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mercoledì 25 settembre 2013

ECCO COME SCRIVE IL PAPA BENEDETTO XVI


Ratzinger: "Caro Odifreddi
le racconto chi era Gesù"

La fede, la scienza, il male. Un dialogo a distanza fra Benedetto XVI e il matematico. Su Repubblica in edicola


Ill. mo Signor Professore Odifreddi, (...) vorrei ringraziarLa per aver cercato fin nel dettaglio di confrontarsi con il mio libro e così con la mia fede; proprio questo è in gran parte ciò che avevo inteso nel mio discorso alla Curia Romana in occasione del Natale 2009. Devo ringraziare anche per il modo leale in cui ha trattato il mio testo, cercando sinceramente di rendergli giustizia.


Il mio giudizio circa il Suo libro il Suo libro nel suo insieme è, però, in se stesso piuttosto contrastante. Ne ho letto alcune parti con godimento e profitto. In altre parti, invece, mi sono meravigliato di una certa aggressività e dell'avventatezza dell'argomentazione. (...)

Più volte, Ella mi fa notare che la teologia sarebbe fantascienza. A tale riguardo, mi meraviglio che Lei, tuttavia, ritenga il mio libro degno di una discussione così dettagliata. Mi permetta di proporre in merito a tale questione quattro punti:

1. È corretto affermare che "scienza" nel senso più stretto della parola lo è solo la matematica, mentre ho imparato da Lei che anche qui occorrerebbe distinguere ancora tra l'aritmetica e la geometria. In tutte le materie specifiche la scientificità ha ogni volta la propria forma, secondo la particolarità del suo oggetto. L'essenziale è che applichi un metodo verificabile, escluda l'arbitrio e garantisca la razionalità nelle rispettive diverse modalità.

2. Ella dovrebbe per lo meno riconoscere che, nell'ambito storico e in quello del pensiero filosofico, la teologia ha prodotto risultati durevoli.

3. Una funzione importante della teologia è quella di mantenere la religione legata alla ragione e la ragione alla religione. Ambedue le funzioni sono di essenziale importanza per l'umanità. Nel mio dialogo con Habermas ho mostrato che esistono patologie della religione e - non meno pericolose - patologie della ragione. Entrambe hanno bisogno l'una dell'altra, e tenerle continuamente connesse è un importante compito della teologia.

4. La fantascienza esiste, d'altronde, nell'ambito di molte scienze. Ciò che Lei espone sulle teorie circa l'inizio e la fine del mondo in Heisenberg, Schrödinger ecc., lo designerei come fantascienza nel senso buono: sono visioni ed anticipazioni, per giungere ad una vera conoscenza, ma sono, appunto, soltanto immaginazioni con cui cerchiamo di avvicinarci alla realtà. Esiste, del resto, la fantascienza in grande stile proprio anche all'interno della teoria dell'evoluzione. Il gene egoista di Richard Dawkins è un esempio classico di fantascienza. Il grande Jacques Monod ha scritto delle frasi che egli stesso avrà inserito nella sua opera sicuramente solo come fantascienza. Cito: "La comparsa dei Vertebrati tetrapodi... trae proprio origine dal fatto che un pesce primitivo "scelse" di andare ad esplorare la terra, sulla quale era però incapace di spostarsi se non saltellando in modo maldestro e creando così, come conseguenza di una modificazione di comportamento, la pressione selettiva grazie alla quale si sarebbero sviluppati gli arti robusti dei tetrapodi. Tra i discendenti di questo audace esploratore, di questo Magellano dell'evoluzione, alcuni possono correre a una velocità superiore ai 70 chilometri orari..." (citato secondo l'edizione italiana Il caso e la necessità, Milano 2001, pagg. 117 e sgg.). 

In tutte le tematiche discusse finora si tratta di un dialogo serio, per il quale io - come ho già detto ripetutamente  -  sono grato. Le cose stanno diversamente nel capitolo sul sacerdote e sulla morale cattolica, e ancora diversamente nei capitoli su Gesù. Quanto a ciò che Lei dice dell'abuso morale di minorenni da parte di sacerdoti, posso  -  come Lei sa  -  prenderne atto solo con profonda costernazione. Mai ho cercato di mascherare queste cose. Che il potere del male penetri fino a tal punto nel mondo interiore della fede è per noi una sofferenza che, da una parte, dobbiamo sopportare, mentre, dall'altra, dobbiamo al tempo stesso, fare tutto il possibile affinché casi del genere non si ripetano. Non è neppure motivo di conforto sapere che, secondo le ricerche dei sociologi, la percentuale dei sacerdoti rei di questi crimini non è più alta di quella presente in altre categorie professionali assimilabili. In ogni caso, non si dovrebbe presentare ostentatamente questa deviazione come se si trattasse di un sudiciume specifico del cattolicesimo.

Se non è lecito tacere sul male nella Chiesa, non si deve però, tacere neppure della grande scia luminosa di bontà e di purezza, che la fede cristiana ha tracciato lungo i secoli. Bisogna ricordare le figure grandi e pure che la fede ha prodotto  -  da Benedetto di Norcia e sua sorella Scolastica, a Francesco e Chiara d'Assisi, a Teresa d'Avila e Giovanni della Croce, ai grandi Santi della carità come Vincenzo dè Paoli e Camillo de Lellis fino a Madre Teresa di Calcutta e alle grandi e nobili figure della Torino dell'Ottocento. È vero anche oggi che la fede spinge molte persone all'amore disinteressato, al servizio per gli altri, alla sincerità e alla giustizia. (...)

Ciò che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico. Se Lei pone la questione come se di Gesù, in fondo, non si sapesse niente e di Lui, come figura storica, nulla fosse accertabile, allora posso soltanto invitarLa in modo deciso a rendersi un po' più competente da un punto di vista storico. Le raccomando per questo soprattutto i quattro volumi che Martin Hengel (esegeta dalla Facoltà teologica protestante di Tübingen) ha pubblicato insieme con Maria Schwemer: è un esempio eccellente di precisione storica e di amplissima informazione storica. Di fronte a questo, ciò che Lei dice su Gesù è un parlare avventato che non dovrebbe ripetere. Che nell'esegesi siano state scritte anche molte cose di scarsa serietà è, purtroppo, un fatto incontestabile. Il seminario americano su Gesù che Lei cita alle pagine 105 e sgg. conferma soltanto un'altra volta ciò che Albert Schweitzer aveva notato riguardo alla Leben-Jesu-Forschung (Ricerca sulla vita di Gesù) e cioè che il cosiddetto "Gesù storico" è per lo più lo specchio delle idee degli autori. Tali forme mal riuscite di lavoro storico, però, non compromettono affatto l'importanza della ricerca storica seria, che ci ha portato a conoscenze vere e sicure circa l'annuncio e la figura di Gesù. 

(...) Inoltre devo respingere con forza la Sua affermazione (pag. 126) secondo cui avrei presentato l'esegesi storico-critica come uno strumento dell'anticristo. Trattando il racconto delle tentazioni di Gesù, ho soltanto ripreso la tesi di Soloviev, secondo cui l'esegesi storico-critica può essere usata anche dall'anticristo - il che è un fatto incontestabile. Al tempo stesso, però, sempre - e in particolare nella premessa al primo volume del mio libro su Gesù di Nazaret - ho chiarito in modo evidente che l'esegesi storico-critica è necessaria per una fede che non propone miti con immagini storiche, ma reclama una storicità vera e perciò deve presentare la realtà storica delle sue affermazioni anche in modo scientifico. Per questo non è neppure corretto che Lei dica che io mi sarei interessato solo della metastoria: tutt'al contrario, tutti i miei sforzi hanno l'obiettivo di mostrare che il Gesù descritto nei Vangeli è anche il reale Gesù storico; che si tratta di storia realmente avvenuta. (...)

Con il 19° capitolo del Suo libro torniamo agli aspetti positivi del Suo dialogo col mio pensiero. (...) Anche se la Sua interpretazione di Gv 1,1 è molto lontana da ciò che l'evangelista intendeva dire, esiste tuttavia una convergenza che è importante. Se Lei, però, vuole sostituire Dio con "La Natura", resta la domanda, chi o che cosa sia questa natura. In nessun luogo Lei la definisce e appare quindi come una divinità irrazionale che non spiega nulla. Vorrei, però, soprattutto far ancora notare che nella Sua religione della matematica tre temi fondamentali dell'esistenza umana restano non considerati: la libertà, l'amore e il male. Mi meraviglio che Lei con un solo cenno liquidi la libertà che pur è stata ed è il valore portante dell'epoca moderna. L'amore, nel Suo libro, non compare e anche sul male non c'è alcuna informazione. Qualunque cosa la neurobiologia dica o non dica sulla libertà, nel dramma reale della nostra storia essa è presente come realtà determinante e deve essere presa in considerazione. Ma la Sua religione matematica non conosce alcuna informazione sul male. Una religione che tralascia queste domande fondamentali resta vuota.

Ill. mo Signor Professore, la mia critica al Suo libro in parte è dura. Ma del dialogo fa parte la franchezza; solo così può crescere la conoscenza. Lei è stato molto franco e così accetterà che anch'io lo sia. In ogni caso, però, valuto molto positivamente il fatto che Lei, attraverso il Suo confrontarsi con la mia Introduzione al cristianesimo, abbia cercato un dialogo così aperto con la fede della Chiesa cattolica e che, nonostante tutti i contrasti, nell'ambito centrale, non manchino del tutto le convergenze.

Con cordiali saluti e ogni buon auspicio per il Suo lavoro.


lunedì 17 dicembre 2012

Beata Madre Teresa di Calcutta




La beata Madre Teresa di Calcutta ripeté mille volte, in "Occidente": 

"Voi parlate di pace ogni momento, ma sterminate i nascituri ogni giorno: siete in piena guerra".


COR MARIAE IMMACULATUM
INTERCEDE PRO NOBIS

mercoledì 5 dicembre 2012

*** SAN PIETRO AP. e Cronologia del primo cristianesimo.


Pietro nell'alta società


Abbiamo visto come L. Vitellio, delegato da Tiberio come plenipotenziario per procedere «ad una sistemazione generale dell’Oriente» (così Tacito) avesse deposto a Gerusalemme il gran sacerdote Caifa, e così fatto cessare le persecuzioni ebraiche contro i primi cristiani. Riprendiamo la cronologia del primo cristianesimo.

Anno 41 dopo Cristo – In quell’anno, e fino al 44, Roma restituisce alla provincia di Giudea l’autonomia, sotto il governo del tirannello locale Erode Agrippa. Immediatamente, la persecuzione riprende. Erode fa uccidere l’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, e certamente su istigazione del sinedrio. Infatti gli Atti degli Apostoli (12, 1-3) ricordano che giusto in quel periodo Agrippa arresta anche Pietro, «visto che ciò faceva piacere ai giudei», «e prese a maltrattare alcuni membri della Chiesa».

Gesù era stato crocifisso da appena un decennio: e la Chiesa poteva finire lì. E’ certo infatti che Agrippa avesse l’intenzione di uccidere anche Pietro: voleva«farlo apparire davanti al popolo», lo stesso popolo che, sobillato dai sacerdoti, aveva fatto condannare Gesù. Pietro, dicono gli Atti, fu liberato miracolosamente da un angelo, mentre dormiva incatenato con due catene, in mezzo a due soldati: sorveglianza strettissima. Nella notte, il nostro pescatore va dritto alla casa di «Maria, madre di Giovanni soprannominato Marco,doverano molti radunati e in preghiera»: forse la prima riunione clandestina dei perseguitati.

Salutati gli sbalorditi cristiani, Pietro «uscì e andò in altro luogo». Dove? Gli Atti evitano di dirlo.
Ed anche Pietro, da latitante qual è, nella sua prima lettera (5,13), usa un linguaggio convenuto, da clandestino. Saluta infatti «la comunità degli eletti che è in Babilonia, insieme a Marco mio figlio». Marco è l’evangelista e suo segretario; Babilonia è senza dubbio Roma.

Anno 42 dopo Cristo – Pietro è dunque a Roma. Sulla sua presenza nella capitale e in quell’anno, «all’inizio del regno di Claudio» imperatore, le fonti sono molteplici, ancorchè tutte cristiane (Eusebio, Clemente Alessandrino, Gerolamo, Ireneo). Ma c’è un motivo preciso per cui Pietro, inseguito dall’odio giudaico, riparasse a Roma quasi fosse il luogo più sicuro dove nascondersi anziché la bocca del leone. Anzi due.

Primo: proprio allora Claudio, come dice Tacito, stava meditando di espellere gli ebrei dalla capitale, come aveva già  fatto Tiberio nel 19. Finì per non farlo per il momento (gli ebrei, «per la loro massanon avrebbero facilmente potuto essere espulsi», dice Tacito), ma ne limitò il potere e l’arroganza: «Ordinò loro di non riunirsi tutti insieme», attesta ancora Tacito. Dunque la lobby ebraica (esisteva già, come vedremo) non poteva nuocere al pescatore più di tanto (1).Il secondo motivo e più importante sfugge agli storici iper-critici: nel 42 si trovava sicuramente a Roma Lucio Vitellio, il potente delegato che Tiberio aveva inviato in Oriente per una sistemazione generale dei problemi, e che a Gerusalemme aveva stroncato la persecuzione ebraica contro i cristiani.

Anno 43 dopo Cristo – Che Vitellio godesse la massima fiducia anche del nuovo imperatore è certo: infatti, nel 43 Vitellio fu console, anzi Claudio, assente per la sua spedizione in Britannia, gli delegò poteri straordinari. Possiamo pensare che Pietro fu sotto la protezione di questo importante personaggio, apparentemente favorevole ai cristiani?

Un apocrifo del secondo secolo, gli Atti di Pietro, dice addirittura che il primo Papa, a Roma, fu ospite nella casa «di Marcello»: e vale la pena ricordare che Vitellio, dopo aver deposto Pilato a Gerusalemme (Giuseppe Flavio, AntichitàGiudaiche, XVIII , 89), affidò provvisoriamente il governo della Giudea ad un suo amicus di nome Marcello.

Si tratta della stessa persona? Non possiamo saperlo con certezza. Ma è certo che Pietro fu accolto e ascoltato, nella sua prima predicazione, non dalla plebe, bensì dalla classe dirigente romana. Tacito (Annali, XIII, 32) attesta che proprio nel 42-43 l’aristocratica Pomponia Grecina si convertì ad una «religione straniera», externa superstitio, che è sicuramente il cristianesimo.

Ora, Pomponia Grecina, convertita dalle parole del pescatore galileo, era una donna della più alta società nobiliare e politica: suo marito è quell’Aulo Plauzio che giusto nel 43 fu generale della spedizione in Britannia con Claudio imperatore. Di più: nella Lettera ai Romani, (16,11) San Paolo accenna a fedeli che sono «nella casa di Narciso»: che era il più influente e potente dei liberti alla corte di Claudio. E Luca dedica il suo Vangelo a un Teocrito che chiama kratistos, traduzione greca del termine egregius, il titolo che spettava ufficialmente ai cavalieri romani.

La classe equestre, l’alta borghesia che a Roma stava sostituendo i nobili (senatori) nell’amministrazione dell’impero, a fianco dei liberti d’alto rango che erano, di fatto, ministri e amministratori imperiali. L’umile Pietro, e il messaggio di Gesù, si trovarono quindi accolti e ospitati da ministri, alti burocrati e grandi manager di Stato, membri del governo imperiale: da quei «cesarianis equitibus» di cui parla Clemente d’Alessandria nella sua Ipotiposi.

Anche Paolo, nella Lettera ai Filippesi, manda saluti a «quelli della casa di Cesare» (4,22). Non sono familiari carnali dell’imperatore, ma i dirigenti e i funzionari dell’amministrazione imperiale, la domus, la corte. A questi Pietro predica. E su loro richiesta viene redatto il Vangelo di Marco.

Anno 49 dopo Cristo – Pietro dev’essere partito da Roma, ma lasciandovi Marco. A lui, dice Eusebio attingendo dagli scritti di Clemente alessandrino, «i presenti (alla predicazione di Pietro), che erano molti, invitarono Marco, che lo accompagnava e ricordava le cose che aveva dettoa metterle per iscritto. Egli lo fece e consegnò il Vangelo a quelli che lo chiedevano».

Dello stesso passo ci è giunta una versione in latino: «MarcusPetri sectator,predicante Petro evangelium palam coram quibusdam Cesarianis equitibus et multa Christi testimonia proferente, petitus ab hisut possent quae dicebantur memoriae commendare, scripsit».

Furono i cavalieri della corte di Cesare a incitare Marco a scrivere il primo Vangelo, perché «potessero fissare la memoria» di quel che aveva detto il capo degli apostoli. E come scrisse Marco il suo Vangelo?

Lo dirà Papia vescovo di Gerapoli: «Marco, l’interprete di Pietroscrisse con esattezza le cose che ricordava, ma non in ordine, sui detti e fatti del Signore. Egli (Marco) non aveva udito il Signore né lo aveva seguito, ma come ho detto più tardi aveva accompagnato Pietro. Egli dava gli insegnamenti secondo i bisogni, ma non come se facesse una raccolta sistematica dei discorsi del Signore».

E’ un’esatta descrizione del Vangelo di Marco: scritto senza pretesa di fare una storia, riportava le parole di Pietro con esattezza, ma senza ordine cronologico. Tutte invenzioni, hanno detto per un secolo gli ipercritici: i Vangeli non sono stati scritti che tardi, molto tardi, al minimo nel 70 dopo Cristo, più probabilmente dopo e lo hanno ripetuto fino al 1972, quando nelle grotte di Qumran fu trovato un piccolo frammento di papiro scritto in greco.

Prima ancora di tradurlo e capire di cosa parlava, gli archeologi – in base alla sola grafia del testo – lo datarono a prima del 50 dopo Cristo. Solo dopo ci si accorse che questo frammento conteneva un passo del Vangelo di Marco.

(D)Javid Bey
   Frammento 7Q5
E’ il celebre frammento 7Q5.

E’ la prova archeologica che dà torto agli ipercritici.

E dà ragione a Papia, Clemente, Eusebio, dimostrando lo scrupolo estremo con cui veniva tramandata la tradizione, a un secolo o due di distanza.

Non s’inventavano niente.

Anno 49 dopo Cristo (o 48) – E’ anche l’anno in cui Saulo di Tarso comincia a firmarsi con il nome latino, Paolo. Perché? Perché il proconsole di Cipro si chiamava Sergio Paulo (o Paullo) e aveva voluto conoscere Saulo e Barnaba, contro il parere di un suo mago ebreo, di nome Bar-Iesus, che aveva una certa influenza su di lui. L’incontro si trasformò in amicizia, probabilmente in conversione, come è accertato per il figlio del proconsole Sergio Paolo nel 70.

E’ per gratitudine che Saulo assume il nome del ricco benefattore (i Sergi Pauli avevano latifondi immensi in Asia Minore); è un’altra conferma del legame che si stabilì tra quei giudei primi predicatori e l’alta società di Roma. Non è inverosimile, anzi.

Anzitutto, i grandi personaggi di Roma non vivevano appartati, come gli Agnelli nelle loro ville e magioni. Si facevano un punto d’onore di essereaccessibili (faciles), diremmo democratici, aperti alle richieste di gente di rango inferiore: è l’istituzione romana della clientela, l’istituto italico mai tramontato della raccomandazione: gli umili e i senza-potere chiedevano raccomandazioni ai potenti, i quali eseguivano ed esaudivano; s’intende che in cambio, esigevano dai clientes la loro fedeltà personale: do ut des. Una fedeltà che si spingeva fino all’obbligo di partecipare alla lotta politica, e nel caso alla guerra (civile), dalla parte dei patroni. A Roma, la potenza di un grand commis si misurava dalla folla dei clienti che la mattina si accalcava davanti alla sua casa per salutare, chiedere aiuti e favori.

Ma l’attenzione cordiale di quella classe dirigente verso gli umili galilei aveva scopi più eminentemente politici. Anzitutto, era attenzione per un certo tipo di giudei non ostili all’impero: è possibile che i grandi di Stato sperassero che la diffusione della nuova fede in Palestina, se favorita, pacificasse quella provincia sempre ribelle e difficile. Del resto, quella stessa classe aveva protetto, prima dei cristiani e per lo stesso motivo, i Samaritani: sottraendoli alle vessazioni del Sinedrio, se n’era assicurata la fedeltà. Però c’era un altro motivo, più profondo.

Nell’alta politica romana, e persino nella corte imperiale, si affrontavano due ideologie opposte, inconciliabili: quella che potremmo chiamare occidentale erepubblicana, e quella che diremmo orientale e monarchica. Chi voleva dare all’impero la forma di una monarchia – i discendenti e seguaci di Marco Antonio, divenuto egiziano nella relazione con Cleopatra – associava questa al concetto di Oriente, che comprendeva insieme la divinizzazione del sovrano e uno stile di vita orientale, ossia senza regole, dato alla crapula e agli eccessi, perché il sovrano orientale è un dio e dunque sopra ogni legge, anche morale.

L’ideologia degli occidentali mirava invece a tenere la nuova realtà di fatto, che era l’impero, nel quadro dell’antica città-Stato, e nello stile dellarepubblica. Bisogna infatti ricordare che quella situazione del potere che oggi chiamiamo impero non era sentita allora come legittima: era il risultato della guerra civile, il potere supremo di qualcuno che l’aveva preso con la forza delle sue legioni private. Per questo Augusto si comportò sempre attentamente come un primus inter pares, mantenne il Senato (che gli era ostile e che poteva spazzare con i pretoriani) e gli tributò onori formali.

Giudicò necessario per la pace di Roma mantenere, con un’alta finzione, lalegalità del sistema politico precedente, quello ormai superato della città-Stato. Ebbene: la fazione repubblicana – fra cui i primi imperatori - tendeva ad uno stile di vita specifico, opposto a quello orientale: austero, semplice, alla mano. Moralistico e religioso.

La casa di Augusto era modesta in rapporto a quella di molti senatori. E Augusto si fece volentieri raffigurare come sacerdote, intento a celebrare i sacrifici della Roma prisca, il suovetaurilia dell’Ara Pacis. Gli amministratori e grand commis del primo impero, essendo borghesi e non aristocratici, avevano una ragione in più per adottare questo stile di vita, l’onesta frugalità di onesti manager di Stato, nei quali l’esibizione di lussi ed eccessi sarebbe stata interpretata come corruzione e illecito arricchimento. Non a caso, lo stoicismo era la loro filosofia di casta.

Non è dunque strano che questi grandi signori di recente potere abbiano guardato con cordialità quegli orientali (ebrei cristiani) che però praticavano, anziché le lascivie, le antiche virtù romane: la pietas, la fides (fedeltà), la verecundia, la fortitudo e nelle virtù teologali praticate dai primi cristiani costoro dovettero vedere la virtus romana.

Li sentirono affini, fratelli, anzi maestri in quelle virtù che sapevano Roma aveva perso, e che volevano restaurare per la saldezza stessa dell’impero.

Infatti, quando salirà al trono Nerone, e con lui l’ideologia orientale, il giovane imperatore proclamerà che con lui cominciava l’era della «laetitia», contro la «tristizia» degli stoici e dei repubblicani occidentali: il regno dell’allegria, delle lascivie, delle crapule a tavola, al circo e a letto, e degli eccessi d’ogni tipo. Via, gli «aerumnosi Solones» (i «Soloni arcigni» di Persio), è il momento di sesso-droga-rock’n roll.

Stiamo esagerando? Non troppo. Infatti in un graffito di Pompei, scritto sul muro tra il 64 e il 79, qualcuno deride un tale Bovio «che dà ascolto ai cristiani, questi 'saevos Solones’».

Soloni gli stoici e soloni i cristiani: unificati da un aggettivo che è un segno di tempra o volontà morale. Pomponia Grecina, la nobildonna d’altissimo rango che fu convertita da Pietro, cessò di andare a feste e ad assistere agli spettacoli del circo: a causa, diceva a chi se ne stupiva, del lutto per un’amica morta. Ma lo disse per quarant’anni. E Tacito, che detesta i cristiani, loda Pomponia per questo.

Dopotutto, Tacito è ferocemente repubblicano: perciò vede nell’austerità di Pomponia il pudore delle antiche dame della Roma arcaica, e di cui lamenta la scomparsa (2).
Maurizio Blondet






1) In quello stesso 41 dopo Cristo Claudio invia una lettera assai dura agli ebrei di Alessandria, numerosissimi nella grande città ellenistica, che procuravano continui disordini e scontri con la parte greca della popolazione. Ordina loro di «non assicurarsi più privilegi di quelli che già hanno, di non mandare ambascerie distinte quasi vivessero in due città diverse, di non infiltrarsi negli agoni (ossia di non manipolare lo sport, da cui dipendeva, allora, il favore popolare e che aveva una forza 'politica’), di accontentarsi dei beni propri (sic), e di non far venire per mare da Siria o dall’Egitto altri giudei, così da costringerci a gravi sospetti»: i sospetti, evidentemente, sono per le attività di lobby della nota comunità, così esattamente descritte e condannate. Nella lettera, l’imperatore definisce questa attività ebraica «una peste comune a tutto il mondo», ben visibile anche a Roma (Marta Sordi, «I cristiani e l’impero romano», Milano, 2004, pagina 40).
2) Pomponia Grecina verrà accusata di coltivare un culto estraneo nel 57 (primi anni del regno di Nerone): verrà salvata dai grand commis, che la faranno giudicare da un tribuinale domestico, ossia dai familiari, che l’assolsero: altra istituzione arcaica e repubblicana, rimessa in auge per l’occasione. Verranno poi i tempi in cui nobili e senatori saranno sospettati di essere segretamente cristiani se appena davano la sensazione di inertia, ossia di astenersi dalla vita politica, di appartarsi dalla società.
"IMMACOLATA MIA
E MIO TUTTO!"

** CONVERTITI, fratello! Non ti bastano i 4 Vangeli, più Tacito e G.Flavio, e ...precise scoperte archeologiche, per non parlare degli Atti dei Martiri?


Gesù e Roma, affare di Stato


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Ci sono ancora degli increduli i che sostengono che Gesù non sia mai esistito, perchè i Vangeli sono la sola testimonianza della sua esistenza, testimonianza interessata e dunque non credibili. E che le fonti pagane che ne parlano, indipendenti dai Vangeli, sono interpolazioni e falsificazioni inserite nei testi dai primi cristiani.

Questi increduli sono gli eredi attardati della iper-critica anticristiana ottocentesca, che per esempio bollò come interpolazioni, ossia falsi inseriti da cristiani, il passo negli Annali di Tacito (XV 44,5), dove si dice che un tal Cresto fu messo a morte dal procuratore Pilato; e ancor più la frase di Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche (XVIII, 64) dove si parla di Gesù e di come, «su denuncia dei nostri notabili (Giuseppe era ebreo) Pilato lo condannò a morte»: il celebre testimonium flavianum, rigettato come falso.

Ma pochi sanno che la ricerca storica ha fatto nel frattempo grandi passi avanti, debellando gli ipercritici.
Pilato
   L'iscrizione recante il nome di Ponzio Pilato, Prefetto della Giudea negli anni 26-36 dopo Cristo
A cominciare da precise scoperte archeologiche – la lapide scoperta nel 1961 a Cesarea, dove si legge di un edificio dedicato a Tiberio da (PO) NTIUS PILATUS (PRAEF)ECTUS IUDA(EE) – gli storici della romanità hanno ricostruito passo passo, con una investigazione degna della Polizia scientifica, non solo la storia di Gesù, ma l’interesse immediato che la sua predicazione suscitò negli ambienti del potere imperiale di Roma.

Specie gli studi della storica Marta Sordi e dei suoi ricercatori (per lo più ricercatrici) hanno rivoluzionato le conoscenze dei primi anni del cristianesimo. Al punto da consentire di stabilire una precisa e minuziosa cronologia degli eventi.

Proviamo qui a delinearla.

Anno 31 della nostra era: a Roma, cade in disgrazia Seiano, il troppo potente prefetto dei pretoriani (le guardie del corpo imperiali) a cui il caratteriale Tiberio, ritiratosi a Capri, aveva affidato gli affari. Avvertito da delatori che Seiano stava tramando per scalzarlo nell’impero, Tiberio passò dalla fiducia eccessiva alla totale sfiducia e fece uccidere il suo braccio destro.

Perché la caduta di Seiano è cruciale nel destino mortale di Gesù? Perché Pilato, prefetto di Giudea, era un raccomandato di Seiano, un suo cliente. Gli doveva la carriera. Pilato dunque, privato di colpo del suo protettore a Roma, si sente debole e insicuro nel 31, che è l’anno probabile del processo (alcuni storici ne fissano la data: 27 aprile), e non in grado di resistere alle pressioni dei sacerdoti che sobillano la folla contro il Nazareno. Quando questi gli gridano: se salvi Gesù, «non sei amico di Cesare», Pilato deve pensare: accidenti, questi mi rovinano.

Non era la prima volta che i capi ebraici avevano fatto arrivare all’imperatore dei rapporti contro di lui. Per esempio Tiberio, informato dai notabili giudaici, gli aveva ordinato di togliere certi scudi dorati, da lui dedicati per adulazione all’imperatore ed esposti nel palazzo di Erode. Un segno di più che l’imperatore non lo aveva in simpatia; a quel punto, Tiberio il sospettoso poteva persino sospettare Pilato di complicità nella trama di Seiano. Il che significava la morte.

Per contro i capi ebrei si sentivano forti: con Seiano era caduto un loro nemico, un antisemita (diremmo oggi) che aveva osteggiato duramente il proselitismo ebraico nella capitale. Gesù dunque fu mandato sulla croce nel quadro di questo contesto di potere repentinamente mutato, e di rapporti di forza improvvisamente rovesciati.

Anno 34: esecuzione di Stefano, il primo martire.

La sua lapidazione, raccontata negli Atti degli Apostoli (ci dicono anche che Saulo di Tarso, allora allievo zelante e feroce del sapiente rabbino Gamaliele, partecipò all’esecuzione), era una violazione delle norme romane: nelle province, la prerogativa di infliggere la pena capitale spettava al governatore romano, non alle autorità etniche locali.

Ciò dà a Tiberio l’occasione, probabilmente da lungo tempo attesa, di mettere ordine nella sediziosa provincia giudaica. Infatti, come attesta Tacito, (Annali VI, 38,5) l’imperatore manda un suo delegato, L. Vitellio, per provvedere «alla sistemazione generale dei problemi dellOriente».

Anno 36 o 37: Vitellio piomba a Gerusalemme e, come primo provvedimento, depone il gran sacerdote ebraico Caifa, quello stesso che aveva fatto condannare Gesù: evidentemente, come responsabile dell’esecuzione sommaria di Stefano, illegale per Roma.

Secondo provvedimento: Vitellio depone Pilato, che non viene più riabilitato, e lo sostituisce con un suo uomo di fiducia, di nome – ricordatelo – Marcello.

Il fatto è che nel frattempo la corte imperiale aveva ricevuto un altro rapporto contro Pilato, stavolta inviato dai samaritani; ma certo anche la debolezza mostrata dal governatore non nel processo a Gesù (formalmente legale) ma per non aver impedito la lapidazione abusiva di Stefano, devono aver avuto una parte nella deposizione.

Come lo sappiamo?

Uno storico armeno del V secolo riporta una lettera di Tiberio ad Agbar, toparca di Edessa tra il 13 e il 50 dopo Cristo, in cui l’imperatore comunica che «punirà i giudei» non appena avrà sedato la rivolta degli iberi, e intanto ha già mandato via Pilato.

Un falso, dicono gli ipercritici: invece no. La lettera descrive con precisione la missione affidata da Tiberio a Vitellio e riportata da Tacito, «sistemazione generale dellOriente».

Gli Iberi di cui si parla infatti non sono gli spagnoli, ma gli Iberi del Caucaso, con cui Vitellio ebbe a che fare effettivamente (Vitellio si occupò anche dei Parti e poi di Areta, etnarca di Damasco che si era sottratto al dominio di Roma, nel quadro della sistemazione generale).

Gli Atti degli apostoli attestano a modo loro la stessa cosa: attestano che nel 36 (Pietro e Paolo sono a Gerusalemme in quella data) c’è «la pace per la Chiesa in GiudeaGalilea e Samaria».

Dunque Vitellio aveva fatto cessare la persecuzione degli ebrei contro i primi cristiani.

Ma ora, un piccolo passo indietro: cruciale, importantissimo.

Anno 35: Tiberio propone al Senato di riconoscere il cristianesimo comereligio licita (religione riconosciuta); il Senato, per ripicca perché l’ammissione di nuovi culti era sua prerogativa, respinge la mozione dell’imperatore. E lo fa con un senatoconsulto fatale, perché diverrà il fondamento legale di tutte le future persecuzioni: Non licet esse christianos.

Un senatoconsulto infatti ha forza di legge. Tiberio non può far altro – come un presidente americano d’oggi – che porre il veto: finchè lui è vivo, questa legge anti-cristiana viene sospesa.

Questo, in breve, è ciò che racconta Tertulliano nella sua Apologia (V, 2).

Ribattono gli ipercritici: Tertulliano scrive nel secondo secolo, questa proposta di Tiberio, avvenuta cento anni prima, non poteva conoscerla, s’è inventato tutto di sana pianta.

Ma l’obiezione non regge: Tertulliano scrive ai «responsabili dellimpero» (imperii antistites) per convincerli ad abrogare quel senatoconsulto: come poteva inventarselo? I maggiorenti, che avevano a disposizione gli archivi di Stato, l’avrebbero subito sbugiardato. Anzi, Tertulliano aveva tutto l’interesse a negare l’esistenza di una simile legge, per affermare che le persecuzioni non avevano fondamento giuridico.

Di più. Tertulliano spiega che il Senato non conosceva la situazione in Palestina, mentre Tiberio ne era bene informato perché aveva «un rapporto di Pilato» sulla rapida diffusione della fede.

Insomma l’imperatore, contrariamente ai senatori, aveva studiato la pratica: e aveva capito quanto meno che i seguaci di Cristo toglievano al messianismo ebraico ogni spinta violenta e politica antiromana («Il mio regno non è di questo mondo») e dunque, che era politicamente opportuno riconoscere questa nuova fede, che prometteva di placare l’eterno ribellismo ebraico.

Falso, falso, ribattono gli ipercritici: non c’è alcuna prova di questo rapporto di Pilato.

In realtà, ne parlano anche Giustino ed Eusebio di Cesarea. Questo autore è tardo, è vero: ma racconta il processo e l’esecuzione di un senatore accusato di cristianesimo, Apollonio, avvenuta fra il 183-185, e dice che Apollonio fu condannato in base «al senatoconsulto che dice non essere lecito essere cristiani».

Non può esserselo inventato. E in verità, sarebbe strano il contrario, che Pilato non avesse riferito a Roma la situazione. Il governo romano era una cosa seria, la sua burocrazia era continuamente informata, le relazioni dei governatori delle province erano regolari e normali. Pilato potrà (forse) aver evitato di informare Tiberio del processo a Gesù, conclusosi dopotutto con un’esecuzionelegale, romana; ma non può aver taciuto dei processi ed esecuzioni illegali che il sinedrio aveva scatenato contro i seguaci di Cristo: era un problema urgente d’ordine pubblico.

Di più. Tutto ciò che abbiamo raccontato spiega e illumina il passo più sibillino delle lettere di San Paolo: nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, dove l’apostolo allude al katechon.

Ossia a qualcosa o qualcuno che «trattiene lAnticristo» (2,1-7).

Scrive Paolo: vi ho raccontato a voce che qualcosa trattiene «luomo diniquità», c’è solo da aspettare che «chi lo trattiene sia tolto di mezzo».

Secondo Marta Sordi e le sue ricercatrici-detectives, Paolo accenna qui al veto opposto da Tiberio alla legge senatoriale che rendeva illecita la fede cristiana. Il veto è «ciò che trattiene» (katechon, neutro). Tiberio, «finchè non è tolto di mezzo», è colui che trattiene la persecuzione (qui Paolo usa non più il neutro, ma il maschile). La persecuzione avverrà alla morte dell’imperatore, quando salirà al trono Nerone.

Nei secoli, i cristiani non hanno più capito l’allusione. Ma hanno mantenuto l’idea che il katechon è il romanum imperium, come dice Tommaso d’Aquino: un potere politico amico dell’uomo, e della verità . Non andavano lontani dal vero.

Ma di quest’amicizia – amicizia dei livelli più alti del potere imperiale con i primi cristiani – ci sono altre prove.

(continua)

Maurizio Blondet



LAUDETUR  JESUS  CHRISTUS!
LAUDETUR  CUM  MARIA!
SEMPER  LAUDENTUR!

sabato 10 novembre 2012

“Caso” Galilei... Vi dico che dovete reagire, in nome della Verità.



“Caso” Galilei: il quotidiano tedesco “Die Welt” dà ragione alla Chiesa

galileo Galilei

(di Mauro Faverzani) Il cosiddetto “caso Galilei” torna a far parlare di sé dopo l’articolo del giornalista Paul Badde pubblicato sul quotidiano tedesco Welte ripreso lo scorso 3 novembre dall’agenzia Kreuz.net. Articolo, che capovolge e stravolge la “vulgata” sull’argomento, sostenendo come dar torto alla Chiesa sia oggettivamente impossibile. Per due motivi: «Innanzi tutto - scrive Badde - perché Galilei è divenuto a lungo un mito, senza che ve ne fosse un motivo reale. In secondo luogo, perché in questo processo fu l’Inquisizione ad aver ragione e non il contrario».

Il giornalista fa notare come oggi in questa faccenda siano paradossalmente gli stessi intellettuali atei e “mangiapreti” a dar man forte alla Chiesa, dal filosofo marxista Ernst Bloch fino allo scettico agnostico Paul Feyerabend, che nel 1976 scrisse nel suo saggio Contro il metodo obbligato (traduzione più fedele al titolo originale tedesco rispetto alla resa italiana, più semplicistica, “Contro il metodo”- NdA): «La Chiesa nel caso Galilei si attenne alla ragione molto più di quanto fece Galilei stesso, poiché tenne in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali derivanti dagli insegnamenti dello scienziato. Il verdetto fu razionale e giusto e la sua revisione fu dettata soltanto da logiche di opportunismo politico». È, questo, un passo poco noto e di raro citato testualmente, benché risulti paradigmatico. E che fa il paio con quello scritto da Rino Cammilleri nella sua rubrica “L’antidoto” il 15 gennaio 2008, allorché fece notare come non fosse stata «la Chiesa a metter bocca nella scienza, ma Galileo a voler fare il teologo».

Senza addentrarsi nello specifico, poiché materia già trattata – e con rigore scientifico – in altra sede, val la pena solo ricordare come la “condanna” fosse consistita, in realtà, soltanto nella recita dei sette salmi penitenziali ogni settimana per tre anni, compito oltre tutto che l’imputato – col consenso della Chiesa – delegò volentieri alla figlia monaca, Suor Maria Celeste. Niente carcere, dunque, niente torture, niente isolamento, niente censure, tanto che l’opera ritenuta il suo capolavoro scientifico, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, uscì cinque anni dopo la sentenza.

La verità sta nelle parole del medievista francese, Leo Moulin, che nel suo libro L’Inquisizione sotto l’Inquisizione dichiarò: «Date retta a me, vecchio incredulo che se ne intende: il capolavoro della propaganda anti-cristiana è l’essere riusciti a creare nei cristiani, nei cattolici soprattutto, una cattiva coscienza. A furia di insistere, dalla Riforma ad oggi, ce l’hanno fatta a convincervi di essere i responsabili di tutti o quasi i mali del mondo. Vi hanno paralizzato nell’autocritica masochista. E voi, così spesso ignoranti del vostro passato, avete finito per crederci. Invece io, agnostico ma storico che cerca di essere oggettivo, vi dico che dovete reagire, in nome della Verità. Spesso, infatti, non è vero. E se qualcosa di vero vi fosse, è anche vero che, in un bilancio di venti secoli di Cristianesimo, le luci prevalgono di gran lunga sulle ombre». Che debbano essere i laicisti ed i non credenti a convincere i Cattolici, è il colmo…
(Mauro Faverzani)