Quando Giovannino Guareschi ha messo al mondo don Camillo, certamente non aveva previsto di inventare uno straordinario e irripetibile catechismo tridentino per il popolo. Voleva raccontare delle storie, ambientate nella sua Bassa, storie in cui risultasse chiaro il suo amore per Cristo e per la Chiesa. L’operazione è riuscita benissimo; talmente bene che chi segue i racconti di Peppone e don Camillo si ritrova in mano un vero e proprio catechismo dei semplici.
L’ortodossia di Guareschi è assoluta, totale, incontestabile. Il suo è un cattolicesimo robusto, solido, senza fronzoli ma anche senza cedimenti alle mode. Invece di scrivere un trattato apologetico, Guareschi fa una cosa più semplice e insieme più difficile: plasma un prete da gettare nelle sue storie, e lo lascia libero.
Libero di essere fedele alla Chiesa fino alla radice dei capelli. Tutta l’opera di Guareschi è un quotidiano, implicito giuramento antimodernista. Quel giuramento che fu voluto da san Pio X per difendere la Chiesa dalla diffusione sotterranea di una tremenda eresia –il modernismo, appunto- che minaccia tutt’ora la cattolicità. Si tratta di un giuramento che don Camillo incarna perfettamente, opponendosi a ogni tentativo di sovvertire il deposito della fede, ricevuto dalla Tradizione.
Don Camillo è un “curato”; cioè si prende cura delle anime affidategli dal Padreterno. Questo è il primo, il supremo compito del prete.
Ma don Camillo incarna anche, portandosi come ogni sacerdote tutto il carico dei suoi difetti umani, il senso più profondo dell’essere “pastore”. Un pastore che non se ne sta sdraiato ai piedi di un albero a suonare il flauto, mentre i lupi sbranano le pecore una ad una. Ma è un pastore che si comporta coerentemente con il significato della parola episcopo, che ha dato origine al nome dei “pastori della Chiesa” per eccellenza: i vescovi. Quella parola va tradotta letteralmente come “sorvegliante”, e indica colui che, collocandosi in un punto di osservazione sopraelevato, ha una visione d’insieme e si preoccupa di quello. Se un pastore non ha queste caratteristiche, non serve a niente.
Spiace dirlo così brutalmente. Ma quelli che hanno liquidato don Camillo come una macchietta creata per far ridere, quelli che lo descrivono come un tipo capace solo di menare le mani e di suonare le campane per disturbare il comizio dei comunisti, quelli, insomma che non hanno letto Guareschi ma che si sentono autorizzati a sentenziare e a stroncare, non hanno capito niente.
Don Camillo è un personaggio della letteratura che ha uno spessore paragonabile a un Maigret, a uno Sherlok Holmes, al curato di campagna di Bernanos. Ovviamente si tratta di una dimensione così intima di don Camillo che il lettore in genere nemmeno se ne accorge. L’ortodossia è come una seconda pelle del prete più famoso del mondo. C’è, ma non si vede. Così la gente legge Guareschi o vede i film della serie omonima, e pensa: divertiamoci un po’, rilassiamoci…E in fondo è giusto che sia così: uno ascolta volentieri una storia perché la trova appassionante. Però è bene ogni tanto riflettere più a fondo, e provare a smontare il giocattolo guareschiano: scoprirà che si tratta di una sofisticata struttura narrativa che poggia su fondamenta dottrinali di robusta costituzione tomistica. Qui sta una delle ragioni del successo magnetico delle storie di Peppone e don Camillo: il lettore (o lo spettatore, nel caso dei film) si trova di fronte a un prete prete.
Per don Camillo l’ordine naturale è dominato, prima che dalla categoria dei diritti, dalla roccia solida dei doveri. Perché, dice don Camillo, “Dio non ha doveri: Dio ha solo dei diritti. E di fronte a Dio gli uomini hanno solo dei doveri” (Bellissimo, “Candido” n.19, 1953).
Un Dio che regna senza darsi cura del consenso generale e delle mode del secolo perché “la Divina Provvidenza non ha bisogno di voti per rimanere al governo dell’universo” (Caso di coscienza, “Candido” n.12, 1948).
È chiaro che un prete così ha nella santa messa il centro della sua vita. È come se Guareschi ci dicesse: la grandezza di don Camillo sta in questo; non ha la testa piena di libri di teologi protestanti, ignora astruse teorie sulla demitizzazione. Sa poche cose. Anzi, ne sa una sola: che la salvezza del mondo passa per il sacrificio di Cristo. Dice il proverbio, alludendo agli aculei che il riccio può sparare come arma difensiva. “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Ecco, il sacerdote autentico è colui che sa, come don Camillo, una cosa grande, e la annuncia al mondo. E questa “cosa grande”, dice Guareschi con la sua eloquente discrezione, è la santa messa.
Gnocchi&Palmaro
Domine
Iesu,
Oderim me et amem te.
Omnia agam propter te.