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giovedì 25 settembre 2014

4. - UN REGALO ECCEZIONALE di EMMANUEL ANDRÈ


LIBRO QUARTO

Le virtù necessarie all'esercizio del ministero




CAPITOLO I
LA GRANDEZZA DEL MINISTERO È LA MISURA DELLE VIRTÙ CHE RICHIEDE

Il ministero è un'opera divina: "Questa è l'opera di Dio credere in colui che egli ha mandato" (Gv. 6,29). San Paolo lo chiama opera del Signore: "Opus Domini" (I Cor. 16,10) Dio, infatti è il primo autore della salvezza degli uomini; fu il primo a volerla, il primo che ne pose le condizioni e ne istituì i mezzi, il primo che vi si è adoperato in Gesù Cristo Nostro Signore: "È stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo" (2 Cor. 5,19). 
Dio chiamo gli uomini a suoi cooperatori nell'opera della salvezza degli uomini, tuttavia Egli è l'agente principale nell'esecuzione dell'opera divina: "Affidando a noi la parola della riconciliazione; noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro" (Ivi 19,20). Ne consegue che il sacerdote è veramente l'ambasciatore, l'incaricato d'affari, il ministro di Dio, e come dice San Paolo: l'uomo di Dio: "Homo Dei" (I Tim. 6,2). 
Da questo San Paolo conclude che l'uomo di Dio è preparato, disposto, diremmo quasi equipaggiato per ogni opera: "L'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona" (2 Tim. 3,17). Ossia l'uomo di Dio diventa così, a suo modo, l'uomo-Dio e per i poteri divini che esercita dev'essere ornato di ogni virtù. Dev'essere perfetto come il Padre celeste è perfetto (Matteo, 5,48). 
Perciò abbiamo molto da fare prima di poter dire come San Paolo: "Ci ha resi ministri adatti di una nuova alleanza" (2 Cor. 3,6). 
Fra tutte le virtù necessarie al sacerdote, al ministro della salvezza delle anime, al pastore, San Gregorio Magno ne richiede principalmente dieci: ne parla in modo ammirevole nella seconda parte del suo Pastorale: voglia egli perdonarci se scriviamo al suo seguito qualche cosa intorno a quelle virtù ch'egli possedeva e che noi non possediamo.



CAPITOLO II
LA CASTITÀ

Dio è santo, anzi è la stessa santità; per questo egli vuole che i suoi ministri siano santi. Orbene: il carattere proprio della santità del sacerdote è la castità. 
Il vescovo nell'atto di ordinare i diaconi dice loro: "Estote assumpti a carnalibus desideriis, a terrenis concupiscentiis; estote nitidi, puri, casti sicut decet ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei" (Pont. Rom). Per cui se nel diacono si deve effettuare un tale ministero di assunzione, tanto più deve divenir grande nel sacerdote. L'uomo di Dio non può essere uomo della carne, perché Dio è tutto spirito. 

Il sacerdote sia che si consideri in faccia a Dio e in faccia a nostro Signore, vedrà che deve a Dio e a nostro Signore l'omaggio della più perfetta castità. Se poi si considererà in faccia ai fedeli vedrà che a tutti deve sempre castità per essere sempre per loro l'uomo di Dio, pronto a dare i sacramenti, pronto a lavorare per guarire le piaghe delle anime. 
La castità del sacerdote dev'essere una castità eccellente; se no sarebbe in difetto rispetto a Dio per la quotidiana celebrazione del Sacrificio e per la comunione quotidiana; in difetto rispetto ai fedeli per i quali non sarebbe mai un medico capace, qualora diventasse un uomo colpevole. 

La purezza del sacerdote esige da lui una vita seria, regolata, mortificata, assente alle dissipazioni mondane, una vita di preghiera, ritirata e di studio. 

È a questo prezzo che il sacerdote sarà l'uomo di Dio e si manterrà in alto nello stato di assunzione che il vescovo gli ha augurato, ordinandolo diacono. In questo modo egli potrà ascoltare la voce di Dio nella preghiera; potrà vedere con tranquillità e dall'alto lo stato delle anime sulla terra: potrà impegnarsi a guarirle senza esporsi a contrarre egli stesso il male. 
Insomma, la castità è una virtù così indispensabile al sacerdote che assolutamente non esitiamo di affermare che la potenza del sacerdote è in ragione diretta della sua castità
Per giudicarne, si guardino da un lato i Santi e dall'altro un sacerdote caduto o che sta per cadere: i Santi sono potenti "in opere et sermone"; i sacerdoti caduti o che stanno per cadere non possono nulla: danno a sé stessi la testimonianza della loro impotenza ed hanno il solo diritto di tacere.



CAPITOLO III
IL BUON ESEMPIO

"Sii esempio ai fedeli", dice San Paolo al suo discepolo Timoteo (I Tim. 4,12). "Offri te stesso come esempio in tutto", dice a Tito (Tit. 2,7). 
Scrive San Giovanni Crisostomo che l'anima del sacerdote dev'essere più pura dei raggi del sole (De Sacerdotio lib. VI, cap. 2). 
Scrive anche che i vizi di un sacerdote non possono restare nascosti e quando fossero poca cosa si rivelano molto presto: "Ne utiquam possunt sacerdotum vitia latere, sed etiam exigua cito conspicua sunt" (Ibid. lib. III, cap. 14). 

Senza il buon esempio il sacerdote non può né agire, né parlare utilmente per le anime. Egli deve avere il diritto d'insegnare agli altri. 
San Gregorio Nazianzeno non pensava altrimenti quando diceva: "Prima di purificare bisogna essere purificati e prima d'insegnare la sapienza bisogna averla acquistata. Prima di rischiarare bisogna diventare luminosi; prima di condurre gli altri a Dio bisogna esserne vicini noi stessi e prima di santificare, bisogna essere santo" (Oratio I o II). 
Il sacerdote non saprà mai insegnare le virtù che non possiede e non riuscirà a far praticare il bene ch'egli non avrà praticato. L'esempio è la prima forma di predicazione e senza questa non servirà a nulla tutta l'eloquenza di questo mondo: "Bronzo che risuona o un cembalo che tintinna"
San Girolamo suppone il caso di un sacerdote che avesse intorno a sé dei fedeli virtuosi senza essere virtuoso egli stesso, o meno di coloro che devono imparare da lui e nettamente afferma che un sacerdote così fatto è la distruzione, la rovina della Chiesa, e una rovina violenta: "Vehementer enim Ecclesiam Dei destruit,  meliores esse laicos quam clericos". 
È facile cogliere la ragione di questo detto. I fedeli non trovando nei loro pastori ciò di cui hanno bisogno per progredire nelle virtù e anche per preservarsi, andranno verso il declino che sarà tanto più rapido quanto il pastore sarà meno atto a sostenerli là dov'essi avrebbero potuto spiccare il volo. 
L'esempio è perciò necessario e dev'essere tanto più perfetto quando si devono istruire delle anime più perfette.




CAPITOLO IV
LA DISCREZIONE NEL SILENZIO

Il sacerdote deve saper conservare un silenzio discreto: il rispetto che deve a Dio, a nostro Signore, al Santo Sacramento e alle anime, delle quali è pastore gl'impongono una legge indispensabile di discreto silenzio. 
Una sua parola di troppo può compromettere il suo ministero e nuocere alla stessa parola di Dio quando l'annuncerà. 

Il sacerdote dovrebbe parlare soltanto quando ha da Dio l'ordine di parlare: ciò appartiene agli obblighi del ministro che deve aprire la bocca soltanto secondo le intenzioni del principe che lo ha inviato. Se il sacerdote è uomo di preghiera non avrà difficoltà ad osservare la legge della discrezione e del silenzio: quando si ha l'onore d'intrattenerci con Dio nella preghiera, con Nostro Signore durante il Santo Sacrificio, non si ha punta inclinazione a conversare con gli uomini. 
Il sacerdote chiacchierone non sarà mai considerato dalle anime come uomo di Dio e in questo le anime non sbagliano mai.



CAPITOLO V
L'UTILITÀ DELLA PAROLA

C'è, dice lo Spirito Santo, un tempo per tacere e un tempo per parlare. L'uomo di Dio deve saper discernere questi tempi, e quando viene il tempo di parlare bisogna ch'egli vigili per dire ciò che Dio vuole ch'egli dica, e ciò che le anime hanno diritto di aspettarsi da un inviato di Dio. 
San Pietro, ammaestrando tutti i cristiani disse: "Chi parla, lo faccia come con parole di Dio" (1 Pt. 4,11). Ma s'egli avesse scritto ai soli sacerdoti, avrebbe detto senza dubbio: "Se il sacerdote parla, lo faccia con parole di Dio". Avrebbe cioè soppressa la parola "come". 
Sul pulpito il sacerdote deve parlare come Dio stesso; fuori di là, come l'uomo di Dio
È nota l'espressione di San Bernardo riguardo alle parole buffe: "In ore saecularium nugae nugae sunt; in ore sacerdotum blasphemiae". La parola del sacerdote dev'essere sempre senza affettazione, affabile senza trivialità, dolce senza adulazioni, grave senza durezza, deve richiamare alle anime il ricordo di Nostro Signore del quale si dice: "Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!" (Gv. 7,46).




CAPITOLO VI
LA CARITÀ COMPASSIONEVOLE VERSO TUTTI

Il sacerdote è debitore a Dio e al prossimo: a Dio deve la preghiera, al prossimo deve una tenera e compassionevole carità. 
Nostro Signore che nell'Evangelo ci ha dato un si grande numero di divini insegnamenti di tenerezza verso i peccatori e ci ha insegnato le parabole si commoventi del figlio prodigo, della pecorella sperduta, la storia della donna adultera, è egli stesso il modello della tenera carità che deve avere il pastore delle anime. 
"Che il pastore, scrive San Gregorio, sia avvicinato da tutti i suoi fedeli per la sua compassione: che con le viscere della sua misericordia attiri a sé e prenda su di sé per caricarle, le infermità di tutti. Che il pastore si mostri in modo tale che i fedeli non abbiano alcuna ripugnanza a rivelargli quanto hanno di più segreto, e quando i piccoli sono agitati dai flutti delle tentazioni facciano ricorso a lui, come al seno d'una madre, "quasi ad matris sinum!".


CAPITOLO VII

L'UNIONE A DIO NELLA PREGHIERA

Quando la carità compassionevole, la tenerezza paterna e anche materna deve avvicinare il pastore ai suoi fedeli, altrettanto lo zelo della preghiera deve mantenerlo unito a Dio. 
Il pastore è l'uomo di Dio: non può nulla se non con l'aiuto della grazia: deve ricevere da Dio le istruzioni di Dio: da Dio deve sollecitare le grazie necessarie e a sé e al suo gregge. Come farà se prima di tutto egli non sarà uomo di preghiera? 

Dice San Paolo: Noi siamo gli ambasciatori di Gesù Cristo: "Pro Christo legatione fungimur" (2 Cor. 5,20). Ora, ogni ambasciatore deve ricevere le istruzioni di colui che lo manda per farne gl'interessi: perciò come il sacerdote potrà adoperarsi per gl'interessi di Dio presso le anime se da Dio non ebbe una parola? E come avrà egli una parola da Dio se non con la preghiera? 
E qui ritorna l'affermazione di San Pietro che abbiamo più volte ricordata: "Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola" (At. 6,4). Dove si vede che l'Apostolo pone prima di ogni cosa la preghiera nella quale riceverà le luci di Dio che poi trasmetterà ai fedeli con la predicazione. "Preghiera e ministero della parola". La parola che non è stata "pregata" sarà sempre un vano rumore; impotente e infeconda: invece di essere la parola di Dio sarà la parola dell'uomo. Perciò, prima di tutto e sopra tutto: bisogna pregare.




CAPITOLO VIII
L'UMILTÀ

Il sacerdote ha doppiamente bisogno della grazia di Dio: ne ha bisogno per se stesso, ne ha bisogno per il suo gregge. Siccome poi Iddio, seguendo la più che saggia legge della sua misericordia e della sua giustizia, resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili, ne consegue che il sacerdote ha una duplice necessità, una necessità più viva, di quanto ne hanno i fedeli, di essere veramente umile. Ha bisogno di conoscere le vie di Dio e i suoi segreti; ha bisogno di conciliarsi la grazia di Dio e di conciliarla alle anime delle quali è pastore. Come potrà egli essere mediatore associato a Dio se non è umile? Forse Iddio si rivelerà all'uomo che vuol penetrare nei suoi segreti per rapirgli la sua gloria e attribuirla a sé stesso? Farà Iddio canale della sua grazia l'uomo che col suo orgoglio si fa nemico della grazia? Come potrà trattare con Dio della riconciliazione delle anime colpevoli chi pone sé stesso in rivolta con Dio col suo orgoglio? 
Senza umiltà non c'è ministero possibile: Dio certamente ci vuole elargire la sua grazia, ma non vuole che lo rapiniamo della sua gloria: e dal momento che un sacerdote cerca la gloria per sé, cessa di essere il mediatore della grazia: "Dio resiste ai superbi; agli umili invece dà la sua grazia" (Giac. 4,6).


CAPITOLO IX

DELLO ZELO DELLA GIUSTIZIA

Lo zelo della giustizia è perfetta abnegazione agli interessi di Dio e negli interessi di Dio sono necessariamente compresi gl'interessi delle anime: perché Dio vuole la salvezza delle anime; è lo stesso interesse di Dio, dal momento che lì sta la sua maggior gloria. 

Gl'interessi di Dio sovente sono compromessi dagli uomini: in questo caso il pastore, che sta tra Dio e gli uomini, si troverà spesse volte in lotta con gli uomini per difendere gl'interessi di Dio. Lotta che non è senza difficoltà: poiché se il pastore deve sé stesso a Dio di cui è l'uomo, deve anche sé stesso alle anime delle quali è pastore, e pastore responsabile. Se egli vede gl'interessi di Dio, per così dire con un occhio solo, si affaticherà in un modo imperfetto e comprometterà le anime: e, per altro, se mira a non compromettere le anime, potrà tuttavia mancare gl'interessi di Dio. 

La difficoltà è grande, sovente estrema: vi è un pericolo d'ambo i lati. Da un lato il pastore dovrà temere di venir meno nei riguardi di Dio e dall'altro di mancare verso le anime. 
In un tale modo di essere le cose, lo zelo non è un consigliere sufficiente: può, se è solo, far cadere negli eccessi e può compromettere lo stesso bene che cerca. Con lo zelo ci vuole anche la scienza; con la scienza, l'umiltà, la purezza delle vedute e dell'intenzione; cose tutte che il pastore non troverà mai se non è prima di tutto uomo di preghiera: "Orationi... instantes erimus".



CAPITOLO X
IL SACERDOTE DEV'ESSERE UOMO INTERIORE

La molteplicità delle cose che fanno parte delle sollecitudini di un pastore è necessariamente grandissima: le persone e le cose, i corpi e le anime, gl'interessi spirituali dei fedeli e quelli temporali della chiesa, tutto pesa insieme sul pastore. 
Tutti gli avvenimenti possono avere un influsso sugli interessi delle anime e il pastore deve necessariamente vigilare su tutto. Tutte le età, tutte le condizioni, tutti i buoni e tutti gli altri devono essere per lui oggetto d'incessante sollecitudine. Pero non ci può essere lì il pericolo di lasciarsi assorbire dalle sollecitudine esterne, dalle preoccupazioni delle persone e delle cose? 
La carità che il pastore deve al suo gregge non potrebbe essere per lui una causa, un pretesto e un'occasione per lasciarsi assorbire nella cura delle cose esteriori, della salute, degli interessi temporali e di qualsiasi altro interesse? 
Un pastore deve pensare un po' a tutto, tener conto di tutto, estendere la sua carità a tutto, ma questo tutto non deve punto assorbirlo. Sopra questo tutto che è il gregge, c'è il tutto che è Dio, e il sacerdote deve applicarsi a Dio più che a tutto, e non potrà essere veramente utile a tutto a condizione che sia tutto di Dio. Il pastore troverà in Dio la luce, la misura, il vero zelo, la discrezione e le virtù necessarie per transitare in mezzo alle sollecitudini esterne del ministero per esser utile al gregge senza nuocere a sé stesso; per dedicarsi al prossimo senza cessare di stare unito con Dio.


CAPITOLO XI
IL SACERDOTE DEV'ESSERE DISINTERESSATO


"Avaro nihil est scelestius", dice lo Spirito Santo (Eccl. X,9). Noi possiamo dire anche che nulla è più contrario allo spirito del ministero quanto l'amore al denaro. 
Dio non è né oro, né denaro e l'uomo del denaro non può essere l'uomo di Dio. 
Il sacerdote, se fosse possibile, non dovrebbe toccare per terra, "Perché è il messaggero del Signore degli eserciti" (Ml. 2,7). 
Messaggero celeste, ambasciatore di Dio, il pastore deve aspirare soltanto al cielo e volere soltanto Dio; l'eredità da lui scelta quando divenne chierico: "Il Signore è mia parte di eredità" (Sal. 16,5). 
Il pastore dedito a Dio e alle anime non può essere preso dalle sollecitudini del bene e del mangiare: "Non affannatevi dunque dicendo: che cosa mangeremo? Che cosa berremo?" (Mt. 6,31). 
Il pastore che si rimettesse semplicemente per tutte queste cose alle cure della Provvidenza, non mancherebbe di nulla. 
Questo esattamente accadde per gli Apostoli. Nostro Signore li aveva inviati a predicare, e li aveva inviati con nulla, e non manco loro alcunché: "Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa? Risposero: nulla" (Lc. 22,35-6). 

Il pastore riceverà da Dio il suo pane quotidiano, e non riceverà soltanto per sé stesso, ma anche per i suoi poveri. Riceverà con una mano e darà con l'altra; e avrà tanto più da dare quanto più si rimetterà soltanto a Dio per ciò che gli occorrerà. Testimone San Vincenzo de' Paoli, l'uomo che in questo mondo ha dato di più.


La via della luce


Indicazioni per trovarla:

<<Ama chi ti ha creato e temi chi ti ha plasmato.
Glorifica chi ti ha redento dalla morte.
Odia tutto ciò che dispiace a Dio.
Disprezza ogni ipocrisia:
“Lingua doppia, laccio di morte”.
Meglio tacere che parlar precipitoso.
Non abbandonare i comandamenti del Signore.
Non esaltarti mai, ma sii umile in tutte le cose.
Non disinteressarti dei figli, ma insegna loro
il santo timor di Dio fin dall’infanzia.
Ama il prossimo tuo più della tua vita.
Non essere avaro, né insaziabile.
Frequenta persone umili e giuste.
Qualunque cosa ti accada prendila in bene
sapendo che nulla avviene che Dio non voglia.
Ama come pupilla degli occhi chi ti dice la parola di Dio.
Massimo impegno nel mantenerti casto.
Giorno e notte, sempre, ricorda il giudizio finale
e sospira il Paradiso.
Medita assiduamente come salvare
un’anima sia pure con una parola.
Odia il male, giudica con giustizia,
evita dissidi, porta la pace.
Confessa umilmente i tuoi peccati,
e prega sempre con coscienza pura.

Questa è la via della luce.>>

(San Barnaba)


domenica 24 agosto 2014

I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Virtù (III)

 I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Virtù (III)

 11. Chi pratica la virtù è felice. 

 12. Ricompense della virtù. 
 13. Parentela e gradi della virtù
 14. Per acquistare la virtù bisogna fare sacrifizi. 
 15. Mezzi per praticare la virtù.





11. CHI PRATICA LA VIRTÙ È FELICE. - La vera felicità si trova nella vittoria su le passioni, e siccome tale vittoria dipende dalla virtù, ne segue che arriva alla felicità chi esercita la virtù. A lui conviene quel detto dell'Apocalisse: «A tutti quelli che seguiranno questa regola, pace e misericordia» (Gal. VI, 16). 

La virtù produce pace, serenità, gioia, tranquillità di coscienza, allegrezza, confidenza, sicu­rezza della salute. Dove trovare stato più felice e invidiabile? La Sacra Scrittura dice che la virtù ci nutrisce del pane della intelli­genza e della vita, ci abbevera dell'acqua della sapienza e della sa­lute, ci consolida, ci rinforza, ci sostiene, non permette che siamo confusi, ci copre di gloria, accumula su l'uomo che l'ama la gioia e la letizia (Eccli. XIII, 3-6). La virtù procura la pace, l'unione con Dio, col prossimo, con noi medesimi. Con la pratica della virtù, l'uomo si assicura la grazia e l'amicizia di Dio, una vita santa, una buona morte, una splendida corona per il cielo. Ecco la vera la somma, l'incontestabile felicità!... 

Con ragione pertanto S. Agostino dice che la virtù rende felici tutti quelli che la praticano (De Civit.); e noi possiamo metterle in bocca quelle parole che lo Spirito Santo fa dire alla Sapienza: Beato l'uomo che mi dà orecchio, che passa i suoi giorni su la soglia di mia casa e che veglia sul limitare della mia porta! Chi trova me, trova la vita e la salute (Prov. VIII, 35-36)


Questa verità non fuggì del tutto alle considerazioni dei saggi pagani. «Solo la virtù, scriveva Seneca, procura una gioia perpetua e sicura (Epist. XXVII)». La virtù mi basta per essere felice, diceva Antistene (Ita LAERT., l. VI). Platone invita a considerare la contraria indole della virtù e del vizio; per un momento di piacere nella vita, ci get­tiamo in rammarichi, in dolori, in pene, che non hanno fine; ma la virtù, dopo brevi dolori, vede nascere gioie vere e grandi, che l'ac­compagnano anche dopo morte e durano eterne (Dialog. III). Il medesimo autore nota ancora che i savi dànno il primo luogo allo spirito, il secondo al corpo, il terzo alle ricchezze; ed egli vuole che nello Stato la virtù tenga il primo posto, poi le forze del corpo, finalmente la ricchezza (De Repub.). 

Del resto tutto il mondo sa che i più sensati dei filosofi antichi, gli stoici, insegnavano che la vera felicità in questa vita non si trova che nella virtù, e ne recavano le seguenti ragioni: 
1° Il sommo bene, la suprema felicità sta nell'anima; ma per l'anima non vi è niente di meglio, di più salutare e di più ricco della virtù... 

2° Il sommo bene è quello che ci rende perfetti; ora la virtù è questo bene, perché essa perfeziona l'uomo... 

3° Si deve chiamare sommo bene quello che è bene in se stesso e che rende buoni gli altri beni; ora la virtù, buona in se stessa, ci rende buoni ed utili i beni, di fortuna e di natura, i quali se sono disgiunti da essa, ci tornano piuttosto di danno che di vantaggio... 

4° Si deve chiamare sommo bene quello che, separato da ogni altro bene, rende felice chi lo possiede, e che, se viene a mancare, rende infelice chi ne è privo, ancorché fosse largamente provvisto di ogni altro bene; ora tale è il bene della virtù: perché l'uomo che ha la virtù, sebbene sia privo di tutto il resto, è chiamato uomo probo; ma se gli manca la virtù, ancorché ricchissimo, non è chiamato né buono, né probo... 

5° Il sommo bene deve comunicare la forza e la potenza; ora tale è la virtù e chi ne è for­nito trionfa delle avversità, delle traversie, dei disastri della fortuna, delle incomodità della natura, della voluttà, ecc... 
6° Il sommo bene deve essere fisso e sicuro; ora la virtù sola è costante e durevole... Dunque, ne conchiudevano, la virtù forma il sommo bene e quindi la felicità di colui che la possiede.


12. RICOMPENSE DELLA VIRTÙ. - Le ricompense della virtù, sono ac­cennate in quel versetto di Davide: «Quelli che seminano nel pianto, mieteranno nell'allegrezza; andavano e piangevano spargendo le loro semenze, ma ritorneranno festosi portando su le braccia i covoni» (Psalm. CXXV, 6-8).
La semenza è la virtù; i covoni sono le ricompense. E quale ricompensa! Ci è indicata dallo stesso Salvatore: «Suvvia, servo buono e fedele, perché ti sei mantenuto fedele nel poco, ti costituirò padrone di molto; entra nel gaudio del tuo Signore» (MATTH. XXV, 21).
«Venite, o benedetti del Padre mio, al possesso del regno che vi fu preparato fin dall'origine del mondo» (Ibid. 34). E infatti che il paradiso, l'eterna felicità, il sommo bene, stia preparato per i virtuosi, si vede da ciò, che Gesù Cristo assicurò che il regno dei cieli soffre violenza e che solo i violenti lo rapiscono (MATTH. XI, 12).
Ora chi è che fa violenza a se stesso e sforza l'entrata del cielo, se non l'uomo virtuoso?.. E dire regno dei cieli, vuol dire possesso di Dio, godimento di Dio; a buon diritto adunque il Nazianzeno riassume le ricompense che aspettano l'uomo virtuoso, nel dire che la virtù lo fa diventare Dio (In Distich.).


13. PARENTELA E GRADI DELLA VIRTÙ. - La virtù ha per padre la grazia; la volontà per madre e per famiglia i buoni pensieri, le sante ispirazioni; infatti la volontà guadagnata e fecondata dalla grazia divina produce le buone opere, la penitenza, il digiuno, la elemosina, la fede pratica, la carità, l'obbedienza, l'umiltà, la saviezza, lo zelo, ecc...

La virtù procede e sale per tre gradi:

Il primo è la virtù ordinaria, cioè quella che è comune ai fedeli i quali vivono onestamente, religiosamente, secondo i comandi di Dio...
Il secondo grado è quello dei cristiani che si spingono oltre questo limite ordinario, e studiano più di proposito a imitare Dio; le loro virtù si chiamano purgative; il che vuol dire che la prudenza, per la meditazione delle cose divine, lascia da parte le cose terrene e dirige tutti i pensieri dell'anima verso il cielo; che la temperanza abbandona, per quanto lo comporta la debolezza della natura, tutto ciò che l'agio e le comodità del corpo richiedono; che l'anima, per il suo allontanamento dal corpo e la sua vicinanza alle cose divine, non si lascia spaventare né distogliere dalla via della perfezione, da nessuna difficoltà...
Il terzo grado ed il più sublime sta nella somiglianza già acquistata, nell'unione con Dio; in questo grado le Virtù sono chiamate e sono realmente virtù di un'anima purificata e perfetta; sono le virtù dei perfetti in questo mondo e degli eletti nell'altro... Vi è dunque la virtù dei principianti, la virtù dei proficienti, la virtù dei perfetti.


14. PER ACQUISTARE LA VIRTÙ BISOGNA FARE SACRIFIZI. - Le ricchezze della virtù si devono guadagnare per mezzo della fatica... Il sentiero della virtù ha le sue spine; spine lunghe, acute, molteplici, che pungono e cagionano dolori; esse sono intralciate insieme; se ne strappate una, l'altra vi fora; questo forma la disperazione delle anime infingarde e pusillanimi, ma le anime forti e coraggiose, a poco a poco, con pazienza e rassegnazione, giungono a spuntarle, a strapparle e finiscono col distruggerle...

Il punto sta qui, che noi vogliamo essere umili senza patire disprezzo, pazienti senza provare dispiaceri, obbedienti senza assoggettarci al comando, poveri senza sentire disagio di nulla, virtuosi senza sudore e senza fatica, penitenti senza dolore e pentimento; vogliamo essere lodati senza meritarlo, essere amati senza essere buoni, essere onorati senza santità. Ma non sono questi né gl'insegnamenti né i fatti di Gesù Cristo... È ben altrimenti fecero anche i Santi...
Chi vuole praticare la virtù, deve rassegnarsi a portare la croce; e chi mai può portare la croce senza fatica e senza dolore? «Tutti coloro, dice S. Paolo, che vogliono vivere piamente in Gesù Cristo, soffriranno persecuzione» (II Tim. IlI, 12).
S. Giovanni Crisostomo, commentando questo passo, dice che sotto il nome di persecuzione bisogna intendere tutte le difficoltà, i travagli, i dolori, le pene, le prove, gli stenti che incontrano e sostengono quelli i quali praticano la virtù, quando si sforzano di soggiogare le concupiscenze; quando si studiano di conservare la continenza, di acquistare l'umiltà, l'ob­bedienza, la mortificazione, la temperanza; quando in una parola, si dedicano al bene e alla pietà. «La grazia di Dio nostro Salvatore, scrive S. Paolo, si mostrò a tutti gli uomini, istruendoci che rinun­ziando all'empietà e ai desideri del secolo, noi viviamo in questo mondo con temperanza, giustizia e pietà» (Tit. II, 11-12).


15. MEZZI PER PRATICARE LA VIRTÙ. - Per praticare la virtù sì richiede: l° una risoluzione generosa dell'anima ed una volontà effi­cace di metterla in esecuzione...; 2° ardore e zelo...; 3° il combatti­mento e la mortificazione delle passioni...; 4° la perseveranza nello studio e nell'amore della virtù...; 5° la penitenza esteriore, perché, come afferma S. Cirillo, nella mortificazione della carne sta la forza della virtù (Catech.). 
Le virtù sono come una fortezza inespugnabile: esse difendono l'uomo contro tutti i nemici. Qui è la città degli eletti i cui steccati, dice Ugo da S. Vittore, sono il disprezzo delle cose terrestri; i bastioni, la speranza; i forti avanzati, la pazienza; le torri, l'umiltà; le fontane, le lacrime; le sentinelle, la prudenza; le armi, la preghiera e i sacramenti; le porte, l'obbedienza; il duce, la carità; i soldati, la giustizia, la temperanza, la forza (Institut. Monastichad Novit. c. III).

Mater Boni Consilii, 
ora pro nobis.

I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Virtù (II)


Vita - Vita interior: I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Virtù (II)

  6. Bellezza della virtù.
  7. La virtù è luce e verità.
  8. Potenza della virtù
  9. Nobiltà e gloria della virtù.
 10. La virtù è la via del cielo, ed un bene che non ci abbandona

6. BELLEZZA DELLA VIRTÙ. - «Che cosa è per noi La virtù, se non la bellezza interiore dell'uomo?», dice S. Agostino (Epl. CCXXII, ad Cosentium); e Filone aggiunge che non solamente la virtù è bella, ma anzi l'idea, l'imma­gine della beltà stessa di Dio (De vita Mosi); infatti la virtù è la suprema partecipazione di Dio il quale, essendo beltà suprema, ne riflette il suo raggio su la virtù e principalmente sul Verbo incarnato, Gesù Cristo, specchio divino di tutte le virtù, del quale il Salmista ha cantato: «Tu superi in bellezza tutti i figli degli uomini» (Psalm. XLIV, 3). O virtù, meraviglia delle meraviglie, bellezza delle bellezze! o virtù, candida come il giglio, dolce come la rosa, umile come la viola, fiore dei fiori! tu riunisci in te tutta la bellezza e tutto l'olezzo di tutti i più belli e più soavi fiori! O virtù, come sono belle le tue vie, come incan­tevoli le tue strade! (Prov. III, 17). 
La virtù è la vera bellezza, il ricco ammanto, l'incomparabile fulgore dell'anima, di tutte le azioni e dell'uomo tutto intero. Al con­trario il vizio ne è la deformità, la laidezza, la vergogna. La virtù veste l'uomo della bellezza di Dio; il vizio gli dà la bruttezza del demonio... Tanto bella e splendida si mostra la virtù, che i malvagi, ancorché vivano turpemente, l'amano e l'ammirano negli altri... «La virtù, dice il Nazianzeno, è in mezzo ai vizi, come la rosa tra le spine (In Praeceptis ad Virgin.)». Perciò il Savio afferma che si mostrano amatori della vera bellezza quelli che sono ricchi di virtù (Eccli. XLIV, 6).


7. LA VIRTÙ È LUCE E VERITÀ. - La virtù è splendida luce, perché: 1° ama la luce e la presenza di Dio...; 2° illumina l'anima, lo spi­rito, il cuore; vede il passato, il presente, l'avvenire; rischiara il tempo e l'eternità...; 3° illumina chi la possiede, e gli altri che le si accostano. Si può affermare di lei quello che l'Evangelista scrisse di Gesù Cristo, increata ed incarnata manifestazione della virtù: «Egli era la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (IOANN. I, 9)... 4° La virtù è luce, perché esce da Dio; luce increata che supera, illumina, vivifica tutte le cose, e attrae a sé tutte le altre luci come il sole attrae i pianeti... Guardate i patriarchi, i profeti, gli apostoli, i martiri, i santi di tutti i tempi; splendido modello di virtù era ciascuno di loro e una luminosa luce che rischiarava il mondo, come dev'essere La vita di ogni cristiano. Nessun pregio, osserva il Crisostomo, dà tanta chiarezza e tanto lustro all'uomo, anche quando si studia di stare nascosto, quanto lo splendore della virtù; egli risplende non solamente sulla terra, ma anche nel cielo (Homil. ad pop.). Infatti, come dice S. Gregorio, « nella chiarezza della virtù si trova sempre Iddio (In Lib. I, Reg.) ».
La luce del sole oscura tutte le luci inferiori; la virtù è anch'essa una luce che fa impallidire quella della scienza... Come il sole, al suo levare, con i suoi raggi rischiara tutto il cielo, illumina la terra e cambia, per così dire, l'aria in luce, penetrandola; così, dice Filone, le virtù penetrando con i loro celesti raggi l'uomo, lo trasfor­mano tutto in fulgido chiarore (De Plant. Noe). Come l'anima ri­schiara e vivifica il corpo, così la virtù rischiara e vivifica l'anima e il cuore... La virtù illumina col buon esempio, e a lei si può applicare quello che l'Ecclesiaste dice del sole: «Compiendo il suo corso, spande dappertutto torrenti di luce» (Eccle. I, 6). Siamo dunque per le nostre virtù un sole su la terra... I sublimi esempi di Gesù, di Maria e dei Santi, sono per noi luminosissimi soli... Chi pratica la virtù, non cammina mai nelle tenebre, perché ha per guida il lume di vita... L'uomo virtuoso è, per l'esempio che dà, come un faro luminoso che avvisa, dirige e guida il navigante, affinché non rompa negli scogli e giunga tal porto...
La virtù è la pratica della verità, che è sempre pura da ogni errore; essa è la verità nella sua manifestazione esteriore; è il sole della verità... Fuori della virtù, tutto è errore, falsità, menzogna, inganno... Essa può ripetere quelle parole: «Io sono la via, la ve­rità, la vita» (IOANN. XIV, 6). «Chiunque è dalla parte della verità, dà ascolto alla mia voce» (Id. XVIII, 37). Perciò la Scrittura dice che i bugiardi non si ricorderanno della virtù, ma gli uomini sinceri non l'abbandoneranno mai e cammineranno. felicemente fino alla visione di Dio (Eccli. XV, 8).

8. POTENZA DELLÀ VIRTÙ. - La virtù è onnipotente: essa trionfa dell'inferno, del mondo, della concupiscenza.. Nessun nemico può tenerle fronte... Anzi, essa vince Dio medesimo e prende il cielo d'assalto... Il mare ed il Giordano fuggono alla vista dell'arca (Psalm. CXIII, 3). Alla vista delle virtù, il mare delle passioni, i fiumi delle con­cupiscenze scompaiono... La virtù tocca da un punto all'altro con forza, e dispone con soavità ogni cosa (Sap. VIII, 1). S. Giovanni Crisostomo afferma che mentre il vizio non è che debolezza, la virtù è tutta nerbo e forza, di modo che non c'è cosa più potente di lei e lo prova con la costanza e con la pazienza spiegate da Giuseppe, col suo coraggio nello schivare e vincere la più terribile delle passioni. Di tanta forza è la virtù, egli dice, che essa diviene più grande e più coraggiosa quando è assalita e calunniata... Essa si spinge nella sua potenza fino a toccare l'eroismo. Chi la possiede, chi ha l'aiuto della grazia soprannaturale, diventa più forte di tutto il mondo; essa è invincibile, sfugge agli agguati dell'uomo e del demonio (Homil. ad pop.).
La virtù messa alla prova si accresce, grandeggia, ingigantisce e splende di tutto lo sfarzo della sua potenza e grandezza: «Non si dà virtù senza fatica, scrive S. Ambrogio, perché dalla fatica dipende l'avanzamento e il trionfo della virtù (In Psalm. CXVIII)». Ma la vera virtù è forse mai indietreggiata innanzi alle più aspre ed eroiche fatiche? La morte medesima, anche la più orribile, non la spaventa, non l'avvilisce... Le virtù sono catene che legano i demoni e loro impediscono di avvicinarsi e nuocere. S. Bernardo le raffigura in quei cinque sassi puliti che Davide scelse nel torrente e coi quali abbatté il gigante Golia (In I Reg.). Ma badiamo, dirò col medesimo santo Dottore, che se la virtù è di sua natura forte, essa diventa invinci­bile e meritoria quando a lei va congiunta la grazia. Essa è forte per il giudizio della ragione che approva; e questa forza diviene vit­toriosa, per il buon desiderio della volontà illuminata (Serm. in Cant.). Lodiamo adunque, come uomini fortissimi e gloriosi, gli uo­mini grandi in virtù, e ornati di prudenza (Eccli. XLIV, 1-3). 
La vera e soda virtù è dunque onnipotente; è un diamante preziosissimo di tanta durezza che non si può spezzare, che resiste a tutto, e tutto supera e di tutto trionfa... La virtù è così attiva, che fa del bene anche ai malvagi, anche ai nemici, ed è così potente, che ne riesce vittoriosa coi suoi benefizi... Fare del bene ai cattivi, è la vittoria della virtù, dice S. Cirillo (Catech. II, 5). La vera virtù sta nascosta; ma se si tenta di opprimerla, allora si fa vedere e si mo­stra invincibile. Come le stelle, dice S. Bernardo, splendono la notte, e stanno nascoste di giorno, così la vera e soda virtù che spesse volte nelle prosperità non compare, nelle avversità splende in tutto il suo fulgore (Serm. XXVII. in Cant.).
Anche i pagani ammirano la potenza della virtù; Seneca avverte che è più pronta ad affrontar i cimenti la virtù, che non la crudeltà a inventarli. E’ avida di azioni eroiche; va al suo scopo, senza impen­sierirsi di quello che dovrà soffrire. E il sostegno della debolezza umana, ne è il riparo insuperabile. Chi si trincera in lei è sicuro di non cadere in mano agli assedianti. Senza avversari e senza com­battimenti, la virtù intorpidisce e si snerva; cimentata, grandeggia e triplica le sue forze (Epist. XXIV). Le prove, scrive in altro luogo il medesimo autore, sono come le nuvole per il sole, anzi di meno; poiché la virtù splende nelle traversie e si forbisce nelle avversità. Il vero bene è di tale natura e condizione, che essendo il vero bene, non può non riuscire vantaggioso; tale è anche la natura della virtù. Essa ci purifica ci conduce al cielo dopo di averci purificati (De Prov.). E proprio di una virtù coraggiosa e di uno spirito magnanimo, dice Cicerone, il non temere di nulla, il disprezzare ogni cosa umana, non considerare come insopportabile nulla di ciò che può accadere all'uomo di spiacevole. Chi è fornito di grande virtù non s'inquieta punto di ciò che può cadergli sopra, lo stima un niente; dirige e domina tutta ciò che a lui è inferiore; disprezza i dolori e la morte (De Offic. l. III). Che nobile e giusta testimonianza rendono alla virtù gli stessi pagani!


9. NOBILTÀ E GLORIA DELLA VIRTÙ. - «Gloria, onore e pace a chiunque fa il bene», cioè all'uomo virtuoso, scrive S. Paolo (Rom. II, 10); e già prima di lui il Savio aveva detto: «Procurate di farvi un buon nome per mezzo della virtù; questo bene sarà per voi più durevole che mille dei più preziosi tesori (Eccli. XL, 15); infatti la virtù presenta a chi la pratica, da una mano lunghezza di giorni, dall'altra ricchezza e gloria (Prov. III, 16). Quindi S. Bernardo dà alla virtù il nome di madre dell'onore e la indica come la vera via alla gloria (Serm. I. de S. Victor.). «Somma nobiltà, supremo onore è agli occhi di Dio, scrive S. Gerolamo, essere chiaro per virtù (Epist.)». Solo la virtù è nobile, dice Cassiano, ed è nobilissimo e innanzi a Dio grandissimo chi risplende per virtù (Collat. II, c. 10). Chi vive di virtù, vivrà glorioso nella memoria degli uomini; essendo la virtù, come osserva S. Agostino, la strada per la: quale l'uomo dabbene arriva alla gloria, all'onore, al potere (De Civit., 1. I, c. XV). Papa Urbano rispose a un tale che gli rinfacciava la sua bassa ori­gine: I grandi uomini non nascono già tali, ma tali diventano mediante la virtù (Histor. Eccl.). L'imperatore Massimiliano disse a un ricco che gli of­friva una gran somma di denaro perché gli desse titoli di nobiltà: Io posso arricchirvi, ma in quanto al nobilitarvi, solo la vostra virtù può farlo (ANTON. In Meliss.).
In questo argomento abbiamo due notevoli sentenze di Seneca: «Incomparabile ornamento è la virtù e rende sacro chi la eserci­ta (Epist. LX)». Vi è solo una cosa che ci possa fare immortali e simili agli dèi, la virtù (Apud. Lactant., 1. III, c. XII)»; e il poeta Giovenale dichiara che solo la virtù è nobile e grande (ANTON. In Meliss.).


10. LA VIRTÙ È LA VIA DEL CIELO, ED UN BENE CHE NON CI ABBANDONA. ­- La virtù ha per unico scopo Dio, la sua legge; la sua volontà, il suo servizio, il suo amore; ora se non è questa la via del cielo, bisogna dire che non ve n'è altra... Sì, sola la virtù conduce al cielo; essa è la strada alla vita eterna; la via dell'inferno, della morte eterna, è il peccato. La via della morte è il mondo; la via del paradiso è il disprezzo del mondo... Per questo appunto la virtù è un bene che non ci abbandona mai. «La virtù ci fa eredi di un nome eterno», dice il Savio (Eccli. XV, 6).
«Noi non possiamo dire che siano veramente nostre quelle cose che non possiamo portare con noi, scrive S. Ambrogio; solo la virtù accompagna i defunti (De Abel et Cain, l. I. c. XV)» . Le vesti, i mobili, l'oro, l'argento, dice il Crisostomo, vanno soggetti a deperimento, a perdita, a furto; ma chi è vestito di virtù, possiede un tesoro che né i vermi possono rodere, né i ladri rubare, né la ruggine può consumare (Homil. ad pop.). Perché, come dice S. Bernardo, «la vera virtù non conosce fine, non muore col tempo (Epist. CCLIII, ad Guarin.)». Ciò che appartiene al secolo, rimane nel secolo, la virtù va all'eternità (S. AMBROGIO, In Luc. XII). O virtù inestimabile, tu dài all'anima frutti e beni immortali!...
Platone ci assicura che la virtù ci fa simili a Dio. Ora Dio è eterno (De Legib.). La virtù vale assai più che una lunga posterità, per ren­dere eterno un nome; perciò Seneca dice che ci dà l'immortalità (Epist. XXVII), e Sofocle la chiama un immancabile, eterna possesso (In Eurifilo). Gli alti obelischi, le grandi piramidi richiedono molta fatica per essere collocate, osserva Plinio, ma una volta che sono alzate, rimangono immobili per sempre; così la virtù costa fatica alla debole natura; ci vuole coraggio, fermezza e lavoro per innalzarci fino a lei, e collocarla nell'anima nostra; ma stabilitavi una volta, è un bene che non si guasta, non si corrompe col tempo, ma dura im­mortale (Hist. XXXVI, c. IX).

I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Virtù (I)


 Vita - Vita interior: I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Virtù (I)


 1. In che cosa consiste la virtù.
 2. Necessità della virtù.
 3. Facilità della virtù
 4. La virtù non può stare col vizio.
 5. Eccellenza della virtù

1. IN CHE COSA CONSISTE LA VIRTÙ. - La parola virtù, virtus, deriva dal vocabolo vis, che vuol dire forza, vigore. Non dissimile dalla sostanza è l'etimologia che ne dà Cicerone, il quale fa derivare dalla voce latina vir, cioè uomo: - Appellata est ex viro virtus (De Offic.). Può anche dirsi un vocabolo composto dalle due voci latine viri opus, opera virile. Tale è la virtù nel senso etimologico; a guardarla poi in se stessa, può chiamarsi con S. Bernardo: «Il vigore dello spi­rito, strettamente abbracciato alla retta ragione (Serm. LXXXV, In Cant.)». In altro luogo il medesimo Santo riconferma e spiega questa sua definizione, dicendo che la virtù è figlia della ragione, ma soprattutto della grazia. La virtù è un consenso volontario al bene. È il libero uso della vo­lontà, che segue il giudizio della ragione (De vita solitar. )... La virtù in se stessa è l'amore di ciò che è onesto, di ciò che è bene... La virtù, dicono i filosofi, è uno stato dello spirito conforme alla natura dell'uomo, alla sua ragione, alla legge che lo governa. 
Secondo i cristiani, secondo i teologi, la virtù è il massimo dei beni... S. Agostino la chiama «l'affezione regolatissima dell'anima» (De Morib. Eccles. c. XI); in un altro luogo la definisce: «L'arte di vivere bene e rettamente» (De Civit. Dei, lib. IV, c. XXI). S. Ambrogio la fa consistere nella volontà di non voler peccare e nella perseveranza di tale volontà (In Luc. lib. VIII, c. XVIII). Ogni virtù è amore e carità, cioè si produce in atti comandati dalla carità, la quale è essa che comanda, che dirige, che forma e perfeziona la virtù. La virtù è un bene che si compie facendosi violenza... La virtù sta nel vivere secondo Iddio, secondo la sua legge, la sua grazia e l'insegnamento della Chiesa... La virtù consiste nel fare ciò che Dio e la coscienza impongono; nello schivare quello che Dio e la coscienza proibiscono.
Perciò la virtù consiste nelle opere, non nelle parole, secondo quelle due sentenze perentorie di Gesù Cristo: «Non chi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma solamente colui che fa la volontà del Padre mio che sta nei cieli» (MATTH. VII, 21); e quest'altra: «Ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e gettato al fuoco» (MATTH. III, 10). Quanti sono virtuosi in parole, e viziosi in opere! Se il grano confidato alla terra non germinasse e fruttificasse, a che cosa servirebbe?


2. NECESSITÀ DELLA VIRTÙ, - Dal sopradetto già risulta quanto sia stringente la necessità di praticare la virtù; ma questa necessità è ribadita da Gesù Cristo in quel comando: «Cercate prima di ogni cosa il regno di Dio e la sua giustizia» (MATTH. VI, 33); poiché il regno di Dio non si può cercare né ottenere se non con la virtù; avvertendo ancora che «chi poco semina, poco miete, e chi semina a larga mano, mieterà ancora in abbondanza» (I Cor IX, 6). Perciò l'Apostolo animava Timoteo ad esercitarsi nella pietà (I Tim. IV, 7), cioè esercitati in ogni genere di virtù; ed il Savio diceva: «Io ho amato la virtù, ne sono andato in traccia fin dalla mia giovinezza, e l'ho domandata in isposa, allettato dalla sua bellezza» (Sap. VIII, 2).., L'uomo che vive senza virtù non è un uomo, ma ne ha la sola apparenza, come conobbe e asserì il pagano Epitteto del quale si riferisce questo detto: «È indegno di portare il nome di uomo, chi non si studia di essere virtuoso (Anton. In Meliss.)». Non bisogna poi arrestarsi mai, finché non si sia raggiunta la pie­nezza della virtù; non si deve mai cessare dal fuggire il peccato, suo mortale nemico... Senza virtù non si dà salvezza; senza salvezza non si ha il cielo, non si ha Dio nell'eternità; quindi dove non vi è virtù, vi è l'eterna riprovazione.


3. FACILITÀ DELLA VIRTÙ. - A prima vista sembra stretta e spinosa la via della virtù, ma ben presto essa si allarga e si addolcisce, e tanto più si appiana e diviene deliziosa quanto più l'uomo vi si inoltra... Tutto il rovescio della strada del vizio... «Ogni virtù, dice S. Paolo, sembra che apporti nel presente non gioia, ma tristezza; ma in seguito dà a coloro che vi si addestrarono frutto dolcissimo di pace e di giustizia» (Hebr. XII, 11); e poi ancora: «Turbamento e affanno all'anima del malvivente; gloria, onore e pace a chi fa il bene» (Rom. II, 9-10). E prima di lui già il Savio aveva notato che splendida è la virtù e non si oscura mai, di modo che facilmente è veduta da quelli che l'amano, e trovata da quelli che la cercano. Essa precede quelli che la desiderano, per mostrarsi loro la prima (Sap. VI, 13-14).
Non vi è virtù senza lavoro e fatica, perché la virtù non avanza se non a forza di fatica; ma la dolcezza della virtù lenisce l'asprezza della fatica; quello che in questa vi è di triste e penoso presto se ne va e scompare; quello che vi è di confortante e dolce, viene e resta. È certo che si gusta molto più soave felicità nel piangere i peccati, che nel commetterli... Ci vuole più fatica ad essere vizioso, che ad essere virtuoso; infatti S. Agostino, che aveva bevuto alla coppa delle voluttà mondane, non appena ebbe conosciuto la felicità, la bellezza della virtù, esclamava inebriato: Beltà sempre antica e sempre nuova, oh! come tardi ti ho amato! (Confess.).
Praticando la virtù, noi ci accostumiamo a camminare per le sue strade con balda sicurezza, perché sodo e fermo è il suo cammino, e chi lo segue può dire col Salmista: «I miei piedi camminarono per la via diritta» (Psalm. XXV, 12). La virtù è il giogo, è il peso di Gesù Cristo; ora Gesù ci dice: «Prendete su di voi il mio giogo, perché esso è dolce, ed il mio peso è leggero» (MATTH. XI, 29-30). Quello che rende facile la virtù, è la grazia, sono i sacramenti, gli esempi di Gesù Cristo e dei Santi, la ricompensa promessa ed aspettata... Grande prova che la virtù è facile e dolce l'abbiamo in ciò, che tutti quelli che l'amano e la praticano sono felici; tutti quelli che ritornano a lei dopo di averla abbandonata, sono dolenti di non averla praticata per tutta la loro vita; e quelli che la trascurano e disprezzano sono i più infelici degli uomini...


4. LA VIRTÙ NON PUÒ STARE COL VIZIO. - Si legge nel I libro dei Re, che i Filistei avendo preso l'arca dell'Alleanza al popolo d'Israele, la collocarono nel tempio del loro idolo Dagon: ma alla pre­senza dell'arca, il preteso dio cadde a terra, la sua testa si spiccò dal busto e le sue mani si videro recise. L'arca è la virtù; Dagon è il vizio e il peccato... È impresa assurda accoppiarli insieme... «Che intesa vi può essere, dice S. Paolo, tra Cristo e Belial?» ­(II Cor VI. 15). Si videro mai le tenebre conciliarsi con la luce, la vita con la morte, il cielo con l'in­ferno? «Le persone insensate, dice il Savio, non comprendono la virtù, non la vedono nemmeno, perché sta essa lontana dal loro orgoglio e dalla loro malizia; i saggi le vanno incontro. I mentitori non se ne ricordano; gli uomini sinceri non se ne discostano mai di un punto e camminano felicemente accanto a lei fino alla vista di Dio» (Eccli. XV, 7-8).
La virtù è la nemica del vizio, lo perseguita, lo assale, lo scaccia; il vizio è il nemico sfidato della virtù, la insidia e la combatte all'esterno, la soffoca e l'annienta nel cuore. Le virtù, dice S. Giovanni Crisostomo, non possono abitare coi vizi. Quando i vizi sono sbaragliati dalle virtù, la carità s'impadronisce del luogo che prima teneva lo spirito di concupiscenza; la pazienza riprende quello che il furore si era preso; una gioia salutare ritempra e invigorisce quel cuore che la tristezza, compagna della morte, teneva calpestato ed abbattuto; il lavoro ripara i danni della pigrizia, l'umiltà rialza quello che l'orgoglio aveva calpestato. Trionfando nell'uomo le virtù opposte ai vizi che prima lo signoreggiavano, lo chiamano a nuova vita (In Exod.).


5. ECCELLENZA DELLA VIRTÙ. - «La virtù è cosa tanto eccellente, dice S. Giovanni Crisostomo, che nessun'altra le può stare a con­fronto; basti il dire che perfino quelli che la combattono, non si possono esimere dall'ammirarla» (Homil. ad pop.), e S. Ambrogio dice che perfetta è quell'età, ancorché tenerissima di anni, in cui si trova una virtù perfetta (De Iacob.). S. Bernardo la chiama un astro, e chiama cielo l'uomo che ne è fornito (Serm. XXVII, in Cantic.). E infatti la virtù contiene in sé tutti i beni; ella basta a se stessa, e quando regna in un cuore, questo non sente più alcuna privazione, non teme confusione, né afflizione di sorta. Giobbe spogliato di ogni cosa, sul suo letamaio, era l'uomo più ricco e più tranquillo del mondo, perché aveva la virtù... E la virtù, dice lo Spirito Santo, dispone tutte le cose soavemente (Sap. VIII, 1); è più preziosa di ogni diamante; tutte le gemme della terra non ne pareg­giano il valore. I suoi sentieri sono sentieri di dolcezza, e le sue vie mettono tutte alla pace. Con una mano ella presenta lunghezza di vita, con l'altra offre onori e ricchezze. E l'aurora della vita per quelli che l'abbracciano; felici coloro che se la stringono al seno! Il suo possesso vale più di tutti i tesori e i frutti di lei sono più preziosi dell'oro finissimo (Prov. III, 14-18).
Dopo una testimonianza così autorevole, non c'è da stupire se tutti i santi Padri giudicano povertà e miseria ogni ricchezza del mondo, posta a confronto della virtù. Clemente Alessandrino insegna che vero tesoro è il cumulo di azioni virtuose (Paedag. l. III). «Non l'oro e l'argento, dice S. Bernardo, ma le virtù costituiscono le vere ricchezze» (Serm. IV, de Advent.). S. Ambrogio ci avverte che Dio non tiene per ricco se non chi è ricco per il cielo, colui che raccoglie non i frutti delle ricchezze periture, ma i frutti delle virtù. Non vi pare sommamente ricco chi ha la pace dell'anima, la tranquillità, il riposo; che non desi­dera nulla, che non è agitato da nessuna tempesta?... Dunque se volete trovare tesori, prendete quelli che troverete nella virtù, non quelli che stanno sepolti nelle viscere della terra. La vita e la ricchezza dell'uomo consistono nella virtù. Con la virtù, ancorché man­casse ogni altra cosa, si ha tutto; senza la virtù, benché abbondasse tutto il resto, non si ha niente (De Abel et Cain, l. XI, c. V – l. I, c. V).
S. Prospero parlando della virtù dice egregiamente: Noi dob­biamo desiderare ricchezze che ci adornino e ci proteggano; che non acquistiamo a nostra insaputa, che non perdiamo nostro malgrado, che ci armino contro i nostri nemici, che ci rendano vittoriosi del mondo e cari a Dio; che arricchiscano e nobilitino le anime nostre, che siano con noi e in noi. E queste ricchezze sono la purità, la giustizia, la pietà, l'umiltà, la mansuetudine, la misericordia, la fede, la speranza, l'amore (De vita contemp.). «Le ricchezze che non pos­sono restare con noi lungo tempo, sono false, scrive San Gregorio (Homil. XV, in Evang.); fallaci sono quei tesori che non portano sollievo alla povertà dell'a­nima nostra. Sole vere ricchezze sono quelle che ci fanno ricchi in virtù. Se volete dunque essere veramente ricchi, amate le virtù, sole vere e sode ricchezze». Sono piene di sapienza le parole di Tobia a suo figlio: «Non temere; è vero che facciamo una vita povera, ma grandi ricchezze abbiamo, se temiamo Dio, se ci asteniamo dal peccato e facciamo bene» (TOB. IV, 23).
Il Savio, nei Proverbi, chiama la virtù albero della vita (III, 18); e infatti, 1° essa procura e mantiene sia la vita naturale dell'anima, sia la soprannaturale della grazia... - Come l'albero della vita comunicava il vigore della vita, cosi la virtù allontana dalla nostra vita quello che la snerva e la fa languire. «Il giusto fiorirà come palma» - dice il Salmista(XCI, 13)... 3° Saporitissimo era il frutto dell'albero della vita; tale è il frutto della virtù... 4° L'albero della vita preservava l'uomo dalla morte; questo prodigio opera pur essa la virtù... 5° L'albero della vita nel paradiso raffigurava la visione di Dio; la virtù rappresenta. Dio in colui che la pratica. Quelli che trovano la virtù, leggiamo neiProverbi, trovano la vita; la loro salute verrà dal Signore. Ma quelli che peccano contro la virtù, sono carnefici dell'anima propria; tutti quelli che la odiano, amano la morte (Prov. VIII, 35-36). «La giustizia nel suo più ampio significato, ossia la virtù, innalza le nazioni; il vizio rende i popoli infelici» (Prov. XIV, 34). S. Agostino insegna che la virtù è il solo e sommo bene (De lib. Arbitr. lib. II, c. XVIII): e infatti, essa ci governa...; ci fa cibo e vestite...; c'istruisce...; ci protegge...; ci procura buon nome...; ci rinforza e innalza...; ci apporta la gloria... La virtù regola l'appetito dei sensi e i movimenti delle diverse concupiscenze... E la sanità dell'anima e del corpo... Pro­cura una santa vita, una buona morte, un giudizio favorevole; chiude l'inferno ed apre il cielo... ­
Il vizio getta il turbamento e l'angoscia nell'anima, dice Lattanzio; la virtù invece vi apporta la dolcezza e la tranquillità (Lib. VII, c. X). Nell'uomo virtuoso, secondo la bella osservazione di S. Ambrogio, la giustizia cerca, la prudenza trova, la forza prende, la temperanza possiede: la giustizia è nel cuore; la prudenza nello spirito; l'energia, nell'opera; la temperanza nell'uso (Offic.). Non ci sfuggano mai dalla memoria queste sensatissime parole di S. Giovanni Crisostomo (Hom. XL, in Ioann.): «Nessuna cosa istupidisce tanto gli uomini quanto il peccato; nulla li rende tanto saggi, quanto la virtù, perché li tempera a misericordia, a riconoscenza, a bontà, a umanità, a dolcezza. La virtù è madre, radice, sorgente della saviezza; ogni peccato ha le sue radici nella stoltezza; sapientissimo è chi coltiva la virtù». Chi è privo di virtù diventa ben presto, come Caino, fuggiasco, vagabondo; segnato col marchio della riprovazione, non sa più dove va, donde viene, quel che si fa; ben presto si vede tuffarsi e scomparire nei baratro del vizio...
Anche i pagani si accorsero dell'eccellenza della virtù. Isocrate, per esempio, diceva che non vi è nulla di più bello, né di più perfetto (Ad Daemonicum). Aristotele la chiama la misura di tutte le cose, l'epurazione, la perfezione dell'anima (Ethic. lib. I, c. IV). Epitteto rassomiglia l'anima virtuosa ad un fonte inesauribile, dalle acque dolci, pure, limpide, fresche, benefiche, abbondanti, incapaci di nuocere (Apud Stobaeum, serm. I). Cicerone dice che fuori della virtù tutto è falso, incerto, caduco, mobile; la virtù sola ha tali profondissime e saldissime radici, che nessuna forza basta a scuoterla (Philipp. IV). E altrove dice: Chi dubita che le vere ricchezze non consistano nella virtù? Infatti nessuna quantità d'oro o d'argento regge al confronto delle virtù. Se gli stimatori dei beni terreni portano a così alto prezzo le cose periture, quanto non deve valere la virtù, che non può perire né essere involata? essa che non teme rovina né per nau­fragio, né per incendio? essa che non va soggetta a mutazione né per vicende di tempo, né per impeto di tempeste? Quelli che la posseg­gono sono i soli ricchi, perché essi soli possiedono quello che pro­duce ricchi e abbondanti frutti che durano eterni (Tuscul. II).