di Giulia Galeotti
Il 13 luglio 1965 Paolo VI riceve in udienza privata lo scrittore inglese Graham Greene (1904-1991). L’incontro ha un duplice spessore: da un lato v’è l’uomo di fede, cresciuto e maturato nel proprio cammino di conversione, che viene accolto dal suo Pontefice; dall’altro, l’autore di un romanzo incappato nelle maglie del Sant’Uffizio e l’illuminato ministro di Dio che, oltre un decennio prima, aveva saputo cogliere il valore e il profondo significato dell’opera.
A tu per tu nella calda estate romana, si parlò, infatti, anche de Il potere e la gloria (1940): all’inglese che gli ricordava la condanna ricevuta, sorridendo Montini rispose: “Mister Greene, certe parti del suo romanzo non possono non offendere alcuni cattolici, ma lei non dovrebbe attribuire alcuna importanza a questo”.
Nato a Berkhamstead nel Hertfordshire e compiuti gli studi al Balliol College di Oxford, Green lavorò inizialmente come giornalista (al “Nottingham Journal”, al “Times” e infine allo “Spectator”). Quindi, fu alle dipendenze del Ministero degli esteri, ricoprendo il ruolo che tanto spazio avrà in molti dei suoi romanzi: fu una spia al servizio di sua maestà. Soprattutto, però, in questi anni, si era già verificato l’evento decisivo della sua vita, ricco di implicazioni sulla sua produzione letteraria: la conversione al cattolicesimo. Il tramite fu una donna. Lavorando al “Nottingham Journal”, infatti, Greene aveva avviato una fitta corrispondenza con Viviene Dayrell-Browning, a sua volta convertitasi al cattolicesimo. L’incontro porterà nel febbraio del 1926 al battesimo di Greene e, l’anno dopo, al loro matrimonio.
È del 1938 il primo romanzo del ciclo cattolico (La roccia di Brighton), ciclo che da subito si delinea nei suoi inconfondibili tratti: l’imprinting protestante e una certa tristezza puritana si combinano con la luce del cattolicesimo. Se il protagonista dei suoi romanzi è l’uomo moderno corrotto, cacciato e disperato, preda dell’ansia e della paura, circondato e braccato dal male, la presenza di Dio, amorevole e salvifica, è comunque una certezza. “Sono uno scrittore al quale è capitato di essere cattolico”, ripeteva Greene: sono gli incontri e le esperienze della vita, le delusioni, le speranze, i desideri realizzati e quelli che si perdono per la via, a condire le pagine della sua letteratura, a dipingere sulla carta intrecci che sono, al contempo, molto più profondi e carichi di speranza di quanto non sia immediatamente percepibile.
Uno dei tratti distintivi del suo essere cattolico è ravvisabile nell’atteggiamento di grande compassione che Greene nutre verso la debolezza e la fragilità degli uomini. Il suo messaggio è stato perfettamente colto da Charles Moeller, autore della monumentale Letteratura moderna e cristianesimo: “L’opera di Greene altro non è che un commento alla parola divina: non giudicate. Non giudicate il mondo che vi sembra abbandonato da Dio: esso è abitato da Dio. Non giudicate l’umanità che in apparenza ha ucciso Dio: essa è salvata da Dio. Non giudicate la sconfitta di Dio, calpestato nelle sue istituzioni che vengono abbandonate al demonio, deriso nella debolezza dei sacramenti: la potenza e la gloria di Dio vi sono presenti”. Come dice Scobie ne Il nocciolo della questione (1948), “Per essere veramente umano, tu devi bere il tuo calice fino alla feccia. Se una volta sei fortunato, e un’altra volta codardo, il calice ti vien presentato una terza”.
È esattamente quanto fa il protagonista de Il potere e la gloria, il prete che nel Messico insanguinato dalla rivoluzione, tenta di sfuggire alle autorità che perseguitano, fucilando o costringendo alle nozze i ministri di Dio. Questa figura è l’autentico capolavoro di Greene: il prete, infatti, è un peccatore (“era un cattivo prete, lo sapeva. La gente aveva un nomignolo per quelli come lui: preti spugna”). Lentamente ma inesorabilmente, il peccato arrugginisce e corrode la sua vita. “Non era che l’ennesima resa. Gli anni alle sue spalle erano disseminati di analoghe capitolazioni (…). La sua vita quotidiana si era riempita di crepe, come una piaga, e la dimenticanza si infiltrava nelle fessure spazzando via questo e quell’altro”. Del resto, quando già abbiamo appreso del suo alcolismo e dell’esistenza di una figlia concepita in una sera in cui era ubriaco, scopriamo quello che è in realtà il suo vero peccato: l’orgoglio.
Dio sembra assente in questo romanzo (come in tutto il mondo raccontato da Green). Lo Stato tenta di estirparlo, il comportamento dei suoi ministri fa di tutto per bestemmiarlo, Dio, infine, sembra sopraffatto dalla superstizione, dall’ignoranza e dalla cattiveria. Eppure, le pagine traboccano della presenza di Dio. “Era per quel mondo che Cristo era morto; quanto più male si vedeva e si sentiva in giro, tanto più grande era la gloria circonfusa attorno alla sua morte. È troppo facile morire per le cose buone o belle, per la patria, i figli, la civiltà… ma ci voleva un Dio, per morire per gli indifferenti e i corrotti”.
Qualche giorno prima di essere giustiziato, il prete spiega al tenente che l’ha catturato la grande differenza tra i rivoluzionari atei e la rivoluzione della fede. Nelle prime i rivoluzionari debbono necessariamente essere buoni, mentre “anche se tutti i preti fossero come me, ubriaconi, vigliacchi, avidi, questo non cambierebbe nulla, perché essi potranno sempre dare Dio agli uomini”. Il prete spugna, del resto, non è braccato solo dalla polizia, ma anche dalla sua coscienza, da Dio: come ha scritto Paul Rostenne, il suo destino diventa così una vocazione. Proprio in quest’ottica, anch’egli è un testimone dell’esistenza e dell’amore di Dio. Nell’imminenza dell’esecuzione, non ha paura né della dannazione eterna, né del dolore fisico: “Provava solo un’immensa delusione di doversi presentare a Dio a mani vuote, senza un’opera da offrire. Gli pareva, in quel momento, che sarebbe stato così facile essere un santo. Sarebbero bastati un po’ di autodisciplina e un po’ di coraggio. Si sentiva come chi, per pochi secondi, avesse mancato l’appuntamento con la felicità. Adesso sapeva che, alla fine, una sola cosa conta veramente: essere santi”. Il potere e la gloria manifesta la forza soprannaturale del paradosso cristiano. Avere fede è credere che Dio non tace, che Dio non abbandona i suoi figli. Per questo, il peccato peggiore, “il peccato imperdonabile”, è la disperazione.
In La fine dell’avventura (1951) Greene racconta una storia di conversione. Una bomba cade sopra la casa in cui si trovano l’adultera Sara Miller e il suo amante. Quando la donna, che è stata battezzata ma non lo sa, scopre l’uomo sepolto dalle macerie e lo crede morto, fa una cosa inspiegabile: inginocchiatasi, implora Dio, quel Dio che non conosce e al quale non crede, di salvare l’amante, impegnandosi in cambio a non vederlo mai più. Ebbene, qualche minuto dopo, scopre che in realtà Maurice è vivo. Sebbene non voglia mantener fede a quella promessa, non rivedrà più l’uomo. Per questo Sara si ritrova a odiare quel Dio, al quale continua a essere sicura di non credere, che le sta sottraendo la sua felicità. Ma proprio odiandolo perché l’ha presa alla lettera, la donna capisce che in realtà crede in Lui “perché non si può odiare dell’aria”, (similmente accadrà a Maurice, dopo la morte di Sara). Come i due amanti, così fa anche il mondo.
In diverse forme e con variopinte sfumature Graham Greene ci suggerisce che la conversione è un processo costante. Convertirsi è attraversare e riattraversare il mondo, le sue crudeltà, i suoi silenzi e le fitte tenebre, in un continuo colloquio con Dio.
su L’Osservatore Romano del 29-30 agosto 2008
AMDG et DVM