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sabato 17 novembre 2012

"La missione è un Fatto che posso incontrare adesso mentre scrivo: Gesù di Nazareth!"



INTERVISTA A PADRE ALDO TRENTO
Paraguay, si riparte dalle «riduzioni»



​Tempo fa Piero Gheddo, decano dei missionari-giornalisti, dedicò ad Augusto Gianola, prete del PIME di stanza in Brasile capace di avvincere un cronista di lungo corso come Enzo Biagi, un’appassionante biografia, In missione per cercare Dio. Per padre Aldo Trento, missionario da diversi anni in Paraguay, membro della Fraternità San Carlo Borromeo fondata da monsignor Massimo Camisasca, si potrebbe vergare una biografia dal titolo assonante, In missione per trovare Dio. Perché stato proprio nella terra dei guaranì, immortalati nel celebre film Mission di Roland Joffé, che il sacerdote bellunese ha scoperto e "incocciato" il volto di Dio. Oggi ad Asunciòn padre Trento guida la clinica San Riccardo Pampuri al cui interno si trova il primo hospice di tutto il territorio paraguagio. Alle vicende dei suoi malati padre Trento ha dedicato il suo recente libro Rio sole. Cronache di "santi" dal Paraguay (Ares, pp. 256, euro 15), curato dal giornalista di “Famiglia cristiana” Alfredo Tradigo e impreziosito dalle fotografie di Nino Leto. Padre Trento si trova in Italia in questi giorni per alcuni incontri: domani alle 21 all’auditorium di Casatenovo presenta il suo libro insieme a Camillo Candia, di Gruppo Zurich Italia; giovedì 22 novembre parlerà a Seregno.

Padre Trento, nel suo raccontare traspare il dettato evangelico "l’avete fatto a me…"
«Negli ultimi otto anni abbiamo accompagnato a morire più di mille persone indigenti e molto ammalate. Accompagnare significa vedere nel paziente non un "malato" ma Cristo stesso. È così chiara per me questa verità che non distinguo più il Cristo che soffre dal Cristo che "domina" la clinica e che è Gesù Eucaristia. Il fatto che nessun paziente muoia disperato e che invece affronti la morte con una fortezza unica costituisce il frutto stesso dell’Eucaristia che incontro nel Cristo che soffre di cancro o di Aids».

Lei racconta di come i guaranì le abbiano insegnato a "trattare" la morte. Cosa le hanno trasmesso?



«Per loro la vita come la morte fanno parte dell’unico ciclo che è la vita tutta intera. Quando chiedo  ad un ammalato grave  come sta, lui mi risponde "muy bien": e molto spesso è in fin di vita! Una cosa che mi commuove è  vedere, quando celebro la Messa per la persona appena defunta, gli altri ammalati gravi; se appena possono muoversi, assistono alla funzione, coscienti che il giorno dopo potrebbe benissimo toccare a loro morire. La cultura paraguaiana ancora viva nei paesi di campagna guarda al dolore e alla morte come parte integrante della vita. Per questo è bello e sorprendente notare che, mentre portiamo la bara in chiesa, passando di fianco alla pizzeria (dove c’è gente che mangia o bambini che giocano), nessuno si intimorisce. Anzi, tutti si alzano in piedi e i bambini si fermano dai loro giochi e schiamazzi e guardano».

Il suo impegno missionario si rifà esplicitamente all’esperienza delle reducciones dei gesuiti dei secoli. Perché? 



«Come per loro, anche per me l’unica ragione della missione è quella di vivere per annunciare Gesù. La grande opera e ragion d’essere di quegli uomini è stata solo di vivere  "ad maiorem Dei gloriam". Così, umilmente, lo è anche per me. Tutto il resto è la conseguenza di questa passione per Cristo che si esprime poi in passione per l’umanità di ogni persona che incontro. La storia delle reducciones è solo l’evidenza di cosa accade quando uno vive e vibra solo per Gesù; è lui che "ha fatto" e continua a fare, tenendo in piedi quest’opera che vive solo grazie alla Sua Divina Provvidenza. Ieri come oggi, il ricco come il povero hanno solo bisogno di sperimentare la convenienza della fede per la propria vita. Quindi il problema di cui gli antichi gesuiti son testimoni si può riassumere così: "La missione è un Fatto che posso incontrare adesso mentre scrivo: Gesù di Nazareth!". Senza questa certezza che nasce dalla propria carne afferrata da Gesù, diventiamo costruttori di rovine».

Nel suo libro si trova una bellissima definizione del cristianesimo: "La vita eterna, fin da ora". Cosa significa questo in un contesto come quello della sua missione?



«In Paraguay, in questi ultimi anni, il potere politico è stato occupato e permeato da una corrente della teologia della liberazione, guidata da un vescovo poi diventato presidente della Repubblica. La gente lo ha votato perché lo ha percepito come un nuovo Messia. Ma questo mi fa capire che l’unica cosa urgente è che esistano uomini, donne, pastori innamorati di Gesù. Constato tristemente che per tanti di noi questa coscienza è ancora lontana, con l’esito che in molti hanno abbandonato la Chiesa e sono passati alle sètte. Invece il cristianesimo autentico non nasce né dalla politica né dall’economia, ma solo da Gesù, che nel mio caso ha preso totalmente la mia vita, mi ha fatto Suo, usandomi come uno strumento per mostrare al mondo la sua misericordia, in particolare per quanti vivono abbandonati, soli o sui marciapiedi. La nostra clinica è come un porto di mare dove approda "ciò" che per il mondo è solo spazzatura».

Lorenzo Fazzini
AMDG et BVM

lunedì 22 ottobre 2012

San Antonio María Claret (1807-1870): "San Antonio María Claret fue un alma grande, nacida como para ensamblar contrastes: pudo ser humilde de origen y glorioso a los ojos del mundo. Pequeño de cuerpo, pero de espíritu gigante. De apariencia modesta, pero capacísimo de imponer respeto incluso a los grandes de la tierra. Fuerte de carácter, pero con la suave dulzura de quien conoce el freno de la austeridad y de la penitencia. Siempre en la presencia de Dios, aún en medio de su prodigiosa actividad exterior. Calumniado y admirado, festejado y perseguido. Y, entre tantas maravillas, como una luz suave que todo lo ilumina, su devoción a la Madre de Dios" (Papa Pio XII)






San Antonio María Claret

Fiesta: 24 de octubreObispo de Santiago de Cuba, fundador
Patrón de tejedoresVisite
Sallent ciudad natal y Vic donde fundó

"Haz, Señor, que ardamos en caridad
y encendamos un fuego de amor por donde pasemos;
qué deseemos eficazmente
y procuremos por todos los medios
contagiar a todos de tu amor.
Qué nada ni nadie nos arredre, Señor.
Qué nos gocemos en las privaciones.
Qué abordemos los trabajos,
qué abracemos los sacrificios.
Qué nos complazcamos en las calumnias
y alegremos en los tormentos.
Señor, qué no pensemos sino como seguir e imitar a Jesucristo
en trabajar, sufrir y procurar siempre y únicamente la mayor gloria tuya y la salvación de las almas. Amén."


 En Breve
-Nació en la villa de Sallent, provincia de Barcelona, el día 23 de diciembre de 1807.
-Fue obrero textil en su juventud.
-Ordenado sacerdote, fundó en Vic la Orden de los Claretianos.
-Recorió Cataluña durante varios años predicando.
-Fundó la Congregación de Misioneros Hijos del Inmaculado Corazón de María.
-Fue nombrado arzobispo de Santiago de Cuba, cargo en el que se entregó de lleno al bien de las almas.

-Como arzobispo de Santiago de Cuba se destacó por su celo evangelizador por lo que recorrió toda su diócesis y sufrió un atentado contra su vida.
-Habiendo regresado a España, sus trabajos por el bien de la Iglesia le proporcionaron aún muchos sufrimientos.
-Confesor de la Reina Isabel II de España
-Unico santo canonizado entre los padres conciliares del Concilio Vaticano I.
-Escritor evangélico, especialmente de folletos de fácil alcance para todos (jóvenes, trabajadores, casados)
-Demostró un amor excepcional por la Eucaristía la cual conservaba en su corazón como tabernáculo
-Gran devoto de la Santísima Virgen.
-Patrón de las cajas de ahorro, ya que fundó una en Cuba en beneficio de los pobres.
-Sus experiencias místicas lo llevaron a levitar (alzarse del suelo)
- Murió en Fontfroide (Francia) el año 1870.

Cuando le preguntaron como era capaz de hacer tanto respondió:
"Enamoraos de Jesucristo y del prójimo y lo comprenderéis todo y haréis mas cosas que yo"



"VIDA DE SAN ANTONIO Maria CLARET"
Infancia:
Antonio Claret y Clará nació en Sallent (Barcelona, España) el 23 de diciembre de 1807. Era el quinto de once hijos de Juan Claret y Josefa Clará. Le bautizaron el día de Navidad. La escasa salud de su madre hizo que se le pusiera al cuidado de una nodriza en Santa María de Olot. Una noche en que Antonio se quedó en la casa paterna se hundió la casa de la nodriza muriendo todos en el accidente. Para Claret aquello supuso siempre una señal de la providencia.
La cuna de Claret fue sacudida constantemente por el traqueteo de los telares de madera que su padre tenía en los bajos de la casa. Ya desde sus primeros años Antonio dio muestras de una inteligencia y de buen corazón. A los cinco años, pensaba en la eternidad: por la noche, sentado en la cama, quedaba impresionado por aquel "siempre, siempre, siempre". El mismo recordaría estas palabras, más tarde, siendo Arzobispo:

"Esta idea de la eternidad quedó en mí tan grabada, que, ya sea por lo tierno que empezó en mí o ya sea por las muchas veces que pensaba en ella, lo cierto es que es lo que más tengo presente. Esta misma idea es la que más me ha hecho y me hace trabajar aún, y me hará trabajar mientras viva, en la conversión de los pecadores" (Aut. nº 9)
La guerra popular contra Napoleón embargaba vivamente el ambiente de la época. Sus soldados pasaban frecuentemente por la villa entre los años 1808 y 1814. Hasta los sacerdotes del pueblo se habían sumado a la lucha. En 1812 se promulgaba la nueva Constitución.
Mientras, Antonio jugaba, estudiaba, crecía... Dos amores destacaban ya en el pequeño Claret: la Eucaristía y la Virgen. Asistía con atención a la misa; dejaba momentáneamente el juego para visitar a Jesús en la iglesia siempre que no ocasionara molestias a sus compañeros; iba con frecuencia, acompañado de su hermana Rosa, a la ermita de Fusimaña y rezaba diariamente el rosario.
Una debilidad de Antonio eran los libros. Se los devoraba. Pocas cosas contribuyeron tanto a la santidad de Antonio como sus lecturas, las primeras lecturas de su infancia. Porque sus lecturas eran escogidas. Pero ya entonces Antonio tenía una ilusión: llegar a ser sacerdote y apóstol. Sin embargo, su vocación debería recorrer todavía otro itinerario.


Entre los Telares:
Toda su adolescencia la pasó Antonio en el taller de su padre. Pronto consiguió llegar a ser maestro en el arte textil. Para perfeccionarse en la fabricación pidió a su padre que le permitiera ir a Barcelona, donde la industria estaba atrayendo a numerosos jóvenes. Allí se matriculó en la Escuela de Artes y Oficios de la Lonja. Trabajaba de día, y de noche estudiaba. Aunque seguía siendo un buen cristiano, su corazón estaba centrado en su trabajo. Gracias a su tesón e ingenio llegó pronto a superar en calidad y belleza las muestras que llegaban del extranjero. Un grupo de empresarios, admirados de su competencia, le propusieron un plan halagüeño: fundar una compañía textil corriendo a cuenta de ellos la financiación y el montaje de la fábrica. Pero Antonio, inexplicablemente, se negó. Dios andaba por medio.

Unos cuantos hechos le hicieron más sensible el oído a la voz de Dios.


a) Un amigo a quien estimaba mucho tenía el grave vicio del juego. Llegó a robarle sus ahorros para jugarlos y cuando los perdió, desesperado robó una joyas valiosas, las cuales también perdió en el juego. La policía siguiendo el rastro de las joyas dio con él y lo encarceló; todos comenzaron a calumniar a Antonio, diciendo que era cómplice de su amigo. Esta experiencia empezó a crear en su corazón un disgusto por el mundo, las amistades y las riquezas.

b) El segundo hecho que le ocurrió fue estando un día con unos amigos en la playa, metió los pies para refrescarse en el agua, y de pronto una ola gigantesca lo arrastró hacia mar adentro, y Antonio que no sabía nadar se estaba ahogando. De sus labios solo salió un grito "Virgen Santa, salvadme" , y sin saber cómo, Antonio estaba en la orilla, sano y salvo y para colmo sus vestidos secos totalmente.

c) El tercer hecho fue el que le ocurrió al ir a visitar a un amigo a su casa. Cuando llegó, el amigo no se encontraba y quien estaba en casa era la esposa. Ella, dándose cuenta de la gallardía de Antonio, quedó cegada con un amor indigno y le dijo: "Antonio, ¡qué diferente eres de mi esposo, siempre agrio y despectivo! Quisiera que fuéramos buenos amigos".

Claret huye de la tentación. "Señora, vuestro esposo tarda y tengo mucho que hacer..." Ella intentó detenerle, pero en vano. Antonio se deshace de ella para no volver más.

Por fin, las palabras del Evangelio: "¿De qué le vale al hombre ganar todo el mundo si pierde su alma?", le impresionaron profundamente.
Los telares se pararon en seco, y Antonio se fue a consultar a los oratorianos de San Felipe Neri. Por fin tomó la decisión de hacerse cartujo y así se lo comunicó a su padre. Su decisión de ser sacerdote llegó a oídos del obispo de Vic D. Pablo de Jesús Corcuera que quiso conocerle. Antonio salía de Barcelona a principios de septiembre de 1829 camino de Sallent y Vic. Tenía 21 años y estaba decidido a ser sacerdote.


En el Seminario
En el seminario de Vic, forja de apóstoles, Claret se formó como seminarista externo viviendo como fámulo de Don Fortià Bres, mayordomo del palacio episcopal. Pronto iba a destacar por su piedad y por su aplicación. Eligió como su confesor y director al oratoriano P. Pere Bac. Después de un año llegó el momento de llevar a cabo su decisión de entrar en la cartuja de Montealegre, y hacia allí salió, pero una tormenta de verano que lo sorprendió en el camino dio al traste con sus planes. Tal vez Dios no le quería de cartujo. Dio media vuelta y retornó a Vic.
Este hecho nos muestra la apertura tan grande de San Antonio a las inspiraciones del Espíritu Santo y a las obras y señales de Dios.

Al siguiente año, Antonio pasó la prueba de fuego de la castidad en una tentación que le sobrevino un día en que yacía enfermo en la cama. Vio que la Virgen se le aparecía y, mostrándole una corona, le decía: "Antonio, esta corona será tuya si vences". De repente, todas las imágenes obsesivas desaparecieron. Siempre la Virgen Santísima sale a la defensa y auxilio de sus hijos.
Bajo la acertada guía del obispo Corcuera el ambiente del Seminario era óptimo. En él trabó amistad con Jaime Balmes, que se ordenaría de Diácono en la misma ceremonia en que Claret se ordenó de Subdiácono. Fue en esta época cuando Claret entró en un profundo contacto con la Biblia, que le impulsaría a un insaciable espíritu apostólico y misionero.


Sacerdote:
A los 27 años, el 13 de junio de 1835, el obispo de Solsona, Fray Juan José de Tejada, ex-general de los Mercedarios, le confería, por fin, el sagrado orden del Presbiterado, junto con otros compañeros seminaristas. Su primera misa la celebró en la parroquia de Sallent el día 21 de junio, con gran satisfacción y alegría de su familia. Su primer destino fue precisamente Sallent, su ciudad natal.

A la muerte de Fernando VII la situación política española se había agravado. Los constitucionales, imitadores de la Revolución francesa, se habían adueñado del poder. En las Cortes de 1835 se aprobaba la supresión de todos los Institutos religiosos. Se incautaron y subastaron los bienes de la Iglesia y se azuzó al pueblo para la quema de conventos y matanza de frailes. Contra este desorden pronto se levantaron las provincias de Navarra, Cataluña y el País Vasco, estallando la guerra civil entre carlistas e isabelinos.

Pero Claret no era político. Era un apóstol. Y se entregó en cuerpo y alma a los quehaceres sacerdotales a pesar de las enormes dificultades que le suponía el ambiente hostil de su ciudad natal. Su caridad no tenía límites. Por eso, los horizontes de una parroquia no satisfacían el ansia apostólica de Claret. Consultó y decidió ir a Roma a inscribirse en "Propaganda Fide", con objeto de ir a predicar el Evangelio a tierras de infieles... Corría el mes de septiembre de 1839. Tenía 31 años.

En Roma busca su identidad misionera:
Con un hatillo y sin dinero, a pie, un joven cura atravesó los Pirineos camino de la ciudad eterna. Llegado a Marsella tomó un vapor a Roma. Ya en la ciudad eterna, Claret hizo los ejercicios espirituales con un padre de la Compañía de Jesús. Y se sintió llamado a ingresar como novicio jesuita; había ido a Roma para ofrecerse como misionero del mundo, pero Dios parecía no quererle ni misionero "ad gentes" ni tampoco jesuita. Una enfermedad -un fuerte dolor en la pierna derecha- le hizo comprender que su misión estaba en España. Después de tres meses abandonó el noviciado por consejo del P. Roothaan.
Regresado a España, fue destinado provisionalmente a Viladrau, pueblecito entonces de leñadores, en la provincia de Gerona. En calidad de Regente (el párroco era un anciano impedido) emprendió su ministerio con gran celo. Tuvo que hacer también de médico, porque no lo había ni en el pueblo ni en sus contornos, utilizando yerbas y ungüentos medicinales para aliviar las penas de los que venían a verle.


Misionero Apostólico en Cataluña:
Como Claret no había nacido para permanecer en una sola parroquia, su espíritu le empujó hacia horizontes más vastos. En julio de 1841, cuando contaba con 33 años recibió de Roma el título de Misionero Apostólico. Por fin era alguien destinado al servicio de la Palabra, al estilo de los apóstoles. Esta clase de misioneros había desaparecido desde San Juan de Avila. A partir de entonces su trabajo fue misionar. Vic iba a ser su residencia. Claret, siempre a pie, con un mapa de hule, su hatillo y su breviario, caminaba por la nieve o en medio de las tormentas, hundido entre barrancos y lodazales. Se juntaba con arrieros y comerciantes y les hablaba del Reino de Dios. Y los convertía. Sus huellas quedaron grabadas en todos los caminos. Las catedrales de Solsona, Gerona, Tarragona, Lérida, Barcelona y las iglesias de otras ciudades se abarrotaban de gente cuando hablaba el P. Claret.

Caminando hacia Golmes le invitaron a detenerse porque sudaba; él respondía con humor: "Yo soy como los perros, que sacan la lengua pero nunca se cansan".

"Padre, confiese a mi borrico" -le dijo un arriero con tono burlón. "Quien se ha de confesar eres tú -respondió Claret- que llevas 7 años sin hacerlo y te hace buena falta". Y aquel hombre se confesó.
En otra ocasión sacó de apuros a un pobre hombre, contrabandista, convirtiendo en alubias un fardo de tabaco ante unos carabineros que les echaron el alto. La mayor sorpresa se la llevó el buen hombre cuando, al llegar a su casa, observó que el fardo de alubias se había convertido de nuevo en tabaco. Son algunas de las "florecillas claretianas" de aquella época.
Otros hechos prodigiosos se cuentan, pero sobre todo se destacaba su virtud de penetrar las conciencias. Tenía enemigos que le calumniaban y que procuraban impedir su labor misionera teniendo que salir en su defensa el arzobispo de Tarragona. Pero su temple era de acero. Todo lo resistía y salía airoso de todas las emboscadas que le tendían.
Además de la predicación, el P. Claret se dedicaba a dar Ejercicios Espirituales al clero y a las religiosas, especialmente en verano. En 1844 , por ejemplo, los daba a las Carmelitas de la Caridad de Vic, asistiendo a ellos Santa Joaquina Vedruna.
Durante este tiempo también publicó numerosos folletos y libros. De entre ellos cabe destacar el "Camino Recto", publicado en 1843 por primera vez y que sería el libro de piedad más leído del siglo XIX. Tenía 35 años. En 1847 fundaba junto con su amigo José Caixal, futuro obispo de Seu D'Urgel y Antonio Palau la "Librería Religiosa". Ese mismo año fundaba la Archicofradía del Corazón de María y escribía los estatutos de La Hermandad del Santísimo e Inmaculado Corazón de María y Amantes de la Humanidad, compuesta por sacerdotes y seglares, hombres y mujeres.


Apóstol de las Islas Canarias: ( marzo 1848 - mayo 1849)
El 6 de marzo de 1848 salía de Cádiz para las islas Canarias con el recién nombrado obispo D. Buenaventura Codina. Tenía 40 años. Y es que tras la nueva rebelión armada de 1847 ya no era posible dar misiones en Cataluña. Desde el Puerto de la Luz de Gran Canaria hasta los ásperos arenales de Lanzarote resonó la convincente voz de Claret. Misionó Telde, Agüimes, Arucas, Gáldar, Guía, Firgas, Teror... El milagro de Cataluña se repitió de nuevo. Claret tuvo que predicar en las plazas, sobre los tablados, al campo libre, entre multitudes que lo acosaban. A pesar de una pulmonía no cesó en su intenso trabajo. En Lanzarote da misiones en Teguise y Arrecife.
Gastó 15 meses de su vida en las Canarias, y dejó atrás conversiones, prodigios, profecías y leyendas. Los canarios vieron partir con lágrimas en los ojos un día a su "padrito" y lo despidieron con añoranza. Era en los últimos días de mayo de 1849. Aún perdura su recuerdo.

"Estos canarios me tienen robado el corazón... será para mí muy sensible el día en que los tendré que dejar para ir a misionar a otros lugares, según mi ministerio" (Carta al obispo de Vic, 27 de sept.).
S. Antonio M. Claret es Copatrono de la Diócesis de Canarias junto con la Virgen del Pino.


Fundador y director espiritual
Poco después, el 16 de julio de 1849, a las tres de la tarde en una celda del seminario de Vic fundaba San Antonio María Claret la Congregación de los Misioneros Hijos del Inmaculado Corazón de María. Tenía 41 años. Eran los Cofundadores los PP. Esteban Sala, José Xifré, Manuel Vilaró, Domingo Fábregas y Jaime Clotet.

"Hoy comienza una gran obra" -dijo el P. Claret.
¿Cómo serán los Hijos del Inmaculado Corazón de María?

"Un hijo del Inmaculado Corazón de María es un hombre que arde en caridad y que abrasa por donde pasa; que desea eficazmente y procura por todos los medios encender a todo el mundo en el fuego del divino amor. Nada le arredra; se goza en las privaciones; aborda los trabajos; abraza los sacrificios; se complace en las calumnias y se alegra en los tormentos. No piensa sino cómo seguirá e imitará a Jesucristo en trabajar, sufrir y en procurar siempre y únicamente la mayor gloria de Dios
y la salvación de las almas"

El Padre Claret sabía que era impulsado por Dios; y

Dios le reveló tres cosas:

1) Que la Congregación se extendería por todo el mundo.
2) Que duraría hasta el fin de los tiempos.
3) Que todos los que murieran en la Congregación se salvarían.

En la espléndida floración de nuevos institutos religiosos que se operó en el siglo XIX, fue el confesor real el más decidido colaborador que se encontraron casi todos los fundadores y fundadoras de su tiempo. Con la Madre París ya había fundado en Cuba el año 1855 el Instituto de Religiosas de María Inmaculada, llamadas misioneras claretianas, para la educación de las niñas.
Bajo su dirección espiritual se incluyen Santa Micaela del Santísimo Sacramento, fundadora de las Adoratrices, y Santa Joaquina de Vedruna, fundadora de las Carmelitas de la Caridad.
Intervino directa o indirectamente en otras fundaciones. Se relacionó con Joaquím Masmitjà, fundador de las Hijas del Santísimo e Inmaculado Corazón de María, con D. Marcos y Dña. Gertrudis Castanyer fundadores de las Religiosas Filipenses, con María del Sagrado Corazón fundadora de las Siervas de Jesús, con Ana Mogas fundadora de las Franciscanas de la Divina Pastora. Le encontramos con Fracesc Coll fundador de las Dominicas de la Anunciata. También tuvo parte en la fundación de las Esclavas del Corazón de María, de la M. Esperanza González. Y habría que añadir su influjo en la Compañía de Santa Teresa, Religiosas de Cristo Rey, etc.
Todas estas instituciones nacieron o germinaron gracias al P.Claret.


Arzobispo de Santiago de Cuba: (1851-1857)
Un hecho de capital importancia puso pronto en peligro su recién fundado Instituto. El P. Claret era nombrado Arzobispo de Santiago de Cuba. Aceptó el cargo después de todos los intentos de renuncia el 4 de octubre de 1849 y el día 6 de octubre de 1850 era consagrado obispo en la catedral de Vic. Tenía 42 años. Antes de embarcarse para Cuba y después de ir a Madrid a recibir el palio y la gran cruz de Isabel la Católica efectuó tres visitas: a la Virgen del Pilar, en Zaragoza, a la Virgen de Montserrat y a la Virgen de Fusimaña, en Sallent, su Patria chica. Y aún le dio tiempo, antes de partir, para fundar las "Religiosas en sus Casas o las Hijas del Inmaculado Corazón de María, actual Filiación Cordimariana." En el puerto de Barcelona un inmenso gentío despidió al Arzobispo Claret con una apoteósica manifestación.
En el viaje hacia La Habana aprovechó para dar una misión a bordo para todos los pasajeros, oficialidad y tripulación. Y al fin... Cuba. Seis años gastaría Claret en la diócesis de Santiago de Cuba, trabajando incansablemente, misionando, sembrando el amor y la justicia en aquella isla en la que la discriminación racial y la injusticia social reinaban por doquier.
Fue un Arzobispo evangelizador por excelencia. Renovó todos los aspectos de la vida de la iglesia: sacerdotes, seminario, educación de niños, abolición de la esclavitud... En cinco años realizó cuatro veces la visita pastoral de la diócesis. El pueblo de Baracoa, por ejemplo, tenía 62 años que no veía obispo alguno.

Se enfrentó a los capataces, les arrancó el látigo de las manos... Un día reprendió a un rico propietario que maltrataba a los pobres negros que trabajaban en su hacienda. Viendo que aquel hombre no estaba dispuesto a cambiar de conducta, el Arzobispo intentó darle una lección. Tomó dos trozos de papel, uno blanco y otro negro. Les prendió fuego y pulverizó las cenizas en la palma de su mano. "Señor, -le dijo- ¿podría decir qué diferencia hay entre las cenizas de estos dos papeles? Pues así de iguales somos los hombres ante Dios".

El P. Claret tenía una capacidad inventiva que denotaba un ingenio poco común. En Holguín se organizaron fiestas populares. El número fuerte del programa era el lanzamiento de un globo tripulado por un hombre. El artefacto aerostático era de los primeros que se ensayaban en aquellos tiempos. No tuvo éxito; comenzó a elevarse, pero el piloto perdió el control y cayó en un pequeño barranco. El Arzobispo estudió el problema y un día sorprendió a todos: "Hoy he dado con el sistema de la dirección de los globos". Y les mostró un diseño, que todavía hoy se conserva.
Era un hombre práctico. Fundó en todas las parroquias instituciones religiosas y sociales para niños y para mayores; creó escuelas técnicas y agrícolas, estableció y propagó por toda Cuba las Cajas de Ahorros, fundó asilos, visitó cuatro veces todas las ciudades, pueblos y rancherías de su inmensa diócesis. Siempre a pie o a caballo.
Pero ni siquiera en Cuba le dejaron en paz sus enemigos. La tormenta de atentados llegó al cúlmen en Holguín, donde fue herido gravemente por un sicario a sueldo de sus enemigos, al que había sacado poco antes de la cárcel, cuando salía de la iglesia. El P. Claret, casi agonizando, pidió que perdonaran al criminal. A pesar de todo, sus enemigos siguieron sin perderle de vista.
Estas son las palabras del propio Santo:
"Yo bajé del púlpito fervorosísimo, cuando he aquí que al concluir la función, había mucha gente y todos me saludaban. Se acercó un hombre, como si me quisiera besar el anillo; pero al instante alargó el brazo, armado con una navaja de afeitar, y descargó el golpe con todas su fuerza. Pero yo llevaba la cabeza inclinada y con el pañuelo que tenía en la mano derecha me tapaba la boca, en lugar de cortarme el cuello, como intentaba, me rajó la cara, o mejilla izquierda, desde la frente a la oreja hasta la punta de la barba, y de escape me cogió el brazo derecho.
Hecha la primera cura, me llevaron a la casa. No puedo yo explicar el placer, el gozo y alegría que sentía mi alma al ver que había logrado lo que tanto deseaba, que era derramar la sangre por el amor de Jesús y de María y poder sellar con la sangre de mis venas las verdades Evangélicas.
En la curación de las heridas ocurrieron tres cosas prodigiosas: la primera fue la curación momentánea de una fístula que los facultativos habían dicho que duraría. Con el corte de la herida se rompieron completamente las glándulas salivales. Tenían que operarme al día siguiente. Yo me encomendé a la Santísima Virgen María, me ofrecí y resigné a la voluntad de Dios, y al instante quedé curado.
El segundo prodigio fue que la cicatriz del brazo quedó como una imagen de la Virgen Dolorosa, de medio cuerpo, y además de relieve tenía colores blanco y morado. Se fue desvaneciendo con los años.
El tercer prodigio fue el pensamiento de la Academia de San Miguel, pensamiento que tuve en los primeros días de hallarme en cama y que fue aprobada por el Papa Pío IX."
Los católicos de Cuba lo recuerdan con profundo cariño y veneración.



Confesor de la Reina Isabel II y Misionero en la Corte y en España: (1857-1868).
Al cabo de seis años en Cuba un día le entregaron un despacho urgente del capitán general de La Habana en el que se le comunicaba que su Majestad la Reina Isabel II le llamaba a Madrid. Era el 18 de marzo de 1857.
Llegado a Madrid, supo el P. Claret que su cargo era definitivamente el de confesor de la Reina. Contrariado aceptó, pero poniendo tres condiciones: no vivir en palacio, no implicarle en política y no guardar antesalas teniendo libertad de acción apostólica.
Tenía 49 años cuando regresó de Cuba. Pero Claret no había nacido para cortesano. En los 11 años que permaneció en Madrid, su actividad apostólica en la Corte fue intensa y continuada. Pocas fueron las iglesias y conventos donde su voz no resonara con fuerza y convicción. Desde la iglesia de Italianos, situada en la actual ampliación de las Cortes y desde la iglesia de Montserrat, donde está situado actualmente el Teatro Monumental, desarrolló una imparable actividad. Principalmente se hizo notar en sus misiones al pueblo y en sus ejercicios al clero.
Restauró El Escorial y organizó en él un centro de estudio.
"Pero en la corte me sentía como un pájaro enjaulado... como perro atado... Tengo unos deseos tan grandes de salir de Madrid para ir a predicar por todo el mundo que no lo puedo explicar... Sólo Dios sabe lo que sufro... Cada día tengo que hacer actos de resignación conformándome a la voluntad de Dios..."
"No tengo reposo, ni mi alma halla consuelo sino corriendo y predicando"

Los viajes con la Reina. Mientras la acompañaba en sus giras por España aprovechaba también para desarrollar un intenso apostolado. A primeros de junio de 1858 la real caravana rodaba por las llanuras de la Mancha, Alicante, Albacete, Valencia... y en julio por Castilla, León, Asturias y Galicia.
El recorrido por el sur fue de un entusiasmo extraordinario, llegando a predicar en un solo día 14 sermones. El Reino de Dios era anunciado y el pueblo respondía con generosidad. "En estos viajes, la Reina reúne a la gente y yo les predico".
"Oh Virgen Y Madre de Dios... soy hijo y misionero vuestro formado en la fragua de vuestra misericordia y amor...


Presidente del Monasterio de El Escorial:
La Reina le nombró Presidente del Real Monasterio de El Escorial para su restauración, dado su lastimoso estado a raíz de la ley de exclaustración de 1835. Desempeñó este cargo desde el año 1859 hasta el año 1868. Corto tiempo, pero suficiente para dar muestras de su talento organizador. Se repararon las torres y alas del edificio, así como la gran basílica. Se restauraron el coro y los altares, se instalaron dos órganos, se adquirió material científico para los gabinetes de Física y laboratorios de Química, se restauró la destartalada biblioteca y se construyó otra nueva; se repoblaron los jardines, se plantaron gran cantidad de árboles frutales y de jardín. Con todo, el Arzobispo ponía anualmente en manos de la Reina un buen superávit. Parecía un milagro.
Con la restauración material emprendió la espiritual. Creó una verdadera Universidad eclesiástica, con los estudios de humanidades y lenguas clásicas, lenguas modernas, ciencias naturales, arqueología, escolanía y banda de música. Estudios de Filosofía y Teología, con Patrística, Liturgia Moral y ciencias Bíblicas, lenguas caldaica, hebrea, arábiga, etc. Hizo de este monasterio uno de los mejores centros de España. Y gracias a su afán recuperó su esplendor la octava maravilla del mundo.


Apóstol de la prensa:
"Antonio, escribe", -le dijeron Cristo y la Virgen-.

Como una enorme y sensible pantalla de radar, Claret escrutaba continuamente los signos de los tiempos: "Uno de los medios que la experiencia me ha enseñado ser más poderoso para el bien es la imprenta, -decía-, así como es el arma más poderosa para el mal cuando se abusa de ella".

Escribió unas 96 obras propias (15 libros y 81 opúsculos) y otras 27 editadas, anotadas y a veces traducidas por él. Sólo si se tiene en cuenta su extrema laboriosidad y las fuerzas que Dios le daba, se puede comprender el hecho de que escribiera tanto llevando una dedicación tan intensa al ministerio apostólico. Claret no era solamente escritor. Era propagandista. Divulgó con profusión los libros y hojas sueltas. En cuanto a su difusión alcanzó cifras verdaderamente importantes.
Jamás cobraba nada de la edición y venta de sus libros; al contrario, invertía en ello grandes sumas de dinero. ¿De dónde lo sacaba? De lo que obtenía por sus cargos y de los donativos.
"No todos pueden escuchar sermones... pero todos pueden leer..."
"El predicador se cansa... el libro siempre está a punto... Son los libros la comida del alma..."
Entre el centenar de obras de todos tamaños que escribió, destacan:
"Avisos" a toda clase de personas.
"El camino recto"
"El catecismo explicado"
"El colegial instruido"


"Los libros son la mejor limosna".
En el año 1848 había fundado la Librería Religiosa junto al Dr.Caixal, futuro obispo de Seo de Urgel, precedida por la "Hermandad espiritual de los libros buenos", que durante los años que estuvo bajo su dirección hasta su ida a Cuba imprimió gran cantidad de libros, opúsculos y hojas volantes, con un promedio anual de más de medio millón de impresos. En el primer decenio de la fundación recibió la felicitación personal del Papa Pío IX.
Aún sacerdote fundó la Hermandad del Santísimo e Inmaculado Corazón de María, cuya finalidad era la de mantener permanentemente la difusión de los libros y constituyó uno de los primeros ensayos de apostolado seglar activo por estar integrada por sacerdotes y seglares de ambos sexos.

Una de sus obras más geniales fue la fundación de la Academia de San Miguel (1858). En ella pretendía agrupar las fuerzas vivas de las artes plásticas, el periodismo y las organizaciones católicas; artistas, literatos y propagandistas de toda España para la causa del Señor. Gracias a su prestigio consiguió reunir en ella las figuras más representativas del campo católico español. En nueve años se difundieron gratuitamente numerosos libros, se prestaron otros muchos y se repartió un número incalculable de hojas sueltas.
Y fundó las bibliotecas populares en Cuba y en España. Más de un centenar llegaron a funcionar en España en los últimos años de su vida.
Bien merece el P.Claret el título de apóstol de la prensa.


Un hombre Santo:
La suntuosidad cortesana no impidió al P. Claret vivir como el religioso más observante. Cada día dedicaba mucho tiempo a la oración. Su austeridad era proverbial y su sobriedad para las comidas y bebidas, admirable.

Este era su horario. Dormía apenas seis horas levantándose a las tres de la mañana. Antes que se levantaran los demás tenía dos horas de oración y lectura de la Biblia, luego otra hora con ellos, celebraba su Eucaristía y oía otra en acción de gracias, desde el desayuno hasta las diez confesaba y luego escribía. Lo que peor soportaba era la hora de audiencia hacia las doce. Por la tarde predicaba, visitaba hospitales, cárceles, colegios y conventos.
Su pobreza era ejemplar. Un día se llevó un susto al llevarse la mano al bolsillo. Le pareció haber encontrado una moneda, pero enseguida se repuso, no era una moneda, sino una medalla. En una ocasión no teniendo otra cosa para poder auxiliar a un pobre empeñó su cruz arzobispal.

San Antonio era un verdadero místico. Varias veces se le vio en estado de profundo ensimismamiento ante el Señor. Un día de Navidad, en la iglesia de las adoratrices de Madrid, dijo haber recibido al Niño Jesús en sus brazos.

En Intimidad con el Señor:
La clave de toda la espiritualidad de San Antonio es el amor al Santísimo Sacramento, que devoró su corazón durante toda su vida. Este amor es el que le hace transformarse en Cristo, en Cristo paciente y sacrificado.
Desde niño acudía con frecuencia a la Santa Misa, reconociendo a Cristo realmente presente en la Eucaristía, fuente de toda su vida.

Dice San Antonio: "Sentía cómo el Señor me llamaba y me concedía el poder identificarme con El. Le pedía que hiciese siempre su voluntad.

La vivencia de la presencia de Jesús en la Eucaristía, en la celebración de la Misa o en la adoración de Jesús Sacramentado era tan profunda que no la sabía explicar. Sentía y siento su presencia tan viva y cercana que me resulta violento separarme del Señor para continuar mis tareas ordinarias".

Un privilegio incomparable del que fue objeto fue la conservación de las especies sacramentales de una comunión a otra durante nueve años. Así lo escribió en su Autobiografía:

"El día 26 de agosto de 1861, hallándome en oración en la iglesia del Rosario de La Granja, a las siete de la tarde, el Señor me concedió la gracia grande de la conservación de las especies sacramentales, y tener siempre día y noche el santísimo sacramento en mi pecho. Desde entonces debía estar con mucho más devoción y recogimiento interior. También tenía que orar y hacer frente a todos los males de España, como así me lo manifestaba el Señor en otras oraciones."
Esta presencia, casi sensible, de Jesús en el P. Claret debió ser tan grande, que llegó a exclamar: "En ningún lugar me encuentro tan recogido como en medio de las muchedumbres".









DEVOCION a la Virgen María, Madre y Maestra:

Desde niño, la devoción y el amor a la Santísima Virgen marcaron la vida de San Antonio. La Virgen Santísima era para él la estrella que le guiaba en su vida. Siempre la visitaba en el altar de su parroquia y se imaginaba que sus oraciones subían al cielo por unos "hilos misteriosos". Le gustaba visitar a la Santísima Virgen en su santuario de Fusimaña.
De niño, todos los días rezaba una parte del Santo Rosario y cuando mayor lo rezaba completo, los quince misterios todos los días. Era gran devoto del Santo Rosario a tal punto que la Virgen le dijo un día: "Tú serás el Domingo de estos tiempos. Promueve el Santo Rosario"

Pasaba largo tiempo frente a una imagen de la Virgen haciendo sus oraciones y rezos, y hablándole con cordialidad y confianza, porque estaba convencido de que la Santísima Virgen lo escuchaba...
En obsequio a la Virgen María se abstenía no sólo de pecados mortales, sino hasta de veniales, de faltas e imperfecciones, y aún se abstenía de cosas lícitas, solo para mortificarse y abstenerse de alguna cosa en obsequio a María Santísima.
El amaba a María, pero María le amaba más a él, pues siempre le concedía lo que pedía y aún cosas que nunca pidió, le concedió. La Virgen Santísima lo libró de enfermedades, de peligros y aun de la muerte muchas veces, por mar o por tierra; le libró de tentaciones y de ocasiones de pecar.
Decía el Santo: "Ya veis cuanto importa ser devoto de María Santísima. Ella os librará de males y desgracias de cuerpo y alma. Ella os alcanzará los bienes terrenales y eternos. ...Rezadle el Santo Rosario todos los días con devoción y fervor y veréis como María Santísima será vuestra Madre, vuestra abogada, vuestra medianera, vuestra maestra, vuestro todo después de Jesús".
En otro lado dice: "Ni en mi vida personal, ni en mis andanzas misioneras podía olvidarme de la figura maternal de María. Ella es todo corazón y toda amor. Siempre la he visto como Madre del Hijo amado y esto la hace Madre mía, Madre de la Iglesia, Madre de todos. Mi relación con María siempre ha sido muy íntima y a la vez cercana y familiar, de gran confianza. Yo me siento formado y modelado en la fragua de su amor de Madre, de su Corazón lleno de ternura y amor. Por eso me siento un instrumento de su maternidad divina. Ella está siempre presente en mi vida y en mi predicación misionera. Para mí, María, su Corazón Inmaculado, ha sido siempre y es mi fuerza, mi guía, mi consuelo, mi modelo, mi Maestra, mi todo después de Jesús".

"Oh Virgen Madre de Dios... soy hijo y misionero vuestro, formado en la fragua de vuestra misericordia y amor...


Un hombre perseguido:
No es de extrañar que un hombre de la influencia del P. Claret, que arrastraba a las multitudes, atrajera también las iras de los enemigos de la Iglesia. Pero las amenazas y los atentados se iban frustrando uno a uno, porque la Providencia velaba sobre él que se alegraba en las persecuciones. Fueron numerosos los atentados personales que sufrió en vida. La mayor parte frustrados por la conversión de los asesinos.
Pero fue peor la campaña difamatoria que se organizó a gran escala por toda España para desacreditarlo ante las gentes sencillas. Se le acusó de influir en la política, de pertenecer a la famosa "camarilla" de la Reina con Sor Patrocinio, Marfori y otros, de ser poco inteligente, de ser obsceno en sus escritos refiriéndose a "La Llave de Oro", de ser ambicioso y aún de ladrón. Pero Claret supo callar, contento de sufrir algo por Cristo.


Ante el reconocimiento del Reino de Italia:
El 15 de julio de 1865, el gobierno en pleno se reunía en La Granja para arrancar a la Reina su firma sobre el reconocimiento del Reino de Italia, que equivalía a la aprobación del expolio de los Estados pontificios.
El P. Claret ya había advertido a la Reina que la aprobación de este atropello era, a su parecer, un grave delito, y la amenazó con retirarse si lo firmaba. La Reina, engañada, firmó. Claret no quiso ser cómplice permaneciendo en la corte. Oró ante el Cristo del Perdón, en la iglesia de La Granja, y escuchó estas palabras: "Antonio, retírate".

Transido de dolor al verse obligado a abandonar a la Reina en aquella situación, se dirigió a Roma. Allí el Papa Pío IX le consoló y le ordenó que volviera otra vez a la corte. La familia real se alegró inmensamente de su retorno. Pero una nueva tempestad de calumnias y de ataques se desencadenó contra él. Se puede decir de Claret que fue uno de los hombres públicos más perseguidos del siglo XIX.


Desterrado:
El 18 de septiembre de 1868, la revolución, ya en marcha, era incontenible. Veintiún cañonazos de la fragata Zaragoza, en la bahía de Cádiz, anunciaron el destronamiento de la Reina Isabel II. Con la derrota del ejército isabelino en Alcolea caía Madrid, y la revolución, como un reguero de pólvora, se extendió por toda España.
El día 30, la familia real, con algunos adictos y su confesor, salía para el destierro en Francia. Primero hacia Pau, luego París. El P. Claret tenía 60 años.
Los desmanes y quema de iglesias se prodigaron, cumpliéndose otra de las profecías del P. Claret: la Congregación tendrá su primer mártir en esta revolución. En La Selva del Camp caía asesinado el P.Crusats.
El 30 de marzo de 1869 Claret se separaba definitivamente de la Reina y se iba a Roma.


Padre del Concilio Vaticano I:


El día 8 de diciembre de 1869 comenzaron a llegar a Roma 700 obispos de todo el mundo, superiores de órdenes religiosas, arzobispos, primados, patriarcas y cardenales. Comenzaba el Concilio Ecuménico Vaticano I. Allí estaba el P. Claret.
Uno de los temas más debatidos fue la infalibilidad pontificia en cuestiones de fe y costumbres. La voz de Claret resonó en la basílica vaticana:

"Llevo en mi cuerpo las señales de la pasión de Cristo, -dijo, aludiendo a las heridas de Holguín-; ojalá pudiera yo, confesando la infalibilidad del Papa, derramar toda mi sangre de una vez".
Es el único Padre asistente a aquel Concilio que ha llegado a los altares.


El ocaso de sus días:
El 23 de julio de 1870, en compañía del P. Xifré, Superior General de la Congregación, llegaba el Arzobispo Claret a Prades, en el Pirineo francés. La Comunidad de misioneros en el destierro, en su mayoría jóvenes estudiantes, recibió con gran gozo al fundador, ya enfermo. El sabía que su muerte era inminente. Pero ni siquiera en el ambiente plácido de aquel retiro le dejaron en paz sus enemigos. El día 5 de agosto se recibió un aviso. Querían apresar al señor Arzobispo. Incluso en el destierro y enfermo, el P. Claret tuvo que huir. Se refugió en el cercano monasterio cisterciense de Fontfroide. En aquel cenobio, cerca de Narbona, fue acogido con gran alegría por sus moradores.

"Me parece que ya he cumplido mi misión, en París y en Roma he predicado la ley de Dios... En París como capital del mundo, en Roma capital del catolicismo, lo he hecho de palabra y por escrito, he observado la santa pobreza...
Su salud estaba completamente minada. El P. Clotet no se separó de su lado y anotó las incidencias de la enfermedad. El día 4 de octubre tuvo un ataque de apoplejía.
El día 8 recibió los últimos sacramentos e hizo la profesión religiosa como Hijo del Corazón de María, a manos del P. Xifré.
Llegó el día 24 de octubre por la mañana. Todos los religiosos se habían arrodillado alrededor de su lecho de muerte. Junto a él, los Padres Clotet y Puig. Entre oraciones Claret entregó su espíritu en manos del Creador. Eran las 8:45 de la mañana y tenía 62 años.
Su cuerpo fue depositado en el cementerio monacal con una inscripción de Gregorio VII que rezaba: "Amé la justicia y odié la iniquidad, por eso muero en el destierro".


Glorificado:
Los restos del P. Claret fueron trasladados más tarde a Vic, en 1897, donde se veneran. El 25 de febrero de 1934 la Iglesia le inscribió en el número de los beatos. El humilde misionero apareció a la veneración del mundo en la gloria de Bernini. Las campanas de la Basílica Vaticana pregonaron su gloria.
Y el 7 de mayo de 1950 el Venerable Papa Pío XII lo proclamó SANTO. Estas fueron sus palabras aquel memorable día:
"San Antonio María Claret fue un alma grande, nacida como para ensamblar contrastes: pudo ser humilde de origen y glorioso a los ojos del mundo. Pequeño de cuerpo, pero de espíritu gigante. De apariencia modesta, pero capacísimo de imponer respeto incluso a los grandes de la tierra. Fuerte de carácter, pero con la suave dulzura de quien conoce el freno de la austeridad y de la penitencia. Siempre en la presencia de Dios, aún en medio de su prodigiosa actividad exterior. Calumniado y admirado, festejado y perseguido. Y, entre tantas maravillas, como una luz suave que todo lo ilumina, su devoción a la Madre de Dios".
-SCTJM

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Esta página es obra de Las Siervas de los Corazones Traspasados de Jesús y María.Copyright © 1999 SCTJM


AVE AVE AVE MARIA PURISSIMA! 

venerdì 13 luglio 2012

SAN FRANCISCO SOLANO (1549-1610), "el Taumaturgo del nuevo mundo"




Francisco Solano, llamado "el Taumaturgo del nuevo mundo", por la cantidad de prodigios y milagros que obtuvo en Sudamérica, nació en 1549, en Montilla, Andalucía, España.
Francisco fue el tercer hijo de Mateo Sánchez Solano y Ana Jiménez. Sus dos hermanos se llamaban Diego e Inés. Creció Francisco en un hogar noble y cristiano donde se apreciaba más la hidalguía del espíritu que la de la sangre.
Montilla era un lugar eminentemente religioso. Seguramente, Solano conoció a San Juan de Ávila, que murió cuando Francisco tenía veinte años. En aquella época, había en Montilla docena y media de iglesias, así como cinco conventos y numerosas cofradías.
INGRESO A LA ORDEN FRANCISCANA
Francisco estudió con los Jesuitas, pero entró a la comunidad Franciscana porque le atraían mucho la pobreza y la vida tan sacrificada de los religiosos de esa Orden; por ello, decidió ingresar como novicio en el convento franciscano de San Lorenzo, situado en la Huerta del Adalid. Era un lugar de enorme belleza natural, con abundantes árboles, plantas y flores, jazmines, un estanque con peces, caza menor y pájaros. En medio de este paraíso natural, había varias ermitas esparcidas que invitaban a la oración y la contemplación.
En el convento la disciplina era muy estricta, conforme a la regla primitiva. Los novicios franciscanos pasaban la mayor parte del tiempo dedicados al silencio y la meditación. Hablaban muy poco, siempre de dos en dos, en voz baja y no por mucho tiempo. En cuanto a la meditación, había tres turnos diarios de media hora de duración cada uno.
Francisco era muy virtuoso, paciente y humilde. Dormía siempre en el suelo, sobre una cobija o un cañizo de palos. Usaba un cilicio durante todo el año. Andaba descalzo a no ser que estuviera enfermo y sólo comía legumbres y fruta. Se excedía a menudo en la práctica de mortificaciones y penitencias, con el resultado durante toda su vida de una salud débil y quebrantada.
El día 25 de Abril de 1570 hizo profesión religiosa para ser fraile de coro. Tenía entonces veintiún años.
ESTANCIA EN LORETO (1572-1579). ORDENACIÓN SACERDOTAL
Poco tiempo después fue destinado al convento sevillano de Nuestra Señora de Loreto, donde cursó estudios de Filosofía y Teología. En Loreto, la observancia regular era también muy estricta. Los maestros que más influyeron en el joven Francisco fueron dos: el teólogo y humanista fray Luis de Carvajal y el músico y científico padre Juan Bermudo. Durante su largo período de formación, Solano no sólo se instruyó en la teología de San Buenaventura, sino que tuvo ocasión de desarrollar sus dotes innatas para la música y el canto.
En 1576 fue ordenado sacerdote. Asistió su padre, pero no así su madre, que se encontraba enferma y casi ciega. Lo nombraron vicario de coro, es decir, encargado de dirigir el rezo y los cantos del oficio divino. Amante de la austeridad y la pobreza, Solano se hizo una pequeña celda en las inmediaciones del coro, en un diminuto rincón en el que apenas cabía. La celda estaba hecha de cañas y barro cocido, con un pequeño agujero que servía de ventana para poder rezar y estudiar.
Una vez terminados los estudios de teología, fue nombrado predicador, labor que desarrolló en pueblos cercanos, y que resultaría determinante en su futuro como misionero. La tarea de predicar no era fácil, y requería estudio continuo y dedicación permanente. Posteriormente, fue nombrado también confesor.
Hay que decir que la primera intención del santo era la de ser mártir. Solicitó sin éxito ser destinado a Berbería para morir en el intento de evangelizar a los africanos. En vista de la negativa de sus superiores, Solano se fijó otra meta: América, pero tuvo que esperar algún tiempo antes de poder ver realizado su deseo de convertirse en misionero.

REGRESO A MONTILLA
La muerte de su padre le hizo volver temporalmente a Montilla para visitar a su madre. Sin embargo, su estancia se prolongó más de lo previsto debido a una epidemia mortal que afectó incluso a varios frailes del convento franciscano.
En Montilla realizó varias curaciones inexplicables que dieron comienzo a su fama como milagrero. Un día iba pidiendo limosna por las calles cuando una mujer le pidió que leyera el evangelio a un niño de seis meses que llevaba en brazos. Solano vio que el niño tenía numerosas llagas e hinchado el rostro. Cuentan que lamió el rostro y las llagas con su boca y lengua, y que a la mañana siguiente el niño amaneció mejor y se curó.
También curó a un pobre hombre que tenía llagas en las piernas y apenas podía andar ayudado por unas muletas. Dicen que le besó las llagas y curó de inmediato.
En 1581, Francisco Solano fue destinado como vicario y maestro de novicios al convento cordobés de la Arruzafa, donde solía visitar a los enfermos incluso desatendiendo algunas horas de oración, y recomendaba a los más jóvenes que tuvieran paciencia en los trabajos y adversidades.
En 1583, fue trasladado a San Francisco del Monte, en Sierra Morena, a 30 kilómetros al noreste de Córdoba. Era un paraje de gran hermosura. Allí comía sopas de pan con agua, vinagre y un casco de cebolla.
Una de las cosas que Solano intentó imitar de San Francisco de Asís era su relación especial con los animales. Pues bien, cuentan que había una serpiente de gran tamaño que atacaba a ganados y pastores y hacía estragos en toda la región, y a la cual Solano reprendió y ordenó ir al convento, donde fue convenientemente alimentada. Dicen que después de comer la serpiente se marchó y no volvió a causar daño en la comarca.
Hubo entonces una terrible epidemia de peste en Andalucía que afectó con especial virulencia a la ciudad de Montoro. Durante un mes, y en compañía de fray Buenaventura Núñez, Francisco fue a cuidar a los enfermos, que eran llevados fuera del pueblo a la Ermita de San Sebastián.
Ambos frailes prestaban servicio a los afectados y les hacían las camas, los sacramentaban y ayudaban a morir, y después los enterraban. Los dos se contagiaron de la enfermedad pero Solano logró curarse. En Montoro, el nombre de una calle recuerda la labor humanitaria llevada a cabo por el santo.
De su estancia en Granada cabe señalar que iba a predicar a las cárceles y que visitaba a los enfermos del Hospital de San Juan de Dios. Poco después, el rey Felipe II pidió a los franciscanos que enviaran misioneros a Sudamérica. Finalmente y para alegría suya, Francisco fue el elegido para la misión de extender la religión en estas tierras.
Fray Francisco Solano recorrió el continente americano durante 20 años predicando, especialmente a los indios. Pero su viaje más largo fue el que tuvo que hacer a pie, con incontables peligros y sufrimientos, desde Lima hasta Tucumán (Argentina) y hasta las pampas y el Chaco Paraguayo. Más de 3,000 kilómetros y sin ninguna comodidad. Sólo confiando en Dios y movido por el deseo de salvar almas.
Fray Francisco llegaba a las tribus más guerreras e indómitas y aunque al principio lo recibían al son de batalla, después de predicarles por unos minutos con un crucifijo en la mano, conseguía que todos empezaran a escucharle con un corazón dócil y que se hicieran bautizar por centenares y miles.
Estando el santo predicando en La Rioja (Argentina) llegó la voz de que se acercaban millares de indios salvajes a atacar la población. El peligro era sumamente grande, todos se dispusieron a la defensa, pero Fray Francisco salió con su crucifijo en la mano y se colocó frente a los guerreros atacantes y de tal manera les habló (logrando que lo entendieran muy bien en su propio idioma) que los indígenas desistieron del ataque y poco después aceptaron ser evangelizados y bautizados en la religión católica.
El Padre Solano tenía una hermosa voz y sabía tocar muy bien el violín y la guitarra. Y en los sitios que visitaba divertía muy alegremente a sus oyentes con sus alegres canciones. Un día llegó a un convento donde los religiosos eran demasiado serios, por lo que recordando el espíritu de San Francisco de Asís –quien decía que era necesario vivir siempre interior y exteriormente alegres- se puso a cantarles y hasta a danzar tan jocosamente que aquellos frailes terminaron todos cantando y bailando en honor de Dios.
San Francisco Solano misionó por más de 14 años por el Chaco Paraguayo, por Uruguay, el Río de la Plata, Santa Fe y Córdoba de Argentina, siempre a pie, convirtiendo innumerables indígenas y también muchísimos colonos españoles. Su paso por cada ciudad o campo, era un renacer del fervor religioso.
Un día en el pueblo llamado San Miguel, estaban en un toreo, y el toro feroz se salió del corral y empezó a cornear sin compasión por las calles. Llamaron al santo y éste se le enfrentó calmadamente al terrible animal. Y la gente vio con admiración que el bravísimo toro se le acercaba a Fray Francisco y le lamía las manos y se dejaba llevar por él otra vez al corral.
LLEGADA A LIMA
Llegado a Lima, Francisco fue nombrado Guardián del Convento de la Recolección. Como siempre, se resistió todo lo que pudo antes de aceptar cualquier cargo de responsabilidad, exagerando de manera deliberada su propia incapacidad para gobernar, pero finalmente tuvo que acatar la autoridad de sus superiores.
Su obsesión por la pobreza era tal que no quería que se blanqueara o enladrillara la casa, ni que se pulieran las puertas y ventanas. En su celda, tan sólo tenía un camastro, una colcha, una cruz, una silla y mesa, un candil y la Biblia junto con algunos otros libros. Era el primero en todo, y jamás ordenó una cosa que no hiciera él antes.
Sus consejos eran prudentes, y cuando tenía que reprender a alguno de los demás frailes, lo hacía con gran celo y caridad. Sus excesivas penitencias y su espíritu de oración no le impedían ser alegre con los demás. Solano era también el santo de la alegría.
SECRETARIO PROVINCIAL. GUARDIÁN EN TRUJILLO (1602-1604)
En 1601, fue elegido Secretario y acompañante del superior provincial, cargo en el que duró menos de un año. En uno de los viajes casi se muere por el camino, y en vista de su delicado estado de salud, se le asignó un nuevo destino: la ciudad de Trujillo, fundada por Francisco Pizarro apenas medio siglo antes de la llegada de Solano al Perú.
En Trujillo buscaba Solano un poco de paz y tranquilidad, y sobre todo apartarse de la gran fama que tenía en Lima. Se dedicaba a visitar a los enfermos, en especial a una anciana leprosa a la que a menudo llevaba regalos. En casa de otra enferma, había un árbol junto a la ventana en el que un pajarillo cantaba deliciosamente solamente cuando iba Solano.
Predicaba en el hospital de la ciudad y también visitaba a los presos, para hablar con ellos, confesarlos y ayudarlos a bien morir. Para rezar, se refugiaba en la huerta del convento, en la que había numerosos pajarillos. Eran tantos que cuentan que Solano les daba de comer por turnos, y que los que comían se apartaban para que pudieran comer los otros.
Su amor por la pobreza era tan grande que no consentía en cambiar de zapatos, sino sólo en remendarlos, de manera que el zapatero tuvo que engañarlo y se quedó con los antiguos zapatos como reliquia.
OTRA VEZ GUARDIÁN EN LIMA (1604). EL SERMÓN QUE CONVIRTIÓ A LIMA
En 1604, Solano volvió a Lima, ciudad donde pasaría los últimos años de su vida. A pesar de su precario estado de salud, continuaba haciendo grandes penitencias y pasaba noches enteras en oración. Sus visitas a la enfermería se hicieron cada vez más frecuentes.
Sin embargo, iba a menudo a visitar a los enfermos o salía a las calles a predicar con su pequeño rabel y una cruz en las manos. Así conseguía juntar a un gran número de personas y las congregaba en la plaza mayor, donde se dirigía a la muchedumbre en alta voz. Su predicación se fundamentaba en citas bíblicas y en la doctrina de los Padres de la Iglesia.
Predicaba en todas partes: en los talleres artesanales, en los garitos, en las calles, en los monasterios e incluso en los corrales de teatro. Especial significado tuvo su oposición a ciertos espectáculos teatrales en los que a su juicio se ofendía a Dios. En España se había producido una corriente de opinión en contra de este género, y muchos artistas se tuvieron que desplazar hacia el Nuevo Mundo, donde gozaban de mayor aceptación popular.
En Lima había tres compañías de comedias. Solano entraba en los corrales con un Cristo en la mano y mucha gente le seguía abandonando el lugar. Más de una vez consiguió que hubiera que anular la representación, porque con él se iba todo el mundo.
ÚLTIMOS AÑOS DE SU VIDA
En octubre de 1605, Solano pasó a la enfermería del convento. Postrado y gravemente enfermo del estómago, apenas si podía salir a predicar y a visitar a los enfermos. Procuraba asistir a la comida en el refectorio junto con los demás frailes, pero comía muy poco, tan sólo unas hierbas cocidas. Además, seguía excediéndose en sus penitencias y no miraba por su delicada salud.
Cuando se levantaba, le gustaba dar paseos por el claustro del convento y rezar ante los cuadros de la vida de San Francisco de Asís. En el aula de teología, pasaba muchas horas ante un cuadro que había de San Buenaventura, a quien tenía gran devoción.
En octubre de 1609, hubo un terremoto en la ciudad de Lima. La primera sacudida fue de noche, pero después se produjeron hasta 14 nuevos temblores de tierra. Cuentan que el agua se derramaba de las fuentes y que las campanas tocaban solas. Las iglesias se llenaron de gente. Solano salió a predicar, aunque apenas si podía tenerse en pie.
Durante su última enfermedad, le trataron cuatro médicos. Solano era poco más que un esqueleto viviente. Tenía mucha fiebre y fortísimos dolores de estómago. Finalmente murió el 14 de junio de 1610, día de San Buenaventura. Dicen que ese día los pájaros se despidieron de él cantando junto a la ventana de su celda desde por la mañana temprano. Murió a las once y tres cuartos de la mañana. Ese mismo día y a la misma hora se produjo un extraño toque de campanas en el convento de Loreto.
POST-MORTEM
Su cuerpo fue trasladado al oratorio de la enfermería, donde acudió gran cantidad de gente a venerarlo. Allí mismo fue retratado por dos pintores. A su entierro asistieron unas 5.000 personas.
Tan sólo 15 días después de su muerte, se abrió su proceso de canonización. Las gestiones comenzaron en Lima, donde hubo 500 testigos, y después continuaron en otras ciudades del Perú, en el Tucumán y en España. San Francisco Solano fue canonizado el 27 de diciembre de 1726.
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San Francisco Solano (1549-1610)

por Rubén Vargas Ugarte, s.j.

. De los tres santos canonizados que con su presencia santificaron estas tierras de América, San Luis Beltrán, San Pedro Claver y San Francisco Solano, este último es el que con más razón merece el título de apóstol de este Nuevo Mundo, tanto por la extensión de su labor misional como por las huellas que dejó de su paso. San Luis Beltrán no hizo sino abordar a las costas insalubres y deshabitadas de Santa Marta, evangelizó a las tribus errantes de los bordes del Magdalena y a los pocos años volvióse a España. San Pedro Claver se encerró dentro de los muros de Cartagena y allí vivió hasta su muerte, hecho esclavo de los esclavos. Solano, en cambio, recorrió gran parte del Perú de entonces y ha dejado recuerdos de su tránsito en cinco repúblicas de este continente.

Había nacido el 10 de marzo de 1549 en la pequeña ciudad de Montilla, en la Andalucía, del matrimonio de Mateo Sánchez Solano y Ana Jiménez Hidalga. Sus padres eran acomodados y cuando el niño estuvo en edad de estudiar lo entregaron a los jesuitas, que tenían entonces un colegio en el lugar. Allí aprendió las letras humanas y allí también sintió despertarse su vocación. A los veinte años, en plena adolescencia, decide vestir el sayal franciscano y acude al convento de San Lorenzo, en las afueras, donde el guardián, fray Francisco de Angulo, le abre las puertas de aquel cenobio, en donde va a poner los fundamentos de su futura santidad. Dios, en efecto, le había escogido para santo. Por entonces los franciscanos habían sentido renovarse su fervor y anhelaban imitar más de cerca a Jesucristo, siguiendo las huellas del Pobrecillo de Asís. Solano, desde los primeros días de su vida religiosa, sintió en su corazón arder esta llama, se determinó a abrazarse estrechamente con Cristo, siguiendo desnudo al desnudo Jesús. Hizo su profesión el 25 de abril de 1570 y verdaderamente renunció a todo para vivir unido a su modelo. Unos años más tarde dejaba Montilla y se trasladaba al convento de Nuestra Señora de Loreto, en las proximidades de Sevilla, donde alternó el estudio de las ciencias sagradas con la oración y la penitencia. Escogió para vivienda la celda más pequeña e incómoda del convento, bien próxima al coro, en donde pasaba buena parte de su tiempo.

Allí recibió la unción sacerdotal y un 4 de octubre cantó su primera misa en la capilla de la Virgen, hallándose presente su padre, que muy poco después dejaba este mundo. Como tenía buena voz y era muy aficionado a la música, arte que podemos decir cultivó toda su vida, le nombraron vicario de coro y predicador. La muerte de su progenitor y la ceguera de que adoleció su madre le obligaron a volver a Montilla, pero transformado en otro hombre. De su breve estancia en su ciudad natal quedó indeleble recuerdo. Aquel joven franciscano, «no hermoso de rostro, moreno y enjuto», como nos lo describe uno de sus contemporáneos, se atrajo las miradas de todos por el espíritu con que hablaba y la santidad que emanaba de todo su ser. Aún se cuenta que hizo varias curaciones, pero el más evidente indicio de su ascendiente sobrenatural nos lo da el hecho de haber pedido la marquesa de Priego, la señora del lugar, un hábito de fray Francisco para que le sirviese de mortaja.

Tan sólidas eran ya sus virtudes que los superiores de la Orden le enviaron a Arrizafa, en las cercanías de Córdoba, a fin de que en esa recolección ejerciese el cargo de maestro de novicios. Nadie mejor que él para servir de guía a quienes aspiraban a realizar íntegramente el ideal del fraile menor. Tres años vivió en este convento y en 1581 pasa a San Francisco del Monte, monasterio escondido entre los breñales de la Sierra Morena. En aquella soledad su espíritu se expande y se une más estrechamente a Dios. No olvida, sin embargo, a sus hermanos, y, cuando la peste diezma a los vecinos de Montoro, acude solícito a ayudar a los enfermos a bien morir y a curar a los atacados del mal. Le acompaña un buen hermano lego, fray Buenaventura, que al fin sucumbe también a los rigores de la peste, y Solano continúa asistiendo a sus hermanos dolientes en la iglesia de San Sebastián, transformada en hospital, donde aún se conserva un cuadro que recuerda su caridad.

Se le nombra guardián del convento y a los tres años se le envía al convento de San Luis de la Zubia, en la vega de Granada. Aquí termina su labor en España, porque en 1588 solicita pasar a América en compañía del padre comisario, fray Baltasar Navarro, que ha venido en busca de misioneros. Ciérrase entonces la primera etapa de su vida; la segunda le verá en las apartadas regiones del Tucumán, convertido en misionero de indios, hasta el año 1602, en que se le ordena volver al Perú, donde estaba la estricta observancia de los recoletos y donde fallece en 1610. Estas tres etapas en que podemos dividir su vida son bien marcadas y cada una de ellas tiene su carácter peculiar. En España ha alternado el estudio de la perfección religiosa con el de las ciencias y los cargos de gobierno con el ministerio apostólico, pero esto último lo hace sólo a intervalos y no de una manera metódica y continua. Es la etapa de preparación y en la cual se macizan sus virtudes. Cuando tome la carabela que le ha de conducir a Tierra Firme ya Solano es un santo, es el varón de Dios, que lo pisotea todo para unirse a su Señor.

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El 3 de marzo de 1589 pasaba la barra de Sanlúcar la flota que conducía al nuevo virrey del Perú, don García Hurtado de Mendoza. En una de las naves, oculto a las miradas de todos, viajaba nuestro héroe, acompañado por un regular grupo de hermanos suyos que pasaban a América a conquistar para Cristo muchas almas. Con viento favorable llegaban a Cartagena el 7 de mayo y, tras unos días de espera en aquel puerto, pasaban a Portobelo y de aquí a Panamá, adonde debió de llegar Solano a fines del mes de junio de 1589. La falta de embarcaciones le obligó a permanecer en aquel mortífero clima, donde perdieron la vida dos de los franciscanos que venían en su compañía. Después de cuatro meses lograron hallar una nave que los condujese al Perú, pero tan descuadernada que unos cuantos golpes de mar, como luego veremos, bastaron para dar al través con ella. Solano, en compañía del padre fray Diego de Pineda y de fray Francisco de Torres, tomó pasaje a su bordo, y la embarcación levó anclas en el puerto de Perico y se dio a la vela para el Callao.

La navegación desde Panamá hasta aquel puerto se hacía difícil, así por tener que vencer la corriente marina que baña aquellas costas como por la falta de viento, sobre todo en esta época del año. Así sucedió entonces, y en la vecindad de la isla de la Gorgona, frente a las costas de la actual Colombia, aquella frágil nave vino a zozobrar. En un batel lograron llegar a tierra algunos de los pasajeros y tripulantes, pero Solano permaneció sereno en los restos flotantes de la nave, alentando a los náufragos y auxiliándolos en aquel caso extremo. Cuando el batel volvió en su busca fue el último en acogerse a él, y lo hizo lanzándose al mar, después de arrollar el hábito a la cintura. Una vez en la playa, y cubierto tan sólo con la túnica, fue en busca del hábito que había perdido y lo halló en la arena. San Francisco, como él decía, le había dado aquel hábito y él también se lo había de devolver.

Por más de dos meses hubieron de permanecer los náufragos en la costa, desprovistos de todo auxilio. Uno de los compañeros de Solano había perecido en el naufragio, el otro, cansado de esperar, decidió salir en el batel con otros compañeros en busca de socorro. Tenían que alimentarse de peces, mariscos y hierbas silvestres, y no sin trabajo los encontraban. Solano, olvidado de sí, procuraba levantar el ánimo de sus compañeros, aliviaba sus males y les daba cuanto caía en sus manos y podía servir para su sustento. Parece que en más de una ocasión su pesca tuvo todos los contornos de milagrosa. El Señor escuchaba a su siervo. Al fin arribó el socorro tan ansiado. A últimos de diciembre una nave recogió a los náufragos y los condujo al puerto de Pafta, al norte del Perú. De aquí continuó Solano su camino por tierra hasta llegar a la ciudad de los reyes, Lima. Cruzó aquella costa desierta, interrumpida a veces por los valles que riegan los ríos que bajan de la cordillera, y en 1590 entraba en la capital del virreinato, donde ya le había precedido el virrey don García y en donde por aquel tiempo gobernaba aquella iglesia un esclarecido prelado, Santo Toribio de Mogrovejo.

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Solano ardía en deseos de pasar a las Misiones a que estaba destinado. Fray Baltasar, que le había traído consigo, atendió sus ruegos y con otros ocho religiosos emprendió el camino que conducía al Tucumán. La distancia era enorme. Basta fijar los ojos en un mapa de América para darse cuenta del inmenso espacio que había que recorrer. Pero a esta dificultad se añadía otra mayor: la de la aspereza y rigor de la tierra. Había que transmontar los Andes, y luego de cruzarlos, llegar hasta el Cuzco, para tomar después el camino que conduce al Callao, esto es, a la meseta frígida y desnuda casi de vegetación que domina la actual Bolivia y se prolonga casi hasta los confines del Norte argentino. Aquí comenzaba la bajada abrupta y sinuosa hasta Salta y más abajo a las llanuras del Tucumán. Solano hubo de arrostrar esta jornada caminando unas veces a pie, otras en pobres cabalgaduras, y sufriendo todas las consecuencias de la falta de abrigo y de las rigideces del clima. Si por allí habían pasado los conquistadores y capitanes en busca del Dorado y del rico cerro de Potosí, ¿iban a mostrarse menos animosos los discípulos de Cristo, los conquistadores de las almas?

En noviembre de 1590, según la carta del comisario fray Baltasar Navarro a Su Majestad, llegaba la expedición al Tucumán (carta fechada en Santiago del Estero el 26 de enero de 1591). En todo aquel territorio no había por aquel tiempo sino dos obispados, el del Tucumán y el del Río de la Plata. El primero era tan pobre, decía su obispo, fray Fernando Trejo, en 1601, que su catedral carecía de ornamentos decentes y no tenía cómo poder levantar el seminario. Los franciscanos, dominicos y mercedarios habían penetrado en la región años hacía, pero su número era muy escaso. Tras ellos vinieron los padres de la Compañía de Jesús, pocos también. En 1610 la Orden de Santo Domingo sólo tenía un convento en Córdoba; los franciscanos tenían seis: en Córdoba, Santiago del Estero, Tucumán, Rioja, Talavera y Salta, pero en el que más había seis o siete frailes y en el que menos dos o tres; los mercedarios tenían también seis casas, en las mismas ciudades, pero su número era menor; finalmente, la Compañía sólo tenía domicilios en Córdoba y Tucumán, aunque en el primero los religiosos pasaban de veinte. Si esto sucedía en 1610, ya podremos calcular lo que sería en 1591, o sea unos veinte años antes, en el momento en que Solano arriba a esas tierras.

Muy escasa es la documentación que poseemos sobre sus actividades apostólicas en el Norte argentino. Casi todos sus biógrafos, aun en la época moderna, no han hecho otra cosa sino inspirarse, no siempre con fidelidad, en las declaraciones de los procesos. Por fortuna, éstos se llevaron a cabo cuando aún vivían muchos que habían conocido y tratado al Santo, y de allí que su testimonio sea de calidad. Fray Francisco permaneció en el Tucumán sólo once años, de 1591 a 1602, primero como misionero y doctrinero de Socotonio y la Magdalena, y a partir de 1595, como custodio o viceprovincial de todos los conventos del Tucumán y del Paraguay, dependientes de la provincia del Perú.

La labor del misionero era ardua. No sólo había que vencer la resistencia del indígena, receloso siempre de los españoles, de quienes había recibido y recibía muchas vejaciones, sino, además, romper con las dificultades de la lengua y las que oponía la misma naturaleza, en un país cruzado por montes y ríos y en su mayor parte deshabitado. La caridad y mansedumbre de Solano y la pobreza de su hábito le ganó el corazón de los indios; se aplicó al estudio de su lengua y Dios ayudó sus esfuerzos. Se dice que poseyó el don de lenguas, pero no está de más advertir que, por las declaraciones de quienes le trataron, el capitán Andrés García de Valdés le enseñó la Tonocote y uno de sus compañeros confiesa que tardó cuatro meses en aprender otra de las lenguas indígenas. Sin embargo, en su caso se renovó el milagro del día de Pentecostés, porque, hablando en una sola lengua, sus oyentes le entendían como si les hablara en la propia.

El Santo se impuso a aquellas mentes casi infantiles y el secreto de sus éxitos estuvo en su perfecta unión con Dios. Hay un hecho que aparece referido por uno de los testigos de los procesos, el cura de la Nueva Rioja, don Manuel Núñez Maestro, pero sus biógrafos lo han desfigurado y hasta lo han hecho inverosímil. El Jueves Santo de 1593 Solano se encuentra en la población, que apenas lleva dos años de fundada. Ha venido invitado por el cura. Cuarenta y cinco caciques con su respectivo séquito se dan cita en el mismo lugar y este número de indios alarma al teniente de gobernador, quien aconseja a los vecinos preparar las armas. En la noche, como era el uso de España y de muchas ciudades del Perú, va en procesión un grupo de disciplinantes, desnudos medio cuerpo arriba, azotando sus espaldas. Los indios no salen de su asombro. Solano aprovecha la ocasión para hablarles del Redentor y de sus sufrimientos por nosotros: les cautiva y le piden que los instruya en los misterios de la fe. Algunos dieron en decir que los bautizó a poco a todos y que su número llegaría a 9.000. El cura Núñez no dice esto. Sus palabras textuales son: «Los retuvo a todos hasta que fueron bautizados».

Solano no podía desconocer lo que habían ordenado sobre el particular los concilios limenses de 1567 y 1584. En el Tucumán se conocían esas prescripciones y en 1597 las hacía suyas el sínodo celebrado en Santiago del Estero por el obispo Trejo. Tampoco nos parece verosímil que fueran 9.000 los bautizados. El cura Núñez dice solamente que el número de indios llegaría a 9.000, pero es más que probable que en ese número incluía los de la región o los que estaban sujetos a los caciques que hicieron su aparición en la Rioja. Aun reduciendo el hecho a sus debidas proporciones, la acción del apóstol campea y sobresale. Tampoco creemos, como algunos afirman, que su actividad se extendiera al Gran Chaco y a otras regiones alejadas del Tucumán. No hay fundamento para asegurarlo. Santiago del Estero, la desaparecida Esteco, la Rioja y Córdoba fueron el teatro de sus hazañas. En todos estos lugares dejó las huellas de su paso y testimonios evidentes de su santidad. Cítanse las fuentes de Talavera o Esteco y la de la Nueva Rioja. En ambas brotó el agua al conjuro de la voz de Solano. De la primera apenas cabe dudar, pues cuando, en 1617, pasó por allí el visitador del Tucumán, don Francisco de Alfaro, todos le señalaron la fuente del padre Solano que allí brotaba copiosamente.

En el año 1601 los superiores le llaman al Perú. Querían servirse de él para la nueva recolección de Nuestra Señora de los Angeles, que estaba a punto de fundarse en Lima. Obediente a la voz de Dios, emprende el largo camino que le separa de aquella ciudad. Su humildad no acepta el cargo de guardián y queda como vicario. No mucho después el comisario fray Juan Venido le envía a la ciudad de Trujillo, en calidad de guardián. Esta vez no puede rehuir el cargo. En 1604 vuelve nuevamente a la recoleta de Lima y en diciembre del siguiente año, abandonando su retiro y con un crucifijo en la mano, sale por calles y plazas, exhortando a todos a hacer penitencia de sus pecados y amenazando a los reacios con los castigos de Dios. La vista de aquel fraile, espejo de la penitencia, el ardor de su mirada y el fuego de sus palabras, conmueve a sus oyentes. Le siguen hasta la plaza Mayor y allí el gentío se hace cada vez más numeroso. Resuenan por los aires las voces de perdón y por toda la ciudad cunde la voz de un inminente castigo del cielo. Recientes están los ejemplos de Arica y Arequipa, asoladas por un terremoto, de modo que aquella noche hubo que dejar abiertas las iglesias, por el gran concurso de gente que pedía a gritos confesión.

La ciudad pasó la noche en alarma. Hasta Rosa, la virgen incomparable, azota su cuerpo sin piedad, pidiendo a Dios por los pecadores. El virrey, conde de Monterrey, manda al siguiente día hacer una averiguación del hecho. Ordena, de acuerdo con el padre comisario, que un tribunal examine e inquiera del predicador lo que ha dicho y las causas que le han movido a decirlo. Solano se presenta sereno y, como ha obrado por divino impulso, no hace sino exponer la verdad. Sin embargo, recibió una admonición, a fin de que en adelante no perturbara la tranquilidad de los habitantes.

En lo sucesivo su vida es más del cielo que de la tierra. Sus fuerzas van decayendo visiblemente y por esta causa se le traslada al convento de Jesús, de Lima, donde, tras breve enfermedad, causada más por las privaciones y trabajos que por el desgaste natural del organismo, fallece el día de San Buenaventura, 14 de julio de 1610, cuando se elevaba la hostia en la misa mayor. Su entierro tuvo contornos apoteósicos. El virrey, marqués de Montesclaros, y el arzobispo Lobo Guerrero son los primeros en conducir el féretro a la iglesia, donde la guardia de alabarderos apenas puede contener a la multitud. Predica sus virtudes el provincial de la Compañía, Juan Sebastián de la Farra, y se le da sepultura en la cripta de la iglesia, donde más tarde se levantará una capilla. El mismo año de su muerte, a 23 de julio de 1610, se empezaron las informaciones sobre su vida y virtudes, las cuales dieron por resultado el que la santidad de Clemente X lo beatificase en el año 1675 y Benedicto XIII lo proclamase Santo en 1726.

Rubén Vargas Ugarte, S.I.,
San Francisco Solano, en Año Cristiano, Tomo III,
Madrid, Ed. Católica (BAC 185), 1959, pp. 125-133.

FUENTES:
http://www.portalmisionero.com/noa/franciscosolano.htm
http://www.franciscanos.org/santoral/menud.html 



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