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domenica 20 ottobre 2013

Questo discorso tocca alcuni dei punti più importanti e delicati della teologia e della vita sacerdotale, con una limpidezza e concisione che non si sentiva da tempo. Come al solito non ci sono cose nuove (a parte l'anno sacerdotale) ma il rimettere a tema le cose di sempre, e proprio perchè "di sempre" che rischiano di passare inosservate.


Un discorso epocale del Papa Benedetto XVI sul Sacerdozio. 

UDIENZA AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA
DELLA CONGREGAZIONE PER IL CLERO, 16.03.2009

Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio

Sono lieto di potervi accogliere in speciale Udienza alla vigilia della partenza per l’Africa, ove mi recherò per consegnare l’Instrumentum laboris della Seconda Assemblea Speciale del Sinodo per l’Africa, che si terrà qui a Roma nel prossimo ottobre. Ringrazio il Prefetto della Congregazione, il Signor Cardinale Cláudio Hummes, per le gentili espressioni con cui ha interpretato i comuni sentimenti. Con lui saluto tutti voi, Superiori, Officiali e Membri della Congregazione, con animo grato per tutto il lavoro che svolgete a servizio di un settore tanto importante della vita della Chiesa.

Il tema che avete scelto per questa Plenaria - «L’identità missionaria del presbitero nella Chiesa, quale dimensione intrinseca dell’esercizio dei tria munera» [sacerdotale, profetico e regale] - consente alcune riflessioni per il lavoro di questi giorni e per i frutti abbondanti che certamente esso porterà. Se l’intera Chiesa è missionaria e se ogni cristiano, in forza del Battesimo e della Confermazione, quasi ex officio (cfr CCC, 1305) riceve il mandato di professare pubblicamente la fede, il sacerdozio ministeriale, anche da questo punto di vista, si distingue ontologicamente, e non solo per grado, dal sacerdozio battesimale, detto anche sacerdozio comune. Del primo, infatti, è costitutivo il mandato apostolico: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Tale mandato non è, lo sappiamo, un semplice incarico affidato a collaboratori; le sue radici sono più profonde e vanno ricercate molto più lontano.

La dimensione missionaria del presbitero nasce dalla sua configurazione sacramentale a Cristo Capo: essa porta con sé, come conseguenza, un’adesione cordiale e totale a quella che la tradizione ecclesiale ha individuato come l’apostolica vivendi forma. Questa consiste nella partecipazione ad una "vita nuova" spiritualmente intesa, a quel "nuovo stile di vita" che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli. Per l’imposizione delle mani del Vescovo e la preghiera consacratoria della Chiesa, i candidati divengono uomini nuovi, divengono "presbiteri". In questa luce appare chiaro come i tria munera siano prima un dono e solo conseguentemente un ufficio, prima una partecipazione ad una vita, e perciò una potestas.

Certamente, la grande tradizione ecclesiale ha giustamente svincolato l’efficacia sacramentale dalla concreta situazione esistenziale del singolo sacerdote, e così le legittime attese dei fedeli sono adeguatamente salvaguardate [Il Papa fa qui riferimento all'azione ex opere operato dei sacramenti, anziché ex opere operantis, e quindi indipendente dalla personale degnità del presbitero]. Ma questa giusta precisazione dottrinale nulla toglie alla necessaria, anzi indispensabile, tensione verso la perfezione morale, che deve abitare ogni cuore autenticamente sacerdotale.

Proprio per favorire questa tensione dei sacerdoti verso la perfezione spirituale dalla quale soprattutto dipende l’efficacia del loro ministero, ho deciso di indire uno speciale "Anno Sacerdotale", che andrà dal 19 giugno prossimo fino al 19 giugno 2010. Ricorre infatti il 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, vero esempio di Pastore a servizio del gregge di Cristo. Sarà cura della vostra Congregazione, d’intesa con gli Ordinari diocesani e con i Superiori degli Istituti religiosi, promuovere e coordinare le varie iniziative spirituali e pastorali che appariranno utili a far percepire sempre più l’importanza del ruolo e della missione del sacerdote nella Chiesa e nella società contemporanea.

La missione del presbitero, come evidenzia il tema della plenaria, si svolge «nella Chiesa». Una tale dimensione ecclesiale, comunionale, gerarchica e dottrinale è assolutamente indispensabile ad ogni autentica missione e, sola, ne garantisce la spirituale efficacia. I quattro aspetti menzionati devono essere sempre riconosciuti come intimamente correlati: la missione è "ecclesiale" perché nessuno annuncia o porta se stesso, ma dentro ed attraverso la propria umanità ogni sacerdote deve essere ben consapevole di portare un Altro, Dio stesso, al mondo. Dio è la sola ricchezza che, in definitiva, gli uomini desiderano trovare in un sacerdote. La missione è "comunionale", perché si svolge in un’unità e comunione che solo secondariamente ha anche aspetti rilevanti di visibilità sociale. Questi, d’altra parte, derivano essenzialmente da quell’intimità divina della quale il sacerdote è chiamato ad essere esperto, per poter condurre, con umiltà e fiducia, le anime a lui affidate al medesimo incontro con il Signore. Infine le dimensioni "gerarchica" e "dottrinale" suggeriscono di ribadire l’importanza della disciplina (il termine si collega con "discepolo") ecclesiastica e della formazione dottrinale, e non solo teologica, iniziale e permanente.

La consapevolezza dei radicali cambiamenti sociali degli ultimi decenni deve muovere le migliori energie ecclesiali a curare la formazione dei candidati al ministero. In particolare, deve stimolare la costante sollecitudine dei Pastori verso i loro primi collaboratori, sia coltivando relazioni umane veramente paterne, sia preoccupandosi della loro formazione permanente, soprattutto sotto il profilo dottrinale. La missione ha le sue radici in special modo in una buona formazione, sviluppata in comunione con l’ininterrotta Tradizione ecclesiale, senza cesure né tentazioni di discontinuitàIn tal senso, è importante favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa.

Urgente appare anche il recupero di quella consapevolezza che spinge i sacerdoti ad essere presenti, identificabili e riconoscibili sia per il giudizio di fede, sia per le virtù personali sia anche per l’abito, negli ambiti della cultura e della carità, da sempre al cuore della missione della Chiesa.

Come Chiesa e come sacerdoti annunciamo Gesù di Nazaret Signore e Cristo, crocifisso e risorto, Sovrano del tempo e della storia, nella lieta certezza che tale verità coincide con le attese più profonde del cuore umano. Nel mistero dell’incarnazione del Verbo, nel fatto cioè che Dio si è fatto uomo come noi, sta sia il contenuto che il metodo dell’annuncio cristiano. La missione ha qui il suo vero centro propulsore: in Gesù Cristo, appunto. La centralità di Cristo porta con sé la giusta valorizzazione del sacerdozio ministeriale, senza il quale non ci sarebbe né l’Eucaristia, né, tanto meno, la missione e la stessa Chiesa. In tal senso è necessario vigilare affinché le "nuove strutture" od organizzazioni pastorali non siano pensate per un tempo nel quale si dovrebbe "fare a meno" del ministero ordinato, partendo da un’erronea interpretazione della giusta promozione dei laici, perché in tal caso si porrebbero i presupposti per l’ulteriore diluizione del sacerdozio ministeriale e le eventuali presunte "soluzioni" verrebbero drammaticamente a coincidere con le reali cause delle problematiche contemporanee legate al ministero.

Sono certo che in questi giorni il lavoro dell’Assemblea plenaria, sotto il protezione della Mater Ecclesiae, potrà approfondire questi brevi spunti che mi permetto di sottoporre all’attenzione dei Signori Cardinali e degli Arcivescovi e Vescovi, invocando su tutti la copiosa abbondanza dei doni celesti, in pegno dei quali imparto a voi e alle persone a voi care una speciale, affettuosa Benedizione Apostolica


Benedictus PP XVI


Fonte: Il Magistero di Papa Benedetto. Sottolineature nostre, ns. note interpolate tra parentesi quadre.


giovedì 20 giugno 2013

Bellezza liturgica


Nel nome della Chiesa perseveriamo nella devozione alla bellezza liturgica

“…Sant'Ireneo diceva, verso la fine della sua esistenza, di non aver fatto altro nella vita che lasciare crescere e maturare quanto era stato seminato nella sua anima da Policarpo, discepolo di san Giovanni. 

In un punto memorabile della sua breve autobiografia, Joseph Ratzinger ci rivela come fin da bambino abbia imparato a vivere la liturgia, grazie al seme deposto in lui dai suoi genitori, che gli regalarono lo «Schott», cioè il messale tradotto in tedesco dal monaco benedettino Anselm Schott. 
Il frammento ha una bellezza germinale paragonabile a quella racchiusa nell'episodio della «Maddalena» nell'opera più importante di Proust: «Naturalmente, essendo bambino non comprendevo ogni dettaglio, ma il mio cammino con la liturgia era un processo di continua crescita in una grande realtà che superava tutte le individualità e le generazioni, che diveniva motivo di meraviglia e di scoperta nuove». 

Questa concezione della liturgia come patrimonio ereditato dalla Tradizione, arricchito da apporti successivi che lo fanno crescere in modo organico, contrasta con alcune visioni contemporanee che preconizzano un sapere atomizzato, orfano di fondamenta e di vincoli saldi, facilmente adattabile alla circostanza concreta; un sapere, in definitiva, rabbiosamente «originale» – come se la tradizione non fosse la forma suprema di originalità, in quanto ci permette di vincolarci alle «origini» – che ha contaminato certe tendenze liturgiche, svuotando di senso il rito. 

Il seme che i genitori deposero in quel bambino avrebbe in seguito recato frutti in opere come Dio e il mondo, dove Ratzinger si preoccuperà di mostrare il senso della storicità della liturgia come dono consegnato da Cristo alla Chiesa, dono che cresce con essa e incita a «riscoprirla come una creatura vivente». 

A questa creatura vivente avrebbe dedicato Introduzione allo spirito della liturgia, un libro in cui – in continuità con il titolo classico di Guardini – Ratzinger rivendica il concetto di Tradizione, che non è statico, «ma che non si può neanche sminuire in una mera creatività arbitraria», approfondendo una concezione della liturgia come partecipazione all'incontro di Cristo con il Padre, in comunione con la Chiesa universale. 

Come il suo maestro Guardini, Ratzinger desidera che la liturgia si celebri «in modo più essenziale». 
E qui «essenzialità» non significa povertà, almeno non nel senso in cui alcuni hanno voluto anteporre la dimensione sociale alla celebrazione liturgica (ai quali Gesù risponde chiaramente nel brano evangelico dell'unzione di Betania); «essenzialità» significa «esigenza intima», ricerca di una purezza interiore che in nessun modo deve essere interpretata come purismo statico. 
Nell'attenzione per la liturgia dobbiamo inquadrare l'importanza — visibile per qualsiasi persona non completamente stordita dalla frivolezza — che Benedetto XVI attribuisce ai paramenti e, in modo particolare, agli ornamenti liturgici. 

Il sacerdote non sceglie tali ornamenti per un vezzo estetico: lo fa per rivestirsi di Cristo, quella «bellezza tanto antica e tanto nuova» di cui ci parlava sant'Agostino. 
Questo «rivestirsi di Cristo», concetto centrale dell'antropologia paolina, esige un processo di trasformazione interiore, un rinnovamento intimo dell'uomo che gli permetta di essere una sola cosa con Cristo, membro del suo corpo. 
Gli ornamenti liturgici rappresentano questo «rivestirsi di Cristo»: il sacerdote trascende la sua identità per divenire qualcun altro; e i fedeli che partecipano alla celebrazione ricordano che il cammino inaugurato con il Battesimo e alimentato con l'Eucaristia ci conduce alla casa celeste, dove saremo rivestiti con abiti nuovi, resi candidi nel sangue dell'Agnello. 

Così gli ornamenti liturgici sono «anticipazione della veste nuova, del corpo risuscitato di Gesù Cristo»; anticipazione e speranza della nostra stessa risurrezione, tappa definitiva e dimora permanente dell'esistenza umana. …” 
( Cfr. Le vesti liturgiche secondo Ratzinger Da "L'Osservatore Romano" del 26 giugno 2008 di Juan Manuel de Prada, da :http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/205468 

 ***

«Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio … cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia» 
"Non tanto facilmente entra nel club dei progressisti chi parla bene del passato. Ma al compromesso preferisco l'impopolarità." (Card. Giuseppe Siri). 
Perseveriamo con tutte le forze che la Provvidenza ci mette a disposizione nella devozione alla bellezza liturgica :  fonte sicura di santità e di obbedienza alla Chiesa di ieri, di oggi e di domani ! 
( A.C.)

sabato 24 marzo 2012

I sacerdoti custodi del Corpo di Gesù

Anton Mor van Dashorst, Calvario,
XVI sec., Museo Nacional de Escultura de Valladolid

I sacerdoti custodi 
del corpo di Gesù

Il Figlio di Dio disse: «Sono simile al signore che, dopo aver combattuto con fedeltà nel paese in cui si è recato in pellegrinaggio, torna con gioia nella terra natale. 

Questo signore ha un tesoro molto prezioso, la cui vista dà gioia agli occhi lacrimosi, consola gli infelici, rinvigorisce gli infermi e resuscita i morti. Ma, affinché questo tesoro venga custodito con onestà e determinazione, viene edificata una casa con magnificenza e gloria, abbastanza alta e dotata di sette livelli attraverso i quali si accede al tesoro stesso. 

Ora, Dio ha mostrato questo tesoro ai suoi servitori e lo ha affidato loro affinché ne abbiano cura e lo custodiscano con purezza, in modo che vengano apprezzate la carità del signore verso i suoi servitori e la fedeltà dei suoi servitori nei confronti del signore. 

Ma dopo qualche tempo il tesoro inizia ad essere disprezzato, la casa viene frequentata di rado, le cure dei custodi diminuiscono e l'amore di Dio viene trascurato... 

Io sono quel signore che è venuto al mondo per umiltà come un pellegrino, sebbene fossi potente in terra e in cielo secondo la divinità; perché in verità sulla terra ho dovuto sostenere una lotta tale che tutti i nervi delle mie mani e dei miei piedi si sono rotti per la salvezza delle anime. 

Salendo in cielo, da cui non mi sono mai allontanato, ho lasciato al mondo un memoriale altamente degno, ossia il mio corpo santissimo; infatti così come l'antica legge si gloriava dell'arca, della manna, delle tavole del Testamento e di altre cerimonie, allo stesso modo l'uomo nuovo si rallegra di una legge nuova, ossia il mio corpo crocifisso, che era insito nella legge stessa. 

Affinché al mio corpo fossero tributati gloria e onore, ho istituito la casa della Santa Chiesa, dove esso sarebbe stato custodito e conservato. 

I sacerdoti sono dei custodi particolari, in un certo senso più eminenti degli angeli, poiché toccano con la bocca e le mani colui che gli angeli hanno paura di sfiorare, dato il rispetto che provano nei suoi confronti. Ho reso ai sacerdoti sette tipi di onore, corrispondenti a sette caratteristiche

-i preti devono portare il segno del sacerdozio e distinguersi come miei amici per la purezza dello spirito e del corpo, perché la purezza è il primo livello per avvicinarsi a Dio, al quale non si addice nulla di corrotto; ai ministri della legge, che avevano il permesso di contrarre il matrimonio, non era concesso fare dei sacrifici, ma ciò non deve stupire: essi avevano solo la scorza e non il nocciolo. Ora, poiché questa figura è stata eliminata con l'avvento della verità, è necessario che si consacrino tutti alla purezza; il nocciolo, infatti, è più dolce della scorza... I chierici sono istituiti perché siano degli uomini angelici dotati di ogni sorta di umiltà; è vero infatti che con l'umiltà del corpo e dello spirito si entra in cielo e si vince la superbia del diavolo; a questo livello i sacerdoti vengono nominati per cacciare il diavolo, perché l'uomo umile è elevato al cielo da cui la superbia ha fatto sprofondare il demonio

-I preti vengono ordinati per essere discepoli di Dio attraverso la continua lettura dei testi sacri
per questo motivo la sacra Scrittura viene data ai sacerdoti come la spada al soldato; 
essi, infatti, devono sapere come placare la collera di Dio con la preghiera e la meditazione, affinché il popolo non muoia. 

-I sacerdoti sono designati custodi del tempio di Dio e studiosi delle anime; per questo motivo il vescovo consegna loro le chiavi: essi devono prendersi cura della salvezza delle anime dei loro fratelli, promuoverne il progresso con la parola e l'esempio e incitare gli infermi alla perfezione assoluta

-A loro viene affidata la cura dell'altare, perché, servendo sull'altare, vivano dell'altare stesso e non si occupino affatto delle cose mondane, se non per ciò che attiene alla loro carica ecclesiastica. 

-Vengono ordinati per essere uomini apostolici, che predicano la verità evangelica e conformano i loro costumi a ciò che predicano. Sono istituiti in modo da mediare fra Dio e l'uomo attraverso il sacrificio del mio corpo. Per questo motivo i sacerdoti sono in un certo modo superiori alla dignità degli angeli. 

Ora, mi lamento perché queste caratteristiche sono gravemente disattese, in quanto la superbia viene preferita all'umiltà, l'impudicizia alla continenza; non ci si attiene più ai libri di Dio, ma a quelli del mondo; gli altari vengono trascurati e la saggezza divina è reputata follia. Non ci si preoccupa affatto della salvezza delle anime e, come se non bastasse, si gettano via le mie vesti e si di-sprezzano le mie armi. 

E’ vero, sul monte Sinai ho mostrato a Mosè gli abiti che dovevano indossare i sacerdoti; questo non perché nella celeste abitazione di Dio ci fosse qualcosa di materiale, ma perché non si possono comprendere le cose spirituali senza quelle materiali. 

Quindi mostro ciò che è spirituale attraverso il mondo fisico: occorre sapere che a quanti detengono la verità viene richiesta la purezza e non una pura apparenza. A che scopo, dunque, avrei mostrato a Mosè un tale splendore di vesti materiali, se non perché attraverso esse si comprendessero lo splendore e la bellezza dell'anima?... 

Dall'oblazione dei ministri di Dio conseguono tre beni

-la mia pazienza che è lodata da tutte le schiere celesti, perché sono la medesima Persona tra le mani di un prete buono e di uno cattivo; non traggo senso dalla persona, infatti questo sacramento non dipende dai meriti o demeriti di chi lo somministra, bensì dalle mie parole; 

-tale oblazione è utile per tutti, indipendentemente dal prete che l'offre, inoltre giova anche a chi l'offre, sebbene cattivo; 

-quando ho pronunciato le parole Io sono, tutti i miei nemici sono caduti all'indietro; similmente, all'udire le parole: Questo è il mio corpo, i diavoli fuggono via e cessano di tentare le anime che fanno queste sante oblazioni, né oserebbero tornare ad assediarle con rinnovata audacia se in esse non si insinuasse una propensione a peccare. Per questo la mia misericordia perdona tutti e li tollera, ma la mia giustizia grida vendetta: perciò io grido e quanti siano quelli che mi rispondono, lo vedi da te. Ciononostante invierò ancora la mia Parola: chi l'ascolterà, trascorrerà e terminerà i suoi giorni con una gioia così grande che non è possibile dire, né pensare la dolcezza della mia Parola senza farle torto...» 
(Rivelazioni di S.Brigida, Libro IV, 58)

LAUDETUR   JESUS  CHRISTUS!
LAUDETUR  CUM  MARIA!
SEMPER  LAUDENTUR!

mercoledì 8 giugno 2011

CARO MIO SAIO FRANCESCANO

      Che bello vedere una schiera di preti e frati che danno la loro testimonianza  e il loro buon esempio nel difendere anche esteriormente la loro dignità, non solo nel tempio, bensì durante tutta la vita. Talare e saio, oltre a essere uno scudo o corazza, sono sempre una ... predica sostanziale! Il Serafico Padre san Francesco se ne intendeva assai bene.
    Oggi, in verità, l’abbandono dell’abito ecclesiastico – talare o saio -  è disobbedienza alla volontà più volte manifestata dal Vicario di Gesù Santissimo, il Papa.
     Mi piace riportare nel blog le commoventi considerazioni sulla talare di mons. Francesco Olgiati (1886-1962) confondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.



<<O cara veste nera, [ o caro saio benedetto ] da alcune settimane tutti parlano di te. Nel volume su L'attività della Santa Sede nel 1958 era detto: "Attese le varie richieste pervenute circa l'abito talare, è stata iniziata una vasta indagine sulla questione della forma dell'abito ecclesiastico, ed è stata concessa agli ordinari diocesani (cioè ai Vescovi) qualche facoltà di dispensa, in casi particolari, ferma sempre restando la regola di usare la veste talare nell'esercizio della potestà di ordine e di giurisdizione".

Queste poche righe hanno dato origine a mille discussioni, anche sulla stampa nostra. E le fantasie hanno galoppato. 

Alcuni si sono appellati alla storia, dal secolo V ai Concili Lateranense IV (1213) e Viennese (1312), che agli ecclesiastici imposero un abito diverso dal comune, da Sisto V a Pio IX.

Altri hanno fatto ricorso alla moda dei paesi tedeschi ed anglosassoni, che concedono ai sacerdoti l'abito cosidetto alla "clergyman", pur imponendo la "talare", come esige il Codice di Diritto canonico, nelle funzioni sacerdotali.
Altri hanno rievocato i tempi della Rivoluzione francese, quando anche in Paesi  latini - come oggi nelle terre comuniste - il clero, a causa della persecuzione, non si distingueva affatto per i suoi abiti dai laici.

Altri, infine, hanno osservato che "la veste talare, oltre ad essere fastidiosa d'estate e ingombrante sempre, diventa un ridicolo intralcio ed anche un reale pericolo quando, proprio per ragioni del suo ministero, il prete deve usare la bicicletta e la motoretta", mezzi diventati, ormai, indispensabili per chi è in cura d'anime. Né è da omettersi, hanno aggiunto, "la tendenza del clero non ad isolarsi in una torre d'avorio, ma ad accostarsi il più possibile alla vita del popolo cristiano affidato alle sue cure, a dividerne le sofferenze e le contrarietà".

Cara mia veste nera, pur sapendo che non si tratta di una questione sostanziale, ma solo d'una materia disciplinare di esclusiva competenza dell'autorità ecclesiastica,  io non ho potuto fare a meno di guardarti e di meditarti. Sono vecchio e ti voglio bene.

Tu mi perdonerai se io non mi interesso degli argomenti accennati. Non voglio discuterli. Solo voglio dire a te una parola. Ti porto da tanti decenni. Quando ero fanciullo e, prima degli undici anni, entrai in Seminario, si usava indossarti fin dalla prima ginnasiale e tenerti anche nelle vacanze. Ricordi, mia cara veste nera, il giorno della mia vestizione? Ti aveva preparata la mia santa mamma, povera ed inesperta, aiutata da una vecchia sarta volenterosa. Assisteva al rito e pianse quando il vecchio Prevosto me ne rivestì e asperse. Con la benedizione del Parroco e con le lacrime materne uscii dalla chiesa. Com'ero felice, o mia cara veste nera! Potevo io concepire un tesoro più grande e più prezioso di te? Lo fosti sempre durante i miei dodici anni di Seminario e in seguito per tutta la mia vita.
In Seminario subito mi hanno insegnato a baciarti, quando alla sera mi spogliavo per andare al riposo. Quanti baci e di che cuore!

O veste nera della mia prima Messa e di tante Messe celebrate e di tante azioni sacerdotali compiute! O veste nera, che accanto al letto dei morenti avevi un significato ed un tuo singolare linguaggio! O veste nera, che non mi hai mai costretto ad isolarmi in una torre d'avorio, pur ricordandomi in ogni occasione il mio sacerdozio, anche nel fervore di dispute accese e nelle battaglie per la difesa della verità, in congressi, in associazioni, nelle scuole!

Tu hai conosciuto talvolta, soprattutto in alcuni tempi, l'insulto villano del teppista; ma quanto in quei momenti sono stato fiero di te e ti ho amato!
T'ho riguardata sempre come una bandiera...bandiera nera, sì. Simbolo di morte, ma non potevo vergognarmi, perchè mi simboleggiavi il Crocifisso, che, appunto perchè tale, è risurrezione e vita.

Ora che sono al tramonto, sentendo discorrere di te, ho capito sempre più e sempre meglio che ti amo tanto.

Non so se ti modificheranno, se ti sostituiranno, se ti cambieranno. Avranno le loro ragioni. Anzi, se scoppiasse una persecuzione, ti strapperebbero da me. Non importa. Persino in questo caso tu saresti nel mio cuore. E vi rimarrai per sempre.

Quando tra breve chiuderò gli occhi, voglio che tu scenda con me nella tomba. Rivestito di te, avvolto nelle tue pieghe, dormirò più tranquillo il sonno della morte. Più non potrò darti il bacio del mio affetto. Il mio cuore più non batterà. Ma se qualcuno potesse leggere nelle sue fibre più profonde, troverebbe scolpita una parola di amore e di fierezza per te, o cara e dilettissima veste nera ... >> ( Maggio 1959).



***
Il simpatico 'apologeta' Camilleri scrive la sua
(da non confondersi con l'altro A. C.)


L’ABITO DEI PRETI

di Rino Camilleri

      <<Viviamo in un'epoca in cui qualsiasi gruppo o categoria, anche la più piccala, rivendica la propria identità e cerca di esporla. C'è chi fa battaglie legali per avere il diritto di mettersi il burqua a scuola. Anche le commesse dei McDonald hanno una divisa. Per non parlare delle categorie professionali classiche: i medici, gli infermieri, i volontari dell'ambulanza, i magistrati. Tutti, insomma, cercano un segno esterno per essere identificabili. È strano che mentre tutti valorizzano i loro segni e i loro simboli solo il segno del prete deve essere tolto o abbandonato. A che pro? Ebbene, i soli che in quest'epoca non tengono alla loro immagine sono alcuni uomini del clero. Sì, in tempi di ghigliottine era consigliabile travestirsi. Ma oggi non si rischia la pelle, si rischiano tutt'al più fastidi; che so, passi per una strada in cui ci sono giovinastri ideologicamente orientati che ti dileggiano. Oppure puoi venire assillato da mendicanti particolarmente petulanti o da qualche psicolabile. Tutte cose che, però, vanno solo sotto la voce "fastidi". Ma se temevi tanto i fastidi, perché ti sei fatto prete? L'abito ecclesiastico è una "predicazione muta", come la "predica silenziosa" di S. Francesco. E lo è in un tempo affamato di segni. Se sono in strada nottetempo, ma vedo in giro dei poliziotti, sono più tranquillo. La loro divisa serve proprio a rasserenare gli onesti e a diffidare i malintenzionati. Certo, il poliziotto talvolta si traveste per esercitare meglio la sua attività; ma questo non vale per il prete: il poliziotto deve cercare i cattivi, invece il sacerdote dovrebbe avere tutto l'interesse a farsi riconoscere dai buoni.

Mi rendo perfettamente conto che in un'epoca in cui il cattolicesimo non è particolarmente à la page si possa avere un certo imbarazzo, una certa esitazione, un timore a ­manifestare la propria appartenenza al clero. Ma si tratta di timorucci umani. Ed è singolare che debbano essere i laici a tirare i preti per i jeans e dire loro: rendetevi visibili.

Ai miei tempi quando uno buttava la tonaca alle ortiche si diceva: quello si è spogliato. Oggi, paradossalmente, sono i sospesi a divinis a tenerci di più, all'abito: quelli che per coerenza dovrebbero levarselo se ne fanno vanto; quelli in regola, si mettono in borghese "per essere come gli altri".

Ma non chiedono mai agli "altri" come vorrebbero che fossero; ma non hanno mai chiesto alla gente come vuole che sia il prete. Se lo facessero, scoprirebbero, al contrario, che la gente non vuole affatto che il prete sia "come gli altri", perché un punto di riferimento deve essere diverso per forza. Padre Pio, quando sentiva di novizi che non volevano mettersi il saio, sbottava: "Cacciateli immediatamente. Ecchè, sono forse loro a fare un piacere a San Francesco?". Pio XII ricevendo in udienza gli operatori della moda esordì con questa stupenda frase: "Da come uno si veste si capisce che cosa sogna". L'abito non fa il monaco (dicevano nel Medioevo, perchè le università erano corpi ecclesiastici: gli studenti portavano l'abito clericale e ciò li sottraeva alla legislazione civile). È vero, ma un buon monaco se lo mette, anche perché non ha alcun motivo per toglierselo.
 Il problema dell'ostilità odierna all'abito è anche di natura psicologica. C'è questo sordo muro di gomma, una resistenza passiva che l'ex cardinale Ratzinger, attualmente Benedetto XVI, conosce perfettamente. Non vorrei essere nei suoi panni, perché non so come possa risolvere la questione.

     Già: la Chiesa non può imporsi ai suoi uomini con la forza. Ma la logica è dalla sua parte. È ridicolo iscriversi al club del bridge per poi pretendere di giocare a scopone perché le regole del bridge non mi piacciono. Tuttavia, i cosiddetti dissenzienti all'interno della Chiesa, visto che l'Inquisizione non c'è più, usano il sistema dell'orecchio da mercante. Da questo papa, sapendo chi era, molti temevano una restaurazione. Ciò è interessante, perché quando si teme la restaurazione vuol dire che si ama la rivoluzione. Ma "restaurare", da vocabolario, è prendere un capolavoro rovinato dal tempo e dalla stupidità e riportarlo al suo antico splendore. Stiamo ora assistendo ad un cristianesimo mediocre che nessuno osa più chiamare col suo nome. Non ha contorni nitidi ma si manifesta in comportamenti. È un cristianesimo molto "fai da te", con dentro tutto quello che uno vuole.

Infatti, viviamo una crisi non di strutture o di comando ma di fede.
Si tirano fuori una ad una le eccezioni (e noi sappiamo, come dice il Vangelo, che se uno non è fedele nel poco non può esserlo nel molto). Si comincia prima con l'abito, poi prego un po’ di meno perché "ho da fare", poi l’accoglienza è molto meglio della lettura, poi la solidarietà' è molto meglio della meditazione; alla fine, dai e dai, non rimane più niente. Poco alla volta, non ti sei nemmeno accorto di come hai fatto a perdere tutto e di esserti ridotto a travet del sacro, pur avendo cominciato con tanto entusiasmo il giorno in cui sei stato ordinato». 
 
L'ABITO ECCLESIASTICO

Ora, se fin qui abbiamo anche scherzato un po', sarà opportuno ricordare che l'obbligo dell'uso dell'abito ecclesiastico non è una fisima conservatrice o reazionaria, né tantomeno un'esasperazione dei fedeli legati alla Tradizione.
 Il Codice di Diritto Canonico vigente (1983), al canone 284 così recita: "I chierici portino un abito ecclesiastico decoroso secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale e secondo le legittime consuetudini locali". In questo senso, la Conferenza Episcopale Italiana, con delibera n° 12 del 23 dicembre 1983 ha stabilito che: "Salve le prescrizioni per le celebrazioni liturgiche, il clero in pubblico deve indossare l'abito talare o il clergyman".
 Per quanto riguarda i religiosi, lo stesso obbligo è stabilito dal canone 669: § 1 I religiosi portino l'abito dell'istituto fatto a norma del diritto proprio, quale segno della loro consacrazione e testimonianza di povertà. § 2 I religiosi chierici di un istituto che non ha abito proprio adottino l'abito clericale a norma del canone 284.

 La Congregazione per il Clero, in data 31 gennaio 1994, ha emanato il Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, il quale, al n° 66, così recita: "In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero - uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri - sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l'abito che porta, come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico.

 Il presbitero deve essere riconoscibile anzitutto per il suo comportamento, ma anche per il suo vestire in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo, la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa. Per questa ragione, il chierico deve portare "un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza episcopale e secondo le legittime consuetudini locali".
 Ciò significa che tale abito, quando non è quello talare, deve essere diverso dalla maniera di vestire dei laici, e conforme alla dignità e alla sacralità del ministero. La foggia e il colore debbono essere stabiliti dalla Conferenza dei Vescovi, sempre in armonia con le disposizioni del diritto universale. Per la loro incoerenza con lo spirito di tale disciplina, le prassi contrarie non si possono considerare legittime consuetudini e devono essere rimosse dalla competente autorità. Fatte salve situazioni del tutto eccezionali, il non uso dell'abito ecclesiastico da parte dei chierico può manifestare un debole “senso della propria identità di pastore interamente dedicato al servizio della Chiesa”.

 Il 22 ottobre del 1994, il Pontificio Consiglio per l'Interpretazione dei Testi Legislativi, ha emanata una precisazione circa il valore vincolante del n° 66 che abbiamo riportato prima, nella quale, fra l'altro, si afferma che: "N. 7. In ossequio al prescritto del can. 32, queste disposizioni dell'art. 66 del " Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri " obbligano tutti quelli che sono tenuti alla norma universale del can. 284, vale a dire i Vescovi e i presbiteri, non invece i diaconi permanenti (cfr. can. 288). I Vescovi diocesani costituiscono, inoltre, l'autorità competente per sollecitare l'obbedienza alla predetta disciplina e per rimuovere le eventuali prassi contrarie all'uso dell'abito ecclesiastico (cfr. can. 392, § 2). Alle Conferenze episcopali corrisponde di facilitare ai singoli Vescovi diocesani l'adempimento di questo loro dovere". (Vedi: Communicationes, 27 (1995) 192-­194).

   *Il 27-01-1976 la Congregazione per i Vescovi invia una lettera a tutte le Conferenze episcopali del mondo in cui ricorda che l'autorizzazione ad un adeguamento dell'abito religioso non può in alcun modo trasformarsi in un abbandono di esso.
 *La Congregazione per il Clero con lettera del 10-02-1996, riaffermava che né il solo colletto bianco, né una semplice croce bastano a rendere "ecclesiastico" un abito borghese.

[4 Interrogativi ancora senza risposta]

Abbiamo voluto riportare per intero questi richiami perché si comprenda chiaramente che il mancato uso dell'abito ecclesiastico non riguarda disquisizioni di scarsissima importanza, ma attiene ad una evidente e grossa disubbidienza di preti che non hanno riguardo della Chiesa e delle sue leggi. Ma c'è anche un'assenza dell'Autorità: perché chi ha la competenza in materia non a si preoccupa di rendere il comportamento dei preti coerente con gli obblighi da essi stessi liberamente assunti, avallando di fatto una situazione anomala e un abuso?

Ora, se nella Chiesa ognuno può fare come gli pare, e per primi i preti, come si potrà mai pretendere che i fedeli rimangano fedeli, appunto, alle leggi del Signore?

 E se i preti possono fare quello che più loro aggrada, come potranno mai pretendere di essere ascoltati con un minimo di autorevolezza quando predicano dai pulpiti? Se è normale non usare la talare o il clergy-man per andare a sciare, per un immersione subacquea o per giocare una partita di calcio non si capisce per quale motivo quando si sta in parrocchia tutti i giorni o quando si va a trovare dei parrocchiani per benedizioni o sacramenti, non si indossa l'abito ecclesiastico.

 Perché ordinariamente non ci si attiene alle disposizioni della Chiesa? >>
AMDG et BVM