Bisogna anche qui andar molto cauti: «Non aver riguardo di qualsiasi persona con tuo danno, [ma] neppure devi mentire a spese dell'anima tua» (Sir 4,26).
C'è chi racconta bugie solo per gioco; però bisogna starci ugualmente attenti, ché l'abitudine non conduca pian piano a violazioni gravi del comandamento. Infatti «il fascino della frivolezza oscura il bene, e nell'impeto della passione resterà travolto l'animo semplice» (Sap 4, 12).

9. «Non desiderare la casa del tuo prossimo... né il suo servo né la sua serva, né il suo bue o il suo asino, né alcun'altra cosa che appartenga al tuo prossimo» (Esodo 20, 17)

La differenza fondamentale tra legge divina e legge umana è questa: che mentre la seconda decide su parole e fatti esteriori, la prima giudica perfino i moti dell'animo. Il legislatore umano potrà valutare sempre e soltanto l'aspetto esterno d'una vicenda, invece Dio vede ogni cosa di fuori e di dentro. Non sbaglia Davide nel chiamarlo: «Dio del mio cuore» (Sal 72, 26). L'uomo si ferma alle apparenze, ma Dio scruta in fondo all'animo (cf. 1 Sam 16, 7).
Vedremo adesso perciò un comandamento che riguarda i pensieri, gli affetti e i desideri del cuore umano. Agli occhi di Dio, acquista valore morale anche una semplice intenzione. Quindi egli ci proibisce non solo di sottrarre al prossimo la roba che gli appartiene, ma anche di considerarla nostra bramandola ardentemente. E i motivi [che ispirano un tale precetto] sono tanti.

1. La concupiscenza è insaziabile. Una sorta di appetito senza fine. L'uomo saggio però deve prefiggersi un limite in tutto, essendo inoltre un'assurdità avviarsi per una strada che non ha termine. «Chi ama il danaro, mai di danaro è sazio» (Qo 5, 9), e avuta una casa se ne sognerà una seconda, ci si vorrà impadronire con ogni mezzo di un terreno da aggiungere agli altri possedimenti, divenendo da soli i proprietari di un mezzo paese (cf. Is 5, 8).
L'unica spiegazione che dia un perché a tanta insaziabilità sta nel fatto che l'animo umano è stato adeguato a ricevere Dio. «Ci hai fatti per te, Signore - esclama sant'Agostino -, e il nostro cuore sarà irrequieto fin quando non si abbandonerà in te». Tutto ciò che non è Dio, non può essere sufficiente a colmare questo vuoto interiore. «Soltanto lui sazia di beni ogni tuo anelito» (Sal 102, 5).

2. Questa brama continua, ci priva della quiete, di cui abbiamo tanto bisogno. Chi già possiede qualcosa, nutre in sé la cupidigia di acquistare dell'altro, e sta continuamente all'erta per custodire i suoi beni. «La sazietà del ricco non lo lascia dormire» (Qo 5, 11), poiché il suo cuore veglia accanto ad essi (cf. Mt 6, 21). Non per nulla, Cristo ha paragonato le ricchezze alle spine [delle preoccupazioni] di cui ha scritto l'evangelista (cf. Lc 8, 14), come osserva san Gregorio.

3. La cupidigia svilisce le ricchezze, dal momento che l'avaro, nel timore di perderle non le utilizza: né per sé, né [tanto meno] a favore del prossimo. Tutto consiste nel tenerle sottochiave. A che altro infatti gli servono i tesori? (cf. Sir 14, 3).

4. Rende difficile l'esercizio dell'equità e della giustizia (209). La raccomandazione che possiamo leggere nell'Esodo vale sempre e per chiunque: «Non accettare regali; poiché il regalo acceca anche coloro che hanno la vista chiara e perverte le parole dei giusti» (Es 23, 8). Infatti chi è condizionato dai doni che riceve, non resterà imparziale (cf. Sir 31, 5).

5. Soffoca la carità verso i bisogni altrui. Sant'Agostino ha sottolineato il rapporto che esiste tra amore del prossimo e amor del denaro: più è forte quest'ultimo, più si attenua il precedente; e viceversa. «Non cambiate un amico per un po' di denaro, e un fratello [nemmeno] per l'oro di Ofir» (210). Altrettanto vale a proposito della carità verso Dio: come non si può servire nel medesimo tempo a due padroni, così neppure e al Signore e alle ricchezze (cf. Mt 6, 24).

6. In conclusione [l'avidità] è fonte di svariati errori, radice di tutti i mali, fino a condurre al furto, all'omicidio e a crimini anche peggiori (cf. I Tm 6, 10). Scrive san Paolo: «Contentiamoci di poco; poiché quelli che vogliono arricchire, cadono nella tentazione [di agire senza scrupoli], nel laccio del diavolo, [ossia] in molti desideri inutili e nocivi, che travolgono gli uomini nella rovina e nella perdizione» (I Tm 8-9).
Nota che la cupidigia si configura quale colpa grave se l'invidiare l'altrui benessere non ha attenuanti di sorta, che lo renderebbero meno grave.

10. «Non desiderare la donna del tuo prossimo» (Esodo 20, 17)

Nella sua prima lettera, san Giovanni ha scritto che «tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, licenziosità degli occhi e superbia di vita» (I Gv 2, 16). L'oggetto dei nostri desideri rientra sempre in questa sfera; e già due di tali fomiti [ossia l'insaziabilità degli sguardi e il desiderio smodato di primeggiare] risultano proibiti dal nono comandamento: «Non desiderare la casa [o altre proprietà] del tuo prossimo». Infatti una residenza [sontuosa o, almeno, vasta] viene considerata dagli uomini quale espressione di grandezza, cioè di quell'appetito di denaro e di gloria di cui parla il salmo 111 (cf. Sal 111, 3). Non si desidera una bella casa senza vagheggiare insieme una posizione privilegiata.
Quindi, dopo il divieto di porre gli occhi sugli splendidi palazzi altrui e di invidiarne gli onori, segue quest'altro, che intende raffrenare i desideri carnali. «Non desiderare la donna del tuo prossimo».
In seguito al peccato originale, nessuno, oltre al Cristo e alla Vergine Maria, sfugge ai richiami della concupiscenza. L'acconsentirvi non è mai una scelta morale indifferente: come minimo comporta qualche venialità e, se arriva a dominarci, allora la colpa è grave. «Non regni il peccato nel vostro corpo destinato alla morte, divenendo schiavi delle sue concupiscenze» (Rm 6, 12). L'apostolo Paolo non si fa illusioni, conosce bene e ammette la presenza della sensualità nelle proprie membra (211).
Il peccato si impossessa dell'uomo quando la concupiscenza gli occupa il cuore, mediante il consenso. Allora diveniamo schiavi dei piaceri (cf. Rm 6, 12). In concreto, «chiunque avrà guardato una donna, per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei, nel suo cuore» (Mt 5, 28), poiché Dio, in una intenzione volontaria, vede il germe dell'azione.
Poi traduce in parole i pensieri che ha coltivato nell'animo. La bocca infatti «parla per la sovrabbondanza del cuore» (212); di qui il richiamo di Paolo: «Dalle vostre labbra non esca alcun cattivo discorso...; qualunque amarezza e animosità, e arroganza, maldicenza e ogni sorta di malizia sia rimossa da voi» (Ef 4, 29).
Non è senza responsabilità morale il comporre canzoni vane, perfino secondo antichi saggi pagani, tanto che si giunse a mettere al bando dalle città gli autori di poesie erotiche.
Passa infine all'azione, asservendo le membra ai propositi della concupiscenza, ossia alla schiavitù della carne (cf. Rm 6, 19).
Per non cadere in questo genere di peccato bisognerà impegnarsi seriamente, trattandosi di un'insidia latente; ed è sempre un'ardua impresa spuntarla su un nemico che ti si nasconde in casa.
Vi sono tuttavia diversi sistemi per riuscirvi.

I. Fuggire le occasioni che puoi avere attorno, le amicizie pericolose e tutto ciò che fortuitamente potrebbe facilitare la resa. Quindi «non fissare una vergine, per non restare affascinato dalla sua avvenenza... Non guardare a destra e a sinistra per le vie della città [sempre per la suddetta ragione], girellando per le piazze. Distogli i tuoi occhi da una donna formosa e non fissare una bellezza che non ti appartiene. Molti si sono traviati per una donna piacente: il desiderio divamperebbe, come un incendio» (Sir 9, 5-9). «E’ mai possibile - si legge nei Proverbi - mettersi il fuoco in grembo e non bruciarsi le vesti?... Tale è colui che vuol godere la donna del prossimo: chiunque la tocca non resterà senza danno» (Prv 6, 27-29). Perciò fu giusto l'ordine impartito a Lot, di allontanarsi dai dintorni della regione [maledetta] (213).

2. Non dar adito ai pensieri che forniscono incentivo al risveglio della concupiscenza. Ci si riesce mortificando i sensi. In base alla propria esperienza, l'apostolo Paolo poteva scrivere: «Castigo il mio corpo. e lo tratto come uno schiavo» (I Cor 9, 27).

3. Insistere nella preghiera, dal momento che «se non è il Signore a custodire la città, faticano inutilmente quelli che vogliono custodirla» (Sal 126, 1). «Ho capito che non potrei serbarmi casto, se Dio non mi dà grazia» (Sap 8, 21). E insomma quel genere di «demoni» che «non si può scacciare altro che con la preghiera e col digiuno» (Mt 17, 20). Se ti trovassi di fronte a due che si stanno affrontando e tu vuoi aiutare uno di loro, mentre dai una mano a quest'ultimo, devi negare al primo qualunque appoggio. Ora, tra la carne e lo spirito c'è una guerra incessante; perciò, se vuoi la vittoria dello spirito, bisogna che tu gli dia il soccorso necessario: e lo fai mediante la preghiera. Bisogna anche fiaccare la ribellione dei sensi: e a ciò provvede il digiuno, che frena [gli eccessi del] la carne.

4. Farsi trovare sempre impegnato in qualche buona faccenda, poiché «l'ozio è il maestro d'ogni sorta di mali» (Sir 33, 29) e, come spiega Ezechiele, «questa fu la colpa di Sodoma: superbia, sovrabbondanza di cibo e lo star senza far nulla» (Ez 16, 49). San Girolamo raccomanda [in una lettera a Paolino] (214): «Fa' sempre qualcosa di buono, affinché il diavolo ti trovi già occupato». Tra tutte, la migliore occupazione consiste nello studio della Bibbia; e prosegue, il santo: «Ama lo studio della Scrittura; non troverai allora tanto incantevoli le depravazioni della carne».
Possiamo ormai concludere. Abbiamo preso in esame il decalogo, di cui il Signore [rispondendo a un giovane che lo aveva interrogato] disse: «Se vuoi entrare nella vita [eterna], osserva i comandamenti» (Mt 19, 17).
Alla radice dei singoli precetti troverai sempre l'amore verso Dio e quello verso il prossimo.
All'uomo che vuole amare Dio si impongono tre doveri: non avere altre deità (perciò sta scritto: «Non adorerai gli dèi stranieri»). Al vero Dio va reso il dovuto onore, quindi «non nominare invano il suo nome». Trova in lui, di buon grado, il tuo ristoro: «Ricordati del giorno di riposo, per santificarlo».
Per mostrare poi al prossimo un amore autentico, l'uomo deve esercitare la riconoscenza [specie nei confronti dei principali benefattori]: «Onora tuo padre e tua madre»; non danneggiarne la persona fisica: «Non uccidere»; né fare oltraggio alle persone che a lui sono care: «Non commettere adulterio»; o portargli via i beni di fortuna: «Non rubare». Non deve fargli del male con le parole - [soprattutto] «non dire falsa testimonianza» -, e neppure con desideri illeciti. Perciò «non desiderare né la roba né la donna del tuo prossimo».