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lunedì 8 luglio 2019

Come deve essere chi si accosta al governo delle anime

10 — Come deve essere chi si accosta al governo delle anime (dalla Regola di san Gregorio Magno)
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Pertanto, in tutti i modi deve essere trascinato, a divenire esempio di vita, colui che morendo a tutte le passioni della carne vive ormai spiritualmente; ha posposto a tutto il successo mondano; non teme alcuna avversità; desidera solamente i beni interiori. 

Pienamente conformi alla sua intima disposizione, non lo contrastano né il corpo con la sua debolezza né lo spirito col suo orgoglio. Egli non è condotto a desiderare i beni altrui, ma è largo dei propri. 
Per le sue viscere di misericordia si piega ben presto al perdono ma non deflette dalla più alta rettitudine, passando sopra più di quanto conviene. Non commette nulla di illecito, ma piange come proprio il male commesso dagli altri. 

Compatisce la debolezza altrui con tutto l’affetto del cuore, gioisce dei beni del prossimo come di successi suoi. In tutto ciò che fa si mostra imitabile agli altri, così che con loro non gli avviene di dover arrossire nemmeno per fatti passati. 
Si studia di vivere in modo tale da essere in grado di irrigare, con le acque della dottrina, gli aridi cuori del suo prossimo. 
Attraverso la pratica della preghiera, ha imparato per esperienza che può ottenere da Dio ciò che chiede, lui cui in modo speciale è detto dalla parola profetica: Mentre ancora tu parli, io dirò: Eccomi, sono qui (Is. 58, 9). 

Infatti, se venisse qualcuno a prenderci per condurci come suoi intercessori presso un potente adirato con lui e che, per altro, non conosciamo, noi risponderemmo subito: non possiamo venire ad intercedere perché non sappiamo niente di lui. 

Dunque, se un uomo si vergogna di farsi intercessore presso un altro uomo che non conosce, con quale animo può attribuirsi la funzione di intercedere per il popolo presso Dio, chi non sa di godere la familiarità della sua grazia con la sua condotta di vita? 
O come può chiedergli perdono per gli altri uno che non sa se egli è placato verso di lui? 

A questo proposito, un’altra cosa occorre temere con maggiore sollecitudine, cioè che colui che si crede possa placare l’ira, non la meriti a sua volta a causa del proprio peccato. 
Giacché sappiamo tutti molto bene che se chi viene mandato a intercedere è già sgradito per se stesso, l’animo di chi è irato viene provocato a cose peggiori. 
Pertanto, chi è ancora stretto dai desideri terreni veda di non accendere più gravemente l’ira del Giudice severo e mentre gode del suo luogo di gloria, non divenga autore di rovina per i sudditi. 

AMDG et DVM

sabato 8 giugno 2019

Alla scuola di san Gregorio Magno

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— Come bisogna ammonire i sudditi e i prelati


Diverso è il modo di ammonire i sudditi e i prelati, affinché l’assoggettamento non annienti i primi e la posizione elevata non esalti i secondi. 

Quelli non compiano meno di ciò che è stato loro ordinato, e questi non ordinino pila di quanto giustamente si può compiere; i primi siano sottomessi umilmente e gli altri presiedano con moderazione. 

Infatti, per quanto si può anche intendere in modo figurato, ai sudditi viene detto: Figli, obbedite ai vostri genitori, nel Signore; e per i prelati c’è il precetto: E voi, padri, non provocate all’ira i vostri figli (Col. 3, 20-21). 

I primi imparino come disporre il proprio intimo agli occhi del Giudice occulto; e gli altri come offrire all’esterno esempi di una vita buona anche a coloro che sono stati loro affidati. I prelati, infatti, devono sapere che se commettono azioni perverse sono degni di morire tante volte quanti sono gli esempi di perdizione che essi offrono ai loro sudditi. 

Perciò è necessario che si custodiscano dalla colpa con una cautela tanto maggiore in quanto non sono soli a morire, a causa delle loro azioni perverse, ma sono rei delle anime altrui che essi hanno distrutto con i loro cattivi esempi. 

Così occorre ammonire i sudditi, che saranno severamente puniti se non sapranno farsi trovare liberi da colpa, almeno quanto a se stessi; e i prelati, che saranno giudicati degli errori dei sudditi anche se essi si sentono tranquilli per quanto li riguarda personalmente.

I sudditi abbiano una cura tanto pila sollecita del proprio dovere in quanto non devono preoccuparsi degli altri; ma i prelati provvedano agli interessi altrui senza tralasciare di curare i propri, e per questi siano ferventi e solleciti come in nulla devono essere pigri a custodire quanti sono stati loro affidati. 
Infatti a colui che deve provvedere solo a se stesso viene detto: Va’ dalla formica, pigro, e considera le sue vie e impara la sapienza (Prov. 6, 6);
ma all’altro viene fatta una terribile ammonizione quando gli è detto: Figlio mio, ti sei impegnato per il tuo amico, hai dato la tua mano a un estraneo e ti sei preso al laccio con le parole della tua bocca e sei prigioniero dei tuoi propri discorsi (Prov. 6, 1). 

Infatti, impegnarsi per un amico equivale a prendere su di sé l’anima di un altro a rischio della propria vita; per questo poi si dà anche la mano a un estraneo, perché l’animo si lega a una preoccupazione e a una sollecitudine che prima non aveva. Ed egli è preso al laccio dalle parole della sua bocca e prigioniero dei propri discorsi, perché mentre è costretto a dire cose buone a coloro che gli sono stati affidati è necessario che prima egli stesso custodisca ciò che dice, ed è quindi propriamente preso al laccio dalle parole della sua bocca quando è costretto dalla coerenza a non abbandonarsi a una vita diversa da quanto egli va insegnando.

E perciò presso il severo Giudice egli è costretto ad adempiere, praticamente, tutto quanto risulta che egli ha imposto agli altri a parole. 
Segue poi subito e opportunamente l’esortazione: Dunque, fa’ quanto ti dico, figlio mio, e liberati poiché sei caduto nelle mani del tuo prossimo, corri, affrettati, sveglia il tuo amico, non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre (Prov. 6, 3-4). Chi infatti è preposto agli altri come esempio di vita è ammonito non solo a vegliare lui stesso ma anche a svegliare l’amico. Giacché non basta, perché la sua vita sia buona, che vegli, se non separa dal torpore del peccato anche colui a cui presiede. 

Ed è detto bene: Non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre. Dare sonno agli occhi significa trascurare affatto la cura dei sudditi cessando l’attenzione per loro. 
E le palpebre sonnecchiano quando i nostri pensieri sanno che cosa bisogna rimproverare ai sudditi ma lo dissimulano, resi
indolenti dalla pigrizia. 

Infatti, dormire profondamente è non conoscere e non correggere le azioni dei sudditi, mentre non è dormire ma sonnecchiare, il conoscere ciò che va rimproverato e tuttavia non correggerlo coi giusti rimproveri, per una specie di pigra noia dello spirito. 
Ma, sonnecchiando, l’occhio cade nel sonno profondo, e ciò avviene per lo più quando chi governa non taglia il male che conosce, e quindi poi, a causa della sua negligenza, può giungere addirittura al punto di non sapere più riconoscere il peccato commesso dai sudditi. 

Pertanto, bisogna ammonire coloro che governano ad avere gli occhi attentissimi, dentro di sé e attorno, attraverso una accurata vigilanza e ad adoperarsi per divenire animali celesti (cf. Ez. 1, 18): quegli animali celesti che vengono descritti
tutti pieni di occhi di dentro e di fuori (cf. Ap. 6, 6). 

Ed è certo cosa degna che tutti quelli che governano abbiano occhi rivolti dentro di sé e attorno e, mentre cercano di piacere nel loro intimo al Giudice interiore, offrendo all’esterno esempi di vita scorgano anche ciò che va corretto negli altri. 

sudditi poi vanno ammoniti a non giudicare temerariamente la vita dei loro superiori, se capita di vederli fare qualche cosa degna di rimprovero, perché non accada che, mentre giustamente rimproverano cose malfatte, poi per un impulso orgoglioso, sprofondino in mali peggiori. 

Bisogna ammonirli che, quando considerano le colpe dei superiori, non diventino arroganti verso di loro, ma se si danno di fatto in essi alcune gravi colpe, le discernano così però da non rifiutarsi, in ogni caso, di portare nei loro confronti il giogo del rispetto dovuto, costretti a ciò dal timore di Dio. 

Ciò si dimostra meglio portando l’esempio di quanto fece  David: una volta che Saul, il suo persecutore, era entrato in una grotta per evacuare, e là c’era David coi suoi uomini — il quale già da lungo tempo portava il peso della sua persecuzione — questi, poiché i suoi lo incitavano a colpire Saul, li persuase con la risposta che non si doveva mettere le mani sull’unto del Signore. Tuttavia si alzò di nascosto e gli tagliò il lembo del mantello (cf. 1 Sam. 24, 4 ss.). 

Che cosa rappresenta Saul se non le cattive guide delle anime; e David, se non i buoni sudditi? Pertanto, Saul che evacua designa i superiori empi che estendono la malizia concepita nel cuore a compiere opere maleodoranti, e mostrano nell’aperta esecuzione dei fatti i pensieri colpevoli del loro intimo. 

E tuttavia David ebbe timore di colpirlo perché le pie menti dei sudditi che si astengono da ogni pestifera maldicenza non
colpiscono la vita dei superiori, con la spada della loro lingua, anche quando li rimproverano per la imperfezione. 

E se pure talvolta, per la loro debolezza fanno fatica ad astenersi dal parlare di certe mancanze dei superiori più gravi e manifeste, e tuttavia lo fanno umilmente, è come se tagliassero in silenzio l’orlo del mantello; perché questo mancare verso la dignità del superiore, sia pure senza nuocere e di nascosto, equivale a rovinare la veste del re costituito su di loro. 

Ma essi poi rientrano in se stessi e si rimproverano aspramente perfino di quel leggerissimo taglio operato con la parola. Perciò si trova giustamente scritto in quel luogo: Dopo ciò David percosse il suo cuore, per aver tagliato l’orlo del mantello di Saul (1 Sam. 24, 6). 

Dunque, le azioni dei superiori non bisogna ferirle con la spada della bocca, anche quando si giudica che sia giusto rimproverarle. 
Se però qualche volta la lingua si lascia andare anche per pochissimo contro di loro, bisogna che il cuore si stringa per il dolore del pentimento finché rientri in se stesso e, avendo peccato contro l’autorità che gli è preposta, tema molto il giudizio di colui che gliel’ha preposta. 

Perché quando pecchiamo contro i superiori contravveniamo a quella disposizione che ce li ha preposti. Perciò anche Mosè, quando venne a sapere che il popolo si lamentava contro di lui e contro Aronne, disse: Che cosa siamo noi? La vostra mormorazione non è contro di noi, ma contro il Signore (Es. 16, 8). 


http://www.ortodossia.it/w/media/com_form2content/documents/c17/a2136/f255/Gregorio%20Regola.pdf
AMDG et DVM

domenica 5 marzo 2017

"Non in pane solo vivet homo, sed in omni verbo quod procédit de ore Dei"”.




DOMINICA PRIMA QUADRAGESIMAE 

INTROITUS. Ps 90,15a.c-16a Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum. Ps 90,1: Qui hábitat in adiutório Altíssimi, in protectióne Dei cæli commorábitur. Glória Patri. Invocábit me, et ego exáudiam. Kýrie, eléison. 
Non dicitur Glória in excélsis. 

COLLECTA. Orémus. COncéde nobis, omnípotens Deus : ut, per ánnua quadragesimális exercítia sacraménti, et ad intellegéndum Christi proficiámus arcanum / et efféctus eius digna conversatione sectémur : Per Dóminum. 

LECTIO. 2 Cor 6,1-10 Ecce nunc tempus acceptabile. 

Léctio Epístolæ secúndæ beáti Pauli apóstoli ad Corínthios. FRatres: Adiuvántes, exhortámur ne in vácuum grátiam Dei recipiátis —ait enim: “Témpore accépto,  exaudívi te et in die salútis adiúvi te”. Ecce nunc tempus acceptábile, ecce nunc dies salútis—, némini dantes ullam offensiónem, ut non vituperétur ministérium, sed in ómnibus exhibéntes nosmetípsos sicut Dei minístros* in multa patiéntia, in tribulatiónibus, in necessitátibus, in angústiis, in plagis, in carcéribus, in seditiónibus, in labóribus, in vigíliis, in ieiúniis, in castitáte, in sciéntia, in longanimitáte, in suavitáte, in Spíritu Sancto, in cantáte non ficta, in verbo veritátis, in virtúte Dei: per arma iustítiæ a dextris et sinístris, per glóriam et ignobilitátem, per infámiam et bonam famam: ut seductóres et veráces, sicut qui ignóti et cógniti, quasi moriéntes et ecce vívimus^ ut castigáti et non mortificáti, quasi tristes, semper autem gaudéntes, sicut egéntes, multos autem locupletántes, tamquam nihil habéntes et ómnia possidéntes. 

RESPONSORIUM. Ps 90,11-12 IV. Angelis suis Deus mandávit de te: ut custódiant te in ómnibus viis tuis. V/. In mánibus portábunt te: ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum. 

TRACTUS. Ps 90,1-7.11-16 Qui hábitat in adiutório Altíssimi, in protectióne Dei cæli commorábitur. V/. Dicet Dómino, Suscéptor meus es tu, et refúgium meum: Deus meus, sperábo in eum. y. Quóniam ipse liberávit me de láqueo venántium, et a verbo áspero. y. Scápulis suis obumbrábit tibi: et sub pennis eius sperábis. y. Scuto circúmdabit te véritas eius: non timébis a timóre noctúrno. y. A sagítta volánte per diem, a negótio perambulánte in ténebris, a ruína, et dæmónio meridiáno.  V/. Cadent a látere tuo mille, et decem mília a dextris tuis: tibi autem non appropinquábit. y. Quóniam Angelis suis mandávit de te: ut custódiant te in ómnibus viis tuis. V/. In mánibus portábunt te: ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum. T. Super áspidem et basilíscum ambulábis: et conculcábis leónem et dracónem. T. Quóniam in me sperávit, liberábo eum: prótegam eum, quóniam cognóvit nomen meum. y. Invocábit me, et ego exáudiam eum: cum ipso sum in tribulatióne. y. Erípiam eum, et glorificábo eum. y. Longitúdine diérum adimplébo eum: et osténdam illi salutáre meum. 

EVANGELIUM. Mt 4,1-11 Iesus per quadraginta dies ieiunat et tentatur. 

*f* Léctio sancti Evangélii secúndum Matthaéum. 
IN illo témpore: Iesus ductus est in desértum a Spíritu, ut tentarétur a diábolo. Et cum ieiunásset quadragínta diébus et quadragínta nóctibus, póstea esúriit. 
Et accédens temptátor dixit ei: “Si Fílius Dei es, dic ut lápides isti panes fiant”. Qui respóndens dixit: “Scriptum est: "Non in pane solo vivet homo, sed in omni verbo quod procédit de ore Dei"”. 
Tunc assúmit eum diábolus in sanctam civitátem, et státuit eum supra pinnáculum templi et dicit ei: “Si Fílius Dei es, mitte te deórsum: scriptum est enim: "Angelis suis mandábit de te et in mánibus tollent te, ne forte offéndas ad lápidem pedem tuum"”. Ait illi Iesus: “Rursum scriptum est: Non tentábis Dóminum Deum tuum”. 
Iterum assúmit eum diábolus in montem excélsum valde, et osténdit ei ómnia regna mundi et glóriam eórum, et dicit illi: “Hæc tibi ómnia dabo si cadens adoráveris me”. Tunc dicit ei Iesus: “Vade, Sátanas; scriptum est enim: "Dóminum Deum tuum adorábis et illi soli sérvies"”. Tunc relíquit eum diábolus, et ecce ángeli accessérunt et ministrábant ei. 

Credo in unum Deum. 

SUPER OBLATA. OFferéntes hæc múnera, quaesumus, Dómine : ut diáboli fraudes strénue vitemus / et te, solum Deum, pura ménte sectémur : Per Christum. 
COMMUNIO. Ps 90,4-5a Scápulis suis obumbrábit tibi, et sub pennis eius sperábis: scuto circúmdabit te véritas eius. 
POSTCOMMUNIONEM. Orémus. CÆlésti pane refécti, quo fides álitur, spes provéhi-tur et cáritas roborátur : quaésumus, Domine / ut in omni verbo, quod procédit de ore tuo, víveré valeámus : Per Dóminum. 
*
Sermone di san Leone Papa

Sermone 4 sulla Quaresima
Dovendo parlarvi, o dilettissimi, del più grande e sacro fra i digiuni, potrei servirmi di migliore esordio, che incominciare colle parole dell'Apostolo, nel quale parlava Cristo, ripetendovi ciò che è stato letto: «Ecco il tempo favorevole, ecco il giorno della salvezza?» (2Cor. 6,4). E sebbene non ci sia tempo che non sia ricco dei doni divini, e noi troviamo sempre accesso, per sua grazia, presso la misericordia di Dio, tuttavia è necessario che gli animi di tutti si eccitino con maggiore zelo ai progressi spirituali, e che siano animati d'una maggior fiducia, ora che la ricorrenza di quel giorno medesimo, in cui siamo stati redenti, ci invita a compiere tutti i doveri della pietà cristiana: affinché, purificati nell'anima e nel corpo, celebriamo il mistero, il più sublime di tutti, della passione del Signore.


Certo, sì gran mistero meriterebbe testimonianze sì continue di devozione e venerazione, che noi dovremmo essere sempre dinnanzi a Dio tali quali conviene che siamo nella festa stessa di Pasqua. Ma siccome questa forza d'animo è di pochi; e da una parte per la debolezza della carne si rilassa anche l'osservanza più rigida, e dall'altra le diverse occupazioni di questa vita assorbono la nostra sollecitudine, avviene necessariamente, che anche i cuori religiosi rimangono lordati dalla polvere del mondo; fu provvista con grande utilità nostra questa istituzione divina, affinché questi esercizi di quaranta giorni ci aiutassero a ricuperare la purezza dell'anima, riscattando con pie opere e con casti digiuni i falli degli altri tempi dell'anno.


Pertanto nell'entrare, dilettissimi, in questi giorni misteriosi santamente istituiti per purificare gli animi e i corpi, procuriamo di obbedire ai precetti degli Apostoli, liberandoci da ogni macchia della carne e dello spirito: affinché, represse le lotte che esistono fra le due parti di noi stessi, l'anima ricuperi la dignità del suo impero, essendo giusto ch'essa, sottomessa a Dio e da lui governata, sia padrona del suo corpo: così che non dando scandalo a nessuno, non incorriamo il biasimo dei maligni. Perché noi meriteremmo giusti rimproveri dagli infedeli, e le lingue degli empi si armerebbero del nostro fallo per calunniare la religione, se i costumi di quelli che digiunano fossero difformi dalla purezza d'una perfetta continenza. Ché il punto essenziale del nostro digiuno non consiste nella sola astinenza dal cibo: ed inutilmente si sottrae al corpo il nutrimento, se lo spirito non si allontana dal peccato.

V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

Lettura del santo Vangelo secondo Matteo
Matt 4:1-11.
In quell'occasione: Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. E, dopo ch'ebbe digiunato quaranta giorni e quaranta notti, finalmente ebbe fame. Eccetera.

Omelia di san Gregorio Papa
Omelia 16 sul Vangelo
Alcuni si domandano da quale spirito Gesù fu condotto nel deserto, e rimangono incerti a motivo di quello che si soggiunge: «Il diavolo lo trasportò nella città santa» (Matth. 4,51); e poi: «Lo trasportò sopra un monte molto elevato» (Matth. 4,8). Ma l'opinione ragionevole e conveniente senza motivo di dubitarne, si è di credere, ch'egli fu condotto nel deserto dallo Spirito Santo: affinché il suo Spirito lo conducesse là dove lo spirito maligno doveva trovarlo per tentarlo. Ma ecco, quando si dice che l'uomo-Dio fu trasportato dal diavolo sopra un monte molto elevato, o nella città santa, la mente rifugge dal crederlo, e le orecchie umane si spaventano in udirlo. Però se riflettiamo che ben altre cose avvennero in lui, conosceremo non essere ciò incredibile.

Certo, il diavolo è il capo di tutti gli iniqui: e tutti gli empi sono le membra di questo capo. Non fu forse membro del diavolo Pilato? non furono forse membra del diavolo i Giudei che perseguitarono Cristo, e i soldati che lo crocifissero ? Qual meraviglia dunque, se permise d'essere trasportato sul monte, egli che sopportò d'essere ancora crocefisso dalle membra di lui? Non è dunque indegno per il nostro Redentore l'aver voluto essere tentato, egli che era venuto per essere ucciso. Era anzi giusto ch'egli vincesse così colle sue tentazioni le nostre tentazioni, come era venuto per trionfare della morte nostra colla sua morte.

Ma si deve sapere che ci sono tre gradi nella tentazione: la suggestione, la dilettazione e il consenso. E noi quando siamo tentati, per lo più cadiamo nella dilettazione o anche nel consenso: perché, formati di carne e nati nel peccato, anche in noi stessi portiamo i nemici di cui dobbiamo sostenere gli attacchi. Iddio invece che, incarnatosi nel seno della Vergine, era venuto al mondo senza peccato, non portava in se stesso alcun principio di contradizione. Poté quindi essere tentato per suggestione, ma giammai la compiacenza del peccato penetrò nell'anima sua. E perciò tutta quella diabolica tentazione fu esterna, non interna.
V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

Trinità Santissima o Santissima Trinità
colloca il Tuo sguardo su questa Umanità
altrimenti sarà finita

AMDG et BVM

sabato 3 settembre 2016

SAN GREGORIO I, detto MAGNO



3 settembre
(ex 12 marzo)
Angelo di Pietro e dei principi della ChiesaSan Gregorio I, detto Magno
S. Ephasiel
I grandi santi dottori della Chiesa e papi sono come colonne nella costruzione della santa Chiesa, in cielo come in terra. Perciò si assomigliano i simboli dei grandi dottori della Chiesa, già inginocchiati davanti al trono del Signore ed i simboli degli angeli delle alte potestà, che sono stati chiamati come testimoni dell’alleanza di Dio con il suo popolo.
Oggi la santa Chiesa festeggia la memoria del santo papa Gregorio il Grande e vediamo che porta nelle sue mani il libro e la chiave. Il libro è il segno della parola di Dio. S. Gregorio ha fortificato e rinnovato ai suoi tempi la vita della Chiesa con la parola di Dio. Con la parola di Dio ha convertito popoli interi, con questa parola, che era la sua vita ed il suo nutrimento, ha combattuto gli spiriti, questa parola è diventata il punto d’appoggio nella sua bara. La chiave è il segno della potenza di S. Pietro, che è stata passata anche a lui: ‘‘...ed Io ti darò le chiavi del regno dei cieli...’’.
Vicino a questo grande papa Dio pone
S. Ephasiel
l’alta potestà, l’angelo di S. Pietro e di tutti gli apostoli, vescovi, dottori e sacerdoti. Anche quest’angelo porta libro e chiave e la sua statura è così imponente che potrebbe essere lui stesso la roccia sulla quale sta la santa Chiesa. Ma S. Ephasiel porta ancora un simbolo, che è la croce rovesciata di S. Pietro, il segno della sua umiltà, il suo segno della vittoria. Con questa croce S. Pietro precede tutti papi santi e questa croce è il cardine del giudizio per ogni sacerdote nella successione di S. Pietro. Giacché Dio eleva il sacerdote così in alto dal popolo, così in basso deve curvarsi il sacerdote stesso. La croce di S. Pietro dovrebbe ammonire in ogni cuore di sacerdote il servo di Dio all’umiltà ed alla vera successione di S. Pietro.
Solo chi ha vissuto e trasformato in vita santa la parola di Dio può portarla come lascito, altrimenti questa parola lo frantumerà come spada, a suo tempo, nella mano del giudice.
Preghiera: Signore e Dio, Tu ci hai indicato per mezzo dei Tuoi angeli e santi la via attraverso la parola e l’amore; dacci la forza di camminare per questa strada in umiltà e fedeltà, nel segno della croce, che è la nostra salvezza e salute. Amen.
 
Testo in lingua originale

giovedì 18 dicembre 2014

La guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne

  S.Gregorius
Regola pastorale 207


La guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore

207

La guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore, affinché, dedito alle attività esterne non venga meno alla vita spirituale oppure occupato solo in essa manchi di rendere quel che deve al prossimo nell’attività esterna. 




Quindi ancora dice: Nessuno può servire a due padroni (Lc 16,13). Perciò Paolo interdice le anime religiose dal commercio col mondo dichiarando o piuttosto consigliando pressantemente: Nessuno che militi per Dio si immischi in affari secolari per potere piacere a colui che l’ha arruolato (2Tm 2,4). 
   Perciò prescrive alle guide della Chiesa di essere liberi da altri interessi e mostra loro come provvedere quando si tratti di cercare consigli, dicendo: Pertanto, se avrete delle liti riguardo a interessi secolari stabilite come giudici persone da niente nella Chiesa (1Co 6,4), perché all’amministrazione dei beni terreni servano quelli che sono non dotati di alcun dono spirituale. Come se dicesse apertamente: poiché non sanno penetrare le realtà interiori, operino almeno per le necessità esterne. 
     Perciò Mosè, che parla con Dio (cf. Es. Ex 18,17-18), viene giudicato dal rimprovero di Ietro, uno straniero, perché serve con una fatica inutile alle faccende terrene del popolo, e riceve subito il consiglio di stabilire altri al posto suo a dirimere le liti, per potere lui stesso più liberamente conoscere i misteri spirituali e insegnarli al popolo. Pertanto tocca ai sudditi svolgere le attività di grado inferiore, e alle guide delle anime meditare le verità somme affinché il darsi cura della polvere non oscuri l’occhio preposto a fare da guida nel cammino 
   Infatti, tutti coloro che presiedono sono capo dei sudditi e senza alcun dubbio è il capo che deve provvedere dall’alto a che i piedi siano in grado di percorrere la via diritta e non si intorpidiscano nel procedere del viaggio, quando il corpo si incurva e il capo si piega verso terra. 
   Ma con quale disposizione interiore colui che è preposto alle anime esercita sugli altri la dignità pastorale se lui stesso è preso dalle attività terrene che dovrebbe rimproverare negli altri? È chiaramente questo che il Signore, dall’ira della giusta retribuzione, minaccia per mezzo del profeta dicendo: E come il popolo così sarà il sacerdote (Os 4,9). E il sacerdote è come il popolo quando colui che esplica un ufficio spirituale compie esattamente le stesse cose di coloro che vengono ancora designati dai loro interessi carnali. 
   Vedendo questo, il profeta Geremia piange, con grande dolore ispirato dalla sua carità, e lo raffigura nella distruzione del tempio dicendo: Come si è annerito l’oro e si è mutata la sua splendida lucentezza, le pietre del santuario sono state disperse in capo a tutte le piazze (Lm 4,1). Che cosa si intende infatti con oro, che è il metallo più prezioso di tutti, se non l’eccellenza della santità? Che cosa si esprime con splendida lucentezza se non la riverenza che ispira la dignità religiosa amabile a tutti? Che cosa significano le pietre del santuario, se non le persone insignite di ordini sacri? Che cosa si raffigura col nome di piazze, se non la larghezza della vita presente? Infatti nella lingua greca la larghezza è detta platos ed è certo per la larghezza che le piazze sono chiamate così. Ma la Verità in persona dice: Larga e spaziosa è la via che porta alla perdizione (Mt 7,13). 

   L’oro pertanto annerisce quando una vita che deve essere santa si contamina con attività terrestri. La splendida lucentezza si muta quando diminuisce la stima che si era fatta di certuni i quali si credeva vivessero religiosamente. Infatti quando qualcuno, chiunque sia, lascia il costume di una vita santa per immischiarsi in attività terrestri, la riverenza che egli ispirava, divenuta oggetto di disgusto, impallidisce agli occhi degli uomini come la vivezza di un colore alterato. E anche le pietre del santuario vengono sparse nelle piazze quando coloro, che per il decoro della Chiesa avrebbero dovuto attendere solo ai misteri dello spirito, come nel segreto del Tabernacolo, vagano invece fuori, sulle larghe vie degli affari mondani. In effetti, le pietre del santuario erano fatte per comparire nell’interno del Santo dei Santi sulla veste del sommo sacerdote; ma quando i ministri della religione non sanno esigere, coi meriti della loro condotta di vita, l’onore dovuto dai sudditi al loro Redentore, allora le pietre del santuario non sono ornamento del pontefice. Esse giacciono sparse sulle piazze perché coloro che portano gli ordini sacri, dediti alla larghezza dei loro piaceri, sono tutti presi dagli affari terreni. 
E occorre notare che non dice che sono sparsi nelle piazze, ma in capo alle piazze, poiché mentre si occupano delle cose del mondo aspirano ad apparire in alto, per mantenersi sulle larghe vie, per l’allettamento del piacere, e insieme in capo alle piazze, per l’onore che viene attribuito alla santità. 
Del resto possiamo anche intendere senza difficoltà che le pietre del santuario siano invece quelle medesime con cui il santuario era stato costruito; in questo caso quelle pietre giacciono in capo alle piazze quando gli uomini insigniti degli ordini sacri si pongono con desiderio al servizio di affari mondani mentre prima sembrava che la loro gloria consistesse nel servizio delle cose sante. 
Così, gli affari mondani si devono assumere talvolta per esigenze di carità, ma non si devono mai ricercare con passione, per evitare che esse, gravando l’animo di chi le predilige, lo trascinino avvinto al proprio peso, dalle regioni celesti giù nel profondo. 
Ma si dà anche il caso che alcuni assumano effettivamente la cura del gregge, ma aspirano tanto per sé di essere liberi di dedicarsi alle cose spirituali che non si occupano per nulla affatto di cose esterne. Allora, poiché essi trascurano totalmente le cure materiali, non soccorrono in nulla le necessità dei sudditi e per lo più la loro predicazione viene sdegnata e non vengono ascoltati volentieri poiché rimproverano l’agire dei peccatori, ma poi non amministrano loro quanto è necessario alla vita presente. Infatti la parola della dottrina non penetra nella mente del bisognoso se una mano misericordiosa non la raccomanda al suo cuore. E invece, il seme della parola germina facilmente quando la pietà di chi predica lo irriga nel petto di colui che ascolta. Perciò è necessario che la guida delle anime possa infondere le verità spirituali e anche provvedere alle necessità esteriori con una attenzione del pensiero che però non gli danneggi. 

   Così, i Pastori siano ferventi degli interessi spirituali dei loro sudditi, purché in questo non tralascino di provvedere pure alla loro vita esteriore. Infatti, come abbiamo detto, è comprensibile che l’animo del gregge non creda alla predicazione che dovrebbe accogliere, se il Pastore tralascia la cura dell’aiuto esterno. Perciò il primo Pastore ammonisce con sollecitudine dicendo: Scongiuro gli anziani che sono tra voi, io anziano come loro e testimone dei patimenti di Cristo e fatto partecipe della sua gloria che deve essere rivelata in futuro, pascete il gregge di Dio che è tra voi. Ed egli stesso spiega a questo punto quale pascolo intenda, se del cuore o del corpo, poiché aggiunge subito: Governandolo non per costrizione ma spontaneamente, secondo Dio, non per turpe guadagno ma volontariamente (1P 5,1). 
   E certo, con queste parole, previene piamente i Pastori perché, mentre soddisfano l’indigenza dei sudditi, non uccidano se stessi con la spada dell’ambizione, e se per loro mezzo il prossimo riceve il sollievo di aiuti materiali, loro stessi poi non rimangano digiuni del pane della giustizia. Paolo eccita questa sollecitudine dei Pastori dicendo: Chi non ha cura dei suoi, soprattutto dei familiari, ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele (1Tm 5,8). 
E così, tra queste cose, bisogna però sempre temere e prestare vigile attenzione che mentre si trattano affari esterni non se ne venga sommersi, privati dell’intimo fervore; poiché spesso, come abbiamo già detto, le guide delle anime piegano improvvisamente il loro cuore a servire le cure temporali, e così si raffredda l’amore nel loro intimo, ed espandendosi al di fuori non temono di vivere nell’oblio, col pretesto di doversi occupare delle anime. 

Pertanto, la cura che pure si deve avere nei confronti dei bisogni materiali dei sudditi deve essere necessariamente contenuta entro certi limiti. Perciò si dice bene in Ezechiele: I sacerdoti non si radano il capo, né si facciano crescere i capelli, ma li accorcino tagliandoli (Ez 44,20). Infatti sono giustamente chiamati sacerdoti coloro che presiedono ai fedeli per offrire loro una guida sacra. I capelli del capo sono i pensieri della mente volti a cure esteriori e finché nascono insensibilmente sul capo designano le cure della vita presente, le quali crescono, senza quasi che ce ne accorgiamo, da una sensibilità trascurata poiché nascono talvolta in modo inopportuno. Dunque, poiché tutti quelli che presiedono devono avere di fatto delle sollecitudini esteriori, senza d’altra parte dedicarsi ad esse con eccessiva passione, giustamente si proibisce ai sacerdoti di radersi il capo e di farsi crescere i capelli, affinché non taglino radicalmente da sé i pensieri che riguardano la vita materiale dei sudditi, né d’altra parte diano loro troppo spazio in modo da farli crescere. Perciò è ben detto: Accorcino i capelli tagliandoli, evidentemente nel senso che se pure, per quel che è inevitabile, possono nascere preoccupazioni di cure materiali, tuttavia esse devono essere tagliate ben presto perché non crescano smodatamente. 


Pertanto, quando la vita materiale viene protetta attraverso la pratica di una previdenza esteriore — e in più non è ostacolata dalla tensione spirituale, quando questa è illuminata — è allora che i capelli sul capo del sacerdote vengono conservati perché coprano la pelle, ma vengono tagliati perché non chiudano gli occhi.

mercoledì 17 dicembre 2014

S.Gregorius: Regola pastorale

  S.Gregorius
Regola pastorale 206

La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene; e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori

206



La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; così non si anteponga in nulla ai buoni, e quando la colpa dei malvagi lo esige, non esiti a riconoscere il potere del suo primato. In tal modo, lasciando da parte la dignità che riveste, si consideri uguale ai sudditi che vivono operando il bene, e verso i malvagi non tema di affermare i diritti della verità e della giustizia. Infatti, come ricordo di avere scritto nei libri morali (Moralia, lib. 21, cap. 10), è certo che gli uomini sono tutti uguali per natura ma, variando l’ordine dei meriti, la colpa pospone gli uni agli altri. 

Però, anche la diversità che procede dal peccato è regolata dalla disposizione divina affinché, siccome non ogni uomo è in grado di mantenersi in questa condizione di eguaglianza, ci siano alcuni uomini governati da altri. Perciò tutti coloro che presiedono, in se stessi non debbono considerare il potere del proprio grado ma l’eguaglianza secondo natura; non godano dunque di governare sugli uomini ma di giovare loro. I nostri antichi padri, del resto, furono pastori di pecore, non re di uomini; e quando il Signore disse a Noè e ai suoi figli: Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra, subito aggiunse: E terrore di voi e tremore sia su tutti gli animali della terra (Gn 9,1). Evidentemente, se viene prescritto che debba esserci questo terrore e tremore sugli animali della terra, viene senz’altro proibito che esso possa esercitarsi sugli uomini. 



L’uomo è stato preposto per natura agli animali bruti, non agli altri uomini; e perciò gli viene detto che gli animali e non gli uomini lo devono temere; quindi voler essere temuto da un eguale corrisponde ad una esaltazione contro natura. E tuttavia è necessario che le guide delle anime incutano timore ai sudditi quando esse si accorgono che quelli non hanno alcun timore di Dio, affinché coloro che non hanno paura dei giudizi divini temano di peccare almeno per una paura umana. Infatti, coloro che sono preposti ad altri non insuperbiscono nella ricerca di questo timore, poiché con essa non cercano la propria gloria ma la giustizia dei sudditi: nell’esigere timore per sé da coloro che conducono una vita malvagia è come se governassero animali e non uomini, perché è per quella parte di loro con cui si comportano da bestie che i sudditi debbono giacere persino prostrati dalla paura. 
Ma spesso chi guida delle anime, per il fatto stesso di essere preposto ad altri si gonfia nell’esaltazione del suo pensiero: tutto è a sua disposizione, i suoi ordini vengono prontamente eseguiti secondo il suo desiderio, tutti i sudditi sono pronti a lodarlo ampiamente se fa qualcosa di buono e sono privi di autorità per contraddirlo per quello che fa di male, anzi, per lo più sono disposti a lodarlo anche quando dovrebbero disapprovarlo; allora il suo animo si innalza al di sopra di sé sedotto da tutto ciò che gli viene elargito dal basso. 
Così, circondato all’esterno da grandissimo favore, si svuota interiormente della verità e dimentico della sua realtà profonda si disperde compiacendosi dell’apprezzamento altrui e si crede tale quale è la sua fama al di fuori, non quale dovrebbe riconoscersi nel proprio intimo. Disprezza i sudditi, non li riconosce uguali a sé secondo l’ordine naturale e si immagina di avere superato, anche per i meriti della propria vita, coloro che gli stanno sottoposti a motivo di un potere datogli in sorte. Si giudica più sapiente di tutti coloro dei quali si vede più potente. Nella stima che ha di se stesso si è come stabilito su una cima e sdegna di guardare agli altri come a uguali, lui che pure è legato a loro dalla condizione di una, uguale natura. 

E così diviene simile a colui di cui è scritto: Vede ogni sublime altezza ed egli stesso è re sopra tutti i figli della superbia (Giob. 41, 25), a colui cioè che aspirando a un luogo più elevato e disprezzando la comune vita degli angeli dice: Porrò la mia dimora presso l’Aquilone e sarò simile all’Altissimo (cf. Is. Is 14,13-14). 
Pertanto egli scoprì dentro di sé, per mirabile giudizio divino, un abisso di abiezione poiché al di fuori si era innalzato al culmine del potere. E così diviene simile all’angelo apostata l’uomo che sdegna di essere simile agli altri uomini. Similmente Saul, dopo avere ben meritato per la sua umiltà, si gonfiò di superbia per l’altezza del suo potere; per l’umiltà fu scelto ma fu riprovato per la superbia, secondo la testimonianza del Signore che dice: Non ti costituii forse capo tra le tribù di Israele quando eri piccolo ai tuoi occhi? (1S 15,17). 

Prima si era visto piccolo coi suoi occhi ma poi, sostenuto dalla sua potenza mondana, non si vedeva più piccolo. Infatti, preferendo se stesso a paragone degli altri poiché aveva un potere superiore a tutti, si stimava più grande di tutti. Ma come — mirabilmente — per essere piccolo davanti a se stesso fu grande davanti a Dio, quando appari grande davanti a se stesso divenne piccolo davanti a Dio. Dunque accade spesso che l’animo si gonfia perché è grande il numero di coloro che gli sono soggetti e, adulato dalla sola altezza della sua potenza, esso si corrompe effondendosi nella superbia. Ma questa potenza, evidentemente, la regge bene chi sa tenerla in pugno e insieme combatterla; la regge bene chi sa, con essa, erigersi sopra le colpe, e con essa sa essere uguale agli altri. Infatti la mente umana spesso si esalta anche quando non si sostiene su alcun potere; quanto più si leverà in alto se le si aggiunge anche il potere. Però il potere può essere ben esercitato da chi sa trarre da esso ciò che giova e sa vincere le tentazioni che esso ispira e, pur possedendolo, sa vedersi uguale agli altri e insieme sa anteporsi ai peccatori per lo zelo della punizione. E se consideriamo l’esempio del primo Pastore, possiamo riconoscere più pienamente in che cosa consiste questa discrezione. 

Infatti Pietro che pure teneva il primato nella Santa Chiesa, per volontà di Dio, ricusò di accogliere i segni di una venerazione fuor di misura da Cornelio, uomo buono che faceva il bene, il quale gli si era umilmente prostrato; ma riconoscendosi invece simile a lui gli disse: Alzati, non farlo, sono un uomo anch’io (Atti, 10, 26). Quando però scopri la colpa di Anania e di Saffira (cf. Atti, 5, 5), mostrò subito per quale potenza egli fosse divenuto preminente sugli altri. Infatti con una sola parola colpi la loro vita che egli aveva conosciuto col discernimento spirituale e si ricordò di essere la somma autorità nella Chiesa contro i peccati; cosa che non volle riconoscere di fronte a fratelli buoni e attivi nel bene, per un onore che gli veniva tributato con trasporto. 

E in questo caso, la santità delle opere meritò di essere accolta in una comunione tra uguali; nell’altro, lo zelo della punizione provocò l’esercizio del potere. Paolo non si considerava preposto ai fratelli attivi nel bene quando diceva: Non facciamo da padroni della vostra fede, ma siamo cooperatori della vostra gioia (2Co 1,23). E aggiunge subito: infatti voi state saldi nella fede (ibid.), come per spiegare quello che aveva premesso dicendo: Perciò, non facciamo da padroni sulla vostra fede, perché voi state saldi nella fede; infatti noi siamo uguali a voi in ciò in cui riconosciamo che restate fermi. 

Ed era come non considerarsi preposto ai fratelli quando diceva: Siamo divenuti un bambino piccolo in mezzo a voi (1Th 2,7); e ancora: E noi vostri servi per Cristo(2Co 4,5). Ma quando scopri la colpa che avrebbe dovuto essere corretta, subito si ricordò di essere maestro, dicendo: Che cosa volete? Devo venire da voi con la verga? (1Co 4,21). Colui che presiede regge bene il sommo potere quando domina sui vizi piuttosto che sui fratelli; ma quando i superiori correggono i sudditi peccatori è necessario che in virtù del loro potere attendano con sollecitudine a punire le colpe, per il dovere cui sono tenuti di conservare la disciplina. 

Tuttavia, per conservare l’umiltà, si riconoscano nello stesso tempo uguali a quegli stessi fratelli che vengono corretti da loro, anzi sarebbe spesso cosa degna che nella nostra tacita considerazione anteponessimo a noi stessi le medesime persone che correggiamo. Infatti i loro vizi vengono puniti per mezzo nostro col rigore della disciplina, mentre in ciò che noi stessi commettiamo di male non siamo scalfiti neppure da una parola di rimprovero da parte di alcuno. Siamo dunque tanto più obbligati presso il Signore quanto più impunemente pecchiamo presso gli uomini. D’altra parte, la nostra correzione fa tanto più liberi i sudditi davanti al giudizio divino in quanto Egli non lascia impunite qui le loro colpe. 

Così bisogna conservare l’umiltà nel cuore e la disciplina nelle opere. Ma detto questo, bisogna anche guardare saggiamente che le esigenze del governo non restino vanificate da una custodia impropria dell’umiltà e se un superiore si abbassa più del conveniente non possa più trattenere poi la vita dei sudditi sotto il vincolo della disciplina. Dunque, le guide delle anime restino ferme a quell’atteggiamento esteriore che assumono in vista dell’utilità degli altri e conservino nell’intimo quella disposizione che le fa temere grandemente quanto alla stima di sé. 

Tuttavia i sudditi devono poter percepire, da certi segni di sobria spontaneità, che esse sono umili e vedere così ciò che devono temere dalla loro autorità e conoscere ciò che devono imitare della loro umiltà. Pertanto, i superiori, quanto maggiore appare all’esterno la loro potenza tanto più non cessino di provvedere a deprimerla interiormente ai propri occhi, evitando che il pensiero ne sia tutto preso, l’animo sia rapito dal compiacimento di sé e non sia più in grado di tenere sottomessa quella potenza, alla quale si sottomette per libidine di dominio. Infatti, affinché l’animo del superiore non venga rapito dal compiacimento del suo potere fino all’esaltazione, un sapiente ha giustamente detto: Ti hanno stabilito guida, non ti esaltare ma sii tra di loro come uno di loro (Si 32,1). 

Perciò anche Pietro dice: Non come padroni delle persone a voi toccate in sorte, ma fatti a forma del gregge (1P 5,3). Perciò la Verità stessa invitandoci ai più alti meriti della virtù dice: Sapete che i capi delle nazioni le dominano e i grandi esercitano il potere su di loro. Non così sarà tra voi, ma chiunque vorrà essere maggiore fra voi sarà vostro servo, e chi vorrà essere primo tra voi sarà vostro schiavo, come il Figlio dell’uomo non è venuto a essere servito ma a servire (Mt 20,25). Di qui il senso delle parole che si riferiscono a quel servo esaltato per il potere ricevuto, ma poi lo attenderanno i supplizi: Che se quel servo malvagio dirà in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire; e incomincerà a battere i suoi conservi e mangerà e berrà con gli ubriachi; verrà il padrone di quel servo nel giorno in cui non l’aspetta e in un’ora che non sa, e lo separerà e la sua parte sarà con gli ipocriti (Mt 24,48 ss.). 

Ed è giustamente considerato ipocrita colui che col pretesto della disciplina muta il ministero del governo in esercizio di dominio. E tuttavia spesso si pecca gravemente se nei confronti dei malvagi si custodisce più l’eguaglianza che la disciplina. Infatti, Eli che, vinto da una falsa pietà, non volle punire i figli peccatori, colpi se stesso insieme ai figli con una crudele condanna presso il severo Giudice (cf. 1S 4,17-18); e perciò egli si sente dire dalla parola divina: Hai onorato i tuoi figli pia di me (1S 2,29). E Dio rimprovera i Pastori per mezzo dei profeti dicendo: Non avete fasciato ciò che si era fratturato, non avete ricondotto ciò che era rigettato (Ez 34,4). Si riconduce chi è rigettato quando col vigore della sollecitudine pastorale si richiama alla condizione di giustizia chiunque è caduto nella colpa. E la fasciatura stringe la frattura quando la disciplina reprime la colpa, affinché la piaga non degeneri fino alla morte se non la stringe la severità del castigo. Ma spesso la frattura si fa più grave se viene fasciata senza precauzione e la ferita duole maggiormente se le bende la stringono in modo eccessivo. Perciò è necessario che, quando per porvi rimedio si comprime nei sudditi la ferita del peccato, si abbia grande sollecitudine di moderare la stessa correzione perché, mentre si esercita verso i peccatori il dovere della disciplina, non si venga meno ai sentimenti di pietà. 

Bisogna cioè avere cura che la pietà faccia apparire ai sudditi madre colui che li guida, e la disciplina glielo mostri padre. E pertanto bisogna provvedere con pronta e avvertita prudenza che la correzione non sia troppo rigida o la misericordia troppo permissiva. Infatti, come abbiamo già detto nei Libri Morali (Moralia, lib. 20, cap. 8), sia la disciplina che la misericordia vengono meno se si esercita l’una senza l’altra; invece, nelle guide delle anime, devono trovarsi verso i sudditi una misericordia che provvede secondo giustizia insieme a una disciplina rigida secondo pietà. 

Ed è perciò che nell’insegnamento della Verità quell’uomo semivivo viene condotto all’albergo dalla sollecitudine del Samaritano (cf. Lc. Lc 10,34) e gli vengono somministrati vino e olio nelle sue ferite, chiaramente perché, per esse, egli sperimenti la pungente disinfezione del vino e il conforto dell’olio che lenisce. È assolutamente necessario che chi ha l’ufficio di curare le ferite somministri attraverso il vino il morso pungente del dolore e attraverso l’olio la tenerezza della pietà, giacché col vino si purifica il putridume e con l’olio si nutre e si ristora per la guarigione. 

Così, bisogna mescolare la dolcezza con la severità; bisogna fare come un giusto contemperamento dell’una e dell’altra affinché i sudditi non restino esasperati da troppa asprezza e neppure infiacchiti da una eccessiva benevolenza. Ciò è ben rappresentato dall’arca del Tabernacolo — secondo la parola di Paolo — nella quale si trovano insieme alle tavole la verga e la manna (cf. Ebr. He 9,4); cioè, se nell’anima della buona guida spirituale, insieme alla scienza della Sacra Scrittura c’è la verga della correzione, ci sia anche la manna della dolcezza. 


Perciò dice David: La tua verga e il tuo bastone mi hanno consolato (Ps 22,4), perché la verga ci colpisce e il bastone ci sostiene e se c’è la correzione della verga che ferisce ci sia anche la consolazione del bastone che sostiene. E così ci sia l’amore, non tale però che renda molli; ci sia il rigore non tale però che esasperi; ci sia lo zelo che tuttavia non infierisce oltre misura; ci sia la pietà che risparmia ma non più di quanto conviene; affinché nell’esercizio del governo, conciliando giustizia e clemenza, il superiore muova il cuore dei sudditi col timore ma usi con loro dolcezza, e con questa dolcezza li costringa al rispetto che il timore ispira.