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domenica 8 gennaio 2017

VANGELI DELLA FEDE: 3-6- 1944. Una riunione di cristiani ai primissimi tempi dopo la Pentecoste.



VANGELI DELLA FEDE 
Pagine Valtortiane 

3-6- 1944.
Gesù mi mostra una riunione di cristiani 8 ai primissimi tempi dopo la
Pentecoste. Dico “primissimi” perché i dodici - sono da capo dodici e perciò
Mattia è già eletto 9 - non si sono ancora divisi per andare ad evangelizzare la
terra. Perciò penso che sia da poco accaduta la Pentecoste. Però coi dodici
sono, adesso, molti discepoli.
Sono tutti nel Cenacolo, il quale ha subìto una modificazione necessaria alla
sua nuova funzione e imposta dal numero dei fedeli. Il tavolone non è più contro
la parete della scaletta, ma contro quella di faccia, di modo che anche coloro
che non possono entrare nel Cenacolo, prima delle chiese di tutto il mondo -
Gesù me lo fa riflettere - possono vedere ciò che avviene in esso, pigiandosi
nel corridoio d’ingresso presso la porticina aperta completamente.
5 È il quaderno n. 21; e l’episodio è da noi indicato a pag. 221.
6 Il Padre Migliorini, al quale la scrittrice si rivolge ancora sotto,
apparteneva all’Ordine dei Servi di Maria. Vedi la nota 2 di pag. 5.
7 Sul rigo di spazio tra il presente brano e la data che segue, la scrittrice
annota a matita: Penitenza speciale per Paola.
8 La stessa visione si ritroverà all’inizio del quaderno n. 100, copiata quasi
fedelmente dalla scrittrice, con la stessa data e con aggiunta di particolari,
come episodio da inserirsi nel ciclo della “Glorificazione” della grande opera
sul Vangelo con il titolo: “Pietro, non più rozzo pescatore, nelle sue nuove
vesti di pontefice”.
9 Atti 1, 15-26.
Vi sono uomini e donne, di tutte le età. In un gruppo di donne, presso il
tavolone ma in un angolo, è Maria circondata dalla Maddalena, Marta, Veronica,
Maria di Cleofe, Salome, la padrona di casa. Le nomino come mi vengono, non per
dare una speciale classificazione. Vi è anche un’altra che era anche sul
Calvario. Ma non so come si chiama. Fra gli uomini riconosco Nicodemo, Lazzaro,
Giuseppe d’Arimatea, e mi pare anche Longino, ma è... in licenza, dirò così,
perché non è vestito da soldato, ma ha una veste lunga e bigiognola come fosse
un cittadino. Forse se l’è messa per non dare nell’occhio. Non so. Altri non ne
conosco.
Pietro parla istruendo gli accolti. Racconta ancora dell’ultima Cena10. Dico
“ancora” perché è lui stesso che dice: «Vi dico ancora una volta di questa Cena
in cui, prima d’essere immolato dagli uomini, Gesù Nazzareno, come era detto,
Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore nostro, come va detto e creduto con tutto
il cuore e la mente perché in questo credere è la salvezza nostra, si immolò di
sua spontanea volontà e per eccesso di amore, dandosi in Cibo e Bevanda agli
uomini dicendo: “Fate questo in memoria di Me”. E questo facciamo. Ma, o uomini,
come noi, suoi testimoni, crediamo essere nel pane e nel vino, offerti e
benedetti, come Egli fece, in sua memoria e per obbedienza al suo comando, il
suo Ss. Corpo ed il suo Ss. Sangue - quel Corpo e quel Sangue che sono di un
Dio, Figlio di Dio altissimo, e che sono stati crocifissi e sparsi per noi -
così voi lo dovete credere. Credete e benedite il Signore che a noi, suoi
crocifissori, lascia questo eterno segno di perdono. Credete e benedite il
Signore, che a coloro che non lo conobbero quando era il Nazzareno permette lo
conoscano ora che è il Verbo incarnato ricongiunto al Padre. Venite e prendete.
Udite le parole che Egli vi dice. Venite e prendete. Egli l’ha detto: “Chi
mangia la mia Carne e beve il mio Sangue avrà la vita eterna” 11. E noi allora
non capimmo... (Pietro piange). Non capimmo perché eravamo tardi d’intelletto.
Ma ora lo Spirito ha acceso la nostra intelligenza, fortificato la fede, infuso
la carità, e noi comprendiamo. E nel Nome altissimo di Dio, del Dio di Abramo,
di Giacobbe, di Mosè, nel Nome altissimo del Dio che parlò a Isaia, Geremia,
Ezechiele, vi giuriamo che questa è verità e vi scongiuriamo di credere per
avere vita eterna.»
Pietro è pieno di maestà nel parlare. Non ha più nulla del pescatore alquanto
rozzo di solo poco tempo prima. È montato su uno sgabello perché, bassotto come
è, non sarebbe visto dai più lontani se stesse coi piedi al suolo, ed egli vuol
dominare la folla. Parla misurato, con voce giusta e gesti da vero oratore. I
suoi occhi, espressivi sempre, sono ora parlanti più che mai: amore, fede,
imperio, contrizione, tutto traspare dallo sguardo e anticipa e rinforza le
parole.
Adesso scende dallo sgabello e passa dietro il tavolone fra il muro e questo, e
attende.
10 Matteo 26, 17-29; Marco 14, 12-25; Luca 22, 7-20; 1 Corinti 11, 23-34.
11 Giovanni 6, 22-59.
Giacomo e Giuda (Giacomo fratello di Giuda 12) stendono sulla tavola una
tovaglia candida. Sollevano, per fare questo, il cofano largo e basso che è
posto al centro del tavolo, e anche sul coperchio di quello stendono un lino
finissimo.
Giovanni va da Maria e le chiede qualche cosa. Ella si sfila dal collo una
specie di chiavicina e la dà a Giovanni. Giovanni va al cofano e lo apre. Si
apre ribaltando la parte davanti che viene appoggiata sulla tovaglia e ricoperta
da un terzo lino.
Nell’interno vi è una sezione orizzontale che divide in due piani il cofano. In
basso è un calice e un piatto di metallo. In alto, al centro, il calice usato da
Gesù, il pane spezzato da Lui su un piattello prezioso come il calice. Ai lati
di questi, da un lato la corona di spine, i chiodi, la spugna. Dall’altra la
sindone, il velo di Maria che fasciò i lombi di Gesù, e il velo della Veronica.
Vi sono altre cose sul fondo, ma non capisco che sono né nessuno ne parla o le
mostra. Mentre per queste che ho detto, meno il calice e il pane che restano
dove sono, vengono presi e mostrati alla folla, che si inginocchia, da Giovanni
e Giuda.
Poi gli apostoli intonano delle preghiere, degli inni, direi, perché sono
cantilenati. La folla risponde.
Infine vengono portati dei pani e posti sul vassoio di metallo (non quello di
Gesù) e delle piccole anfore.
Pietro riceve da Giovanni, che sta inginocchiato al di qua del tavolo - mentre
Pietro è sempre fra il tavolo e il muro, col volto verso la folla - il vassoio
coi pani, e Pietro lo alza e offre. Poi lo benedice e lo posa sul cofano. Giuda
porge, stando anche lui in ginocchio, il calice (non quello di Gesù) e due
anfore dalle quali Pietro mesce nel calice e offre. Poi benedice e posa sul
cofano.
Pregano ancora, poi Pietro spezza i pani in molti bocconi, mentre la folla si
prostra più ancora, e dice: «Questo è il mio Corpo. Fate questo in memoria di
Me».
E poi esce da dietro il tavolo portando seco il vassoio carico di bocconi di
pane e per prima cosa va da Maria e le dà un boccone. Poi passa sul davanti del
tavolo e distribuisce il pane. Ne restano pochi bocconi che vengono, sempre sul
loro vassoio, deposti sul cofano. Poi prende il calice e lo gira, cominciando da
Maria, fra i convenuti. Giovanni e Giuda lo seguono con le anforette e mescono
quando il calice è vuoto.
Quando tutto è distribuito, gli apostoli consumano i bocconi rimasti e il vino.
Indi cantano un altro inno e poi Pietro benedice e la folla se ne va poco a
poco.
Maria si alza - è sempre rimasta in ginocchio - e va al cofano. Si curva
attraverso il tavolone e tocca con la fronte il piano del cofano deponendo un
bacio sull’orlo del calice di Gesù. Un bacio che è per tutte le reliquie ivi
raccolte. Poi Giovanni chiude e rende la chiave a Maria.
Credo di avere visto, esattamente, come era all’inizio, la S. Messa. E, di
questo ne sono certa, entro il tempo pentecostale Gesù, secondo la sua
promessa, mi
12 di Alfeo.
accontenta nella seconda cosa che volevo sapere (29-5)13. Perché le anime le
vedevo di diverso colore, me lo spiega nel dettato del 31 maggio 14.
E cosa c’era nel cofano così caro a Maria 15 lo so ora. Esso era insieme
reliquiario e primo tabernacolo. E molto mi piace pensare che era Maria colei
che lo possedeva e ne aveva la chiave. Maria: la Tesoriera di tutto quanto è
Gesù, la Sacerdotessa 16 della più vera Chiesa.
13 Pag. 275 (secondo capoverso) e pag. 278 (ultimo capoverso).
14 Pag. 281.
15 Nella visione del 28 maggio, pag. 273.
16 Sacerdotessa e Madre del Sacerdozio (come ne «I quaderni del 1943», pag. 209,
230, 420 e 452) nel senso che, essendo vera Madre di Gesù, Sacerdote supremo ed
eterno, era la prima ad essere a Lui intimamente unita. Rileggi, nel dettato del
18 maggio, l’ultimo capoverso di pag. 253.

lunedì 19 maggio 2014

“È per l’amore che ho per te e per lui che rimango fedele al mio Signore” ella risponde. “Nessuna gloria della terra darà al tuo capo bianco e a questo innocente tanto decoro quanto ve ne darà il mio morire. Voi giungerete alla Fede. ..."

S. Perpetua e S. Felìcita / Vangeli della Fede /



Perpetua e Felìcita

1° marzo 1944.

Mi dice Gesù, verso le 17:
«Non era mia intenzione darti questa visione questa sera. Avevo intenzione di
farti vivere un altro episodio dei “vangeli della fede”. Ma è stato espresso un
desiderio da chi merita d’esser accontentato. E Io accontento. Nonostante i tuoi
dolori, vedi, osserva e descrivi. I tuoi dolori li dài a Me e la descrizione ai
fratelli.»

E nonostante i miei dolori, tanto forti - per cui mi pare di avere il capo
stretto in una morsa che parte dalla nuca e si congiunge sulla fronte e scende
verso la spina dorsale, un male terribile per cui ho pensato mi stesse per
scoppiare una meningite e poi mi sono svenuta - scrivo. È tanto forte anche ora.
Ma Gesù permette che riesca a scrivere per ubbidire. Dopo... dopo sarà quel che
sarà.

Le assicuro, intanto, che passo di sorpresa in sorpresa; perché per prima cosa
mi trovo di fronte a degli africani, arabi per lo meno, mentre ho sempre creduto
che questi santi fossero europei. Ché non avevo la minima nozione della loro
condizione sociale e fisica e del loro martirio. Di Agnese  sapevo vita e
morte. Ma di questi! È come se leggessi un racconto sconosciuto.

Per prima illustrazione, avanti di svenirmi, ho visto un anfiteatro su per giù
come il Colosseo (ma non rovinato), vuoto per allora di popolo. Solo una
bellissima e giovane mora è ritta là in mezzo e sollevata dal suolo, raggiante
per una luce beatifica che si sprigiona dal suo corpo bruno e dalla scura veste
che lo copre. Sembra l’angelo del luogo. Mi guarda e sorride. Poi mi svengo e
non vedo più nulla.

Ora la visione si completa. Sono in un fabbricato che, per la mancanza di ogni e
qualsiasi comodità e per la sua arcigna apparenza, mi si rivela come una
fortezza adibita a carcere. Non è il sotterraneo del Tullianum visto ieri . Qui
sono stanzette e corridoi sopraelevati. Ma così scarsi di spazio e di luce e
così muniti di sbarre e di porte ferrate e piene di chiavistelli, che quel “che”
di migliore che hanno in posizione viene annullato dal loro rigore che annulla
la benché più piccola idea di libertà.

In una di queste tane è seduta su un tavolaccio, che fa da letto, sedile e
tavola, la giovane mora che ho visto nell’anfiteatro. Ora non emana luce. Ma
unicamente tanta pace. Ha in grembo un piccino di pochi mesi al quale dà il
latte. Lo ninna, lo vezzeggia con atto di amore. Il bambino scherza con la
giovane madre e strofina la sua faccetta molto olivastra contro la bruna
mammella materna, e vi si attacca e stacca con avidità e con subite risatine
piene di latte.

La giovane è molto bella. Un viso regolare piuttosto tondo, con bellissimi occhi
grandi e di un nero vellutato, bocca tumida e piccina piena di denti
candidissimi e regolari, capelli neri e piuttosto crespi ma tenuti a posto da
strette trecce che le si avvolgono intorno al capo. Ha il colorito di un bruno
olivastro non eccessivo.

Anche fra noi italiani, e specie del meridione d’Italia, si vede quel
colore, appena un poco più chiaro di questo. Quando si alza per addormentare il
piccino andando su e giù per la cella, vedo che è alta e formosa con grazia. Non
eccessivamente formosa, ma già ben modellata nelle sue forme. Sembra una regina
per il portamento dignitoso. È vestita di una veste semplice e scura, quasi
quanto la sua pelle, che le ricade in pieghe morbide lungo il bel corpo.

Entra un vecchio, moro lui pure. Il carceriere lo fa entrare aprendo la pesante
porta. E poi si ritira. La giovane si volge e sorride. Il vecchio la guarda e
piange. Per qualche minuto restano così.
Poi la pena del vecchio prorompe. Con affanno supplica la figlia di aver pietà
del suo soffrire: “Non è per questo” le dice “che ti ho generato. Fra tutti i
figli ti ho amata, gioia e luce della mia casa. Ed ora tu ti vuoi perdere e
perdere il povero padre tuo che sente morirsi il cuore per il dolore che gli
dài. Figlia, sono mesi che ti prego. Hai voluto resistere ed hai conosciuto il
carcere, tu nata fra gli agi. Curvando la mia schiena davanti ai potenti t’avevo
ottenuto di esser ancora nella tua casa per quanto come prigioniera. Avevo
promesso al giudice che ti avrei piegata con la mia autorità paterna. Ora egli
mi schernisce perché vede che di essa tu non ti sei curata. Non è questo quel
che dovrebbe insegnarti la dottrina che dici perfetta. Quale Dio è dunque quello
che segui, che ti inculca di non rispettare chi ti ha generato, di non amarlo,
perché se mi amassi non mi daresti tanto dolore? La tua ostinazione, che neppure
la pietà per quell’innocente ha vinto, ti ha valso di esser strappata alla casa
e chiusa in questa prigione. Ma ora non più di prigione si parla, ma di morte. E
atroce. Perché? Per chi? Per chi vuoi morire? Ha bisogno del tuo, del nostro
sacrificio - il mio e quello della tua creatura che non avrà più madre - il tuo
Dio? Il suo trionfo ha bisogno del tuo sangue e del mio pianto per compiersi? Ma
come? La belva ama i suoi nati e tanto più li ama quanto più li ha tenuti al
seno. Anche in questo speravo e per questo ti avevo ottenuto di poter nutrire il
tuo bambino. Ma tu non muti. E dopo averlo nutrito, scaldato, fatto di te
guanciale al suo sonno, ora lo respingi, lo abbandoni senza rimpianto. Non ti
prego per me. Ma in nome di lui. Non hai il diritto di farne un orfano. Non ha
diritto il tuo Dio di fare questo. Come posso crederlo buono più dei nostri se
vuole questi sacrifici crudeli? Tu me lo fai disamare, maledire sempre più. Ma
no, ma no! Che dico? Oh! Perpetua, perdona! Perdona al tuo vecchio padre che il
dolore dissenna. Vuoi che lo ami il tuo Dio? Lo amerò più di me stesso, ma resta
fra noi. Di’ al giudice che ti pieghi. Poi amerai chi vuoi degli dèi della
terra. Poi farai del padre tuo ciò che vuoi. Non ti chiamo più figlia, non son
più tuo padre. Ma il tuo servo, il tuo schiavo, e tu la mia signora. Domina,
ordina ed io ti ubbidirò. Ma pietà, pietà. Salvati mentre ancora lo puoi. Non è
più tempo di attendere. La tua compagna ha dato alla luce la sua creatura, lo
sai, e nulla più arresta la sentenza. Ti verrà strappato il figlio; non lo
vedrai più. Forse domani, forse oggi stesso. Pietà, figlia! Pietà di me e di lui
che non sa parlare ancora, ma lo vedi come ti guarda e sorride! Come invoca il
tuo amore! Oh! Signora, mia signora, luce e regina del cuor mio, luce e gioia
del tuo nato, pietà, pietà!”
Il vecchio è ginocchioni e bacia l’orlo della veste della figlia e le abbraccia
i ginocchi e cerca prenderle la mano che ella si posa sul cuore per reprimerne
lo strazio umano. Ma nulla la piega.

“È per l’amore che ho per te e per lui che rimango fedele al mio Signore” ella
risponde. “Nessuna gloria della terra darà al tuo capo bianco e a questo
innocente tanto decoro quanto ve ne darà il mio morire. Voi giungerete alla
Fede. E che direste allora di me se avessi per viltà di un momento rinunciato
alla Fede? Il mio Dio non ha bisogno del mio sangue e del tuo pianto per
trionfare. Ma tu ne hai bisogno per giungere alla Vita. E questo innocente per
rimanervi. Per la vita che mi desti e per la gioia che egli mi ha dato, io vi
ottengo la Vita che è vera, eterna, beata. No, il mio Dio non insegna il
disamore per i padri e per i figli. Ma il vero amore. Ora il dolore ti fa
delirare, padre. Ma poi la luce si farà in te e mi benedirai. Io te la porterò
dal cielo. E questo innocente non è che io l’ami meno, ora che mi sono fatta
svuotare dal sangue per nutrirlo. Se la ferocia pagana non fosse contro noi
cristiani, gli sarei stata madre amantissima ed egli sarebbe stato lo scopo
della mia vita. Ma più della carne nata da me è grande Iddio, e l’amore che gli
va dato infinitamente più grande. Non posso neppure in nome della maternità
posporre il suo amore a quello di una creatura. No. Non sei lo schiavo della
figlia tua. Io ti son sempre figlia e in tutto ubbidiente fuorché in questo: di
rinunciare al vero Dio per te. Lascia che il volere degli uomini si compia. E se
mi ami, seguimi nella Fede. Là troverai la figlia tua, e per sempre, perché la
vera Fede dà il Paradiso, ed a me il mio Pastore santo ha già dato il benvenuto
nel suo Regno”.

E qui la visione ha un mutamento, perché vedo entrare nella cella altri
personaggi: tre uomini ed una giovanissima donna. Si baciano e si abbracciano a
vicenda. Entrano anche i carcerieri per levare il figlio a Perpetua. Ella
vacilla come colpita da un colpo. Ma si riprende.

La compagna la conforta: “Io pure, ho già perduto la mia creatura. Ma essa non è
perduta. Dio fu meco buono. Mi ha concesso di generarla per Lui e il suo
battesimo si ingemma del mio sangue. Era una bambina... e bella come un fiore.
Anche il tuo è bello, Perpetua. Ma per farli vivere in Cristo questi fiori hanno
bisogno del nostro sangue. Duplice vita daremo loro così”.
Perpetua prende il piccino, che aveva posato sul giaciglio  e che dorme sazio e
contento, e lo dà al padre dopo averlo baciato lievemente per non destarlo. Lo
benedice anche e gli traccia una croce sulla fronte ed una sulle manine, sui
piedini, sul petto, intridendo le dita nel pianto che le cola dagli occhi. Fa
tutto così dolcemente che il bambino sorride nel sonno come sotto una carezza.

Poi i condannati escono e vengono, in mezzo a soldati, portati in una oscura
cavea dell’anfiteatro in attesa del martirio. Passano le ore pregando e cantando
inni sacri, esortandosi a vicenda all’eroismo.

Ora mi pare di essere io pure nell’anfiteatro che ho già visto. È pieno di folla
per la maggior parte di pelle abbronzata. Però vi sono anche molti romani. La
folla rumoreggia sulle gradinate e si agita. La luce è intensa nonostante il
velario steso dalla parte del sole.

Vengono fatti entrare nell’arena, dove mi pare siano stati già eseguiti dei
giuochi crudeli perché è macchiata di sangue, i sei martiri in fila. La folla
fischia e impreca. Essi, Perpetua in testa, entrano cantando.

Si fermano in mezzo all’arena e uno dei sei si volge alla folla.
“Fareste meglio a mostrare il vostro coraggio seguendoci nella Fede e non
insultando degli inermi che vi ripagano del vostro odio pregando per voi e
amandovi. Le verghe con cui ci avete fustigato, il carcere, le torture, l’aver
strappato a due madri i figli - voi bugiardi che dite d’esser civili e attendete
che una donna partorisca per poi ucciderla e nel corpo e nel cuore separandola
dalla sua creatura, voi crudeli che mentite per uccidere perché sapete che
nessuno di noi vi nuoce, e men che mai delle madri che altro pensiero non hanno
che la loro creatura - non ci mutano il cuore. Né per quanto è amore di Dio né
per quanto è amore di prossimo. E tre, e sette, e cento volte daremmo la vita
per il nostro Dio e per voi. Perché voi giungiate ad amarlo, e per voi preghiamo
mentre già il Cielo su noi si apre: Padre nostro che sei nei cieli...”. In
ginocchio i sei santi martiri pregano.

Si apre un basso portone e irrompono le fiere che, per quanto sembrano bolidi
tanto sono veloci nella corsa, mi paiono tori o bufali selvaggi. Come una
catapulta ornata di corna puntute, investono il gruppo inerme. Lo alzano sulle
corna, lo sbattono per aria come fossero tanti cenci, lo riabbattono al suolo,
lo calpestano. Tornano a fuggire come pazzi di luce e di rumore e tornano a
investire.
Perpetua, presa come un fuscello dalle corna di un toro, viene scaraventata
molti metri più là. Ma per quanto ferita, si rialza e sua prima cura è di
ricomporsi le vesti strappate sul seno. Tenendosele con la destra, si trascina
verso Felicita caduta supina e mezza sventrata, e la copre e sorregge facendo di
sé appoggio alla ferita. Le bestie tornano a ferire finché i sei malvivi
sono stesi al suolo. Allora i bestiari le fanno rientrare e i gladiatori
compiono l’opera.
Ma, fosse pietà o inesperienza, quello di Perpetua non sa uccidere. La ferisce,
ma non prende il punto giusto. “Fratello, qua, che io ti aiuti” dice ella con un
filo di voce e un dolcissimo sorriso. E, appoggiata la punta della spada contro
la carotide destra, dice: “Gesù, a Te mi raccomando! Spingi, fratello. Io ti
benedico” e sposta il capo verso la spada per aiutare l’inesperto e turbato
gladiatore.

Dice Gesù:
«Questo è il martirio della mia martire Perpetua, della sua compagna Felicita e
dei suoi compagni. Rea di esser cristiana. Catecumena ancora. Ma come intrepida
nel suo amore per Me! Al martirio della carne ella ha unito quello del cuore, e
con lei Felicita. Se sapevano amare i loro carnefici, come avranno saputo amare
i figli loro?
Erano giovani e felici nell’amore dello sposo e dei genitori. Nell’amore della
loro creatura. Ma Dio va amato sopra ogni cosa. Ed esse lo amano così. Si
strappano le loro viscere separandosi dal loro piccino, ma la Fede non muore.
Esse credono nell’altra vita. Fermamente. Sanno che essa è di chi fu fedele e
visse secondo la Legge di Dio.
Legge nella legge è l’amore. Per il Signore Iddio, per il prossimo loro. Quale
amore più grande di dare la vita per coloro che si ama, così come l’ha data il
Salvatore per l’umanità che Egli amava? Esse dànno la vita per amarmi e per
portare altri ad amarmi e possedere perciò l’eterna Vita.
Esse vogliono che i
figli e i genitori, gli sposi, i fratelli e tutti coloro che esse amano di amore
di sangue o di amore di spirito - i carnefici fra questi poiché Io ho detto:
“Amate coloro che vi perseguitano” : Matteo 5, 43-44; Luca 6, 27. - abbiano
la Vita del mio Regno. E, per guidarli a questo mio Regno, tracciano
col loro sangue un segno che va dalla Terra al Cielo, che splende, che chiama.
Soffrire? Morire? Cosa è? È l’attimo che fugge. Mentre la vita eterna resta.
Nulla è quell’attimo di dolore rispetto al futuro di gioia che le attende. Le
fiere? Le spade? Che sono? Benedette siano esse che dànno la Vita.
Unica preoccupazione - poiché chi è santo lo è in tutto - di conservare la
pudicizia. In quel momento, non della ferita ma delle vesti scomposte hanno
cura. Poiché, se vergini non sono, sono sempre delle pudiche. Il vero
cristianesimo dà sempre verginità di spirito. La mantiene, questa bella purezza,
anche là dove il matrimonio e la prole han levato quel sigillo che fa dei
vergini degli angeli.
Il corpo umano lavato dal Battesimo è tempio dello Spirito di Dio. Non va dunque
violato con invereconde mode e inverecondi costumi. Dalla donna, specie dalla
donna che non rispetta se stessa, non può che venire una prole viziosa e una
società corrotta, dalla quale Dio si ritira e nella quale Satana ara e semina i
suoi triboli che vi fanno disperare.»

Da “Vangeli della Fede”
AMDG et BVM

venerdì 22 novembre 2013

BELLISSIMA STORIA DI SANTA CECILIA, VERGINE E MARTIRE



SANTA CECILIA

22 luglio. Festività di S. Maria Maddalena.

Una bella e lunga visione che non ha nulla a che fare con la Santa penitente che
io ho sempre amata tanto. La scrivo aggiungendo fogli a questo quaderno perché
sono sola e prendo quanto ho sotto mano.
Vedo le catacombe. Per quanto io non sia mai 1 stata nelle catacombe, capisco
che sono esse. Quali non so. Vedo oscuri meandri di stretti corridoi scavati
nella terra, bassi e umidi, fatti tutti a giravolte come un labirinto. Si
cammina diritti e sembra di poter continuare, al massimo di poter svoltare in un
altro corridoio, invece ci si trova di fronte una parete terrosa e occorre
svoltare, tornare indietro sino a ritrovare un altro corridoio che vada oltre.
In essi sono loculi e loculi, pronti per ricevere martiri. Pronti in questo
senso: che ognuno è leggermente scavato nella parete per dare una norma ai
fossori. Così in principio. Ma più ci si addentra e più 2 i loculi sono già
fondi e compiti, messi tutti nel senso della parete, come tante cuccette di
nave. Altri sono invece già colmi della loro santa spoglia e chiusi da una rozza
lapide incisa malamente col nome del martire o del defunto e i segni cristiani,
oltre una parola di addio e di raccomandazione.

Ma questi loculi già completati e chiusi sono proprio in quella zona che
suppongo sia la centrale della catacomba, perché qui si aprono sovente ambienti
più vasti, come sale e salette, e più alti, ornati di graffiti e più luminosi
degli altri per delle lucernette a olio sparse qua a là per devozione e per
comodità dei fedeli ai quali per qualche motivo si spenga la propria lampadetta.
Anche le persone qui sono più numerose e sboccano da tutte le parti, salutandosi
con amore, a voce bassa come il luogo santo lo richiede. Vi sono uomini, donne e
bambini. Di ogni condizione sociale. Vestiti da poveri e da patrizi. Le donne
hanno il capo coperto da una stoffa leggera come una mussola. Non è il velo di
tulle, certo, ma è come una garza fitta fitta, più bella nelle ricche, più
povera nelle povere, scura per le spose e vedove, bianca per le vergini. Vi sono
spose che hanno i bambini in braccio. Forse non avevano a chi lasciarli e se li
sono portati seco e, se i più grandicelli camminano al fianco delle mamme loro,
i più piccini, certuni infanti, dormono beati sotto il velo materno, cullati dal
passo della madre e dai canti lenti e pii che si elevano sotto le volte.
Sembrano angioletti scesi dal Cielo e sognanti il Paradiso a cui sorridono nel
sonno.
La gente aumenta e finisce a radunarsi in una vastissima sala semicircolare che
ha nel culmine del cerchio l’altare volto verso la folla ed è tutta coperta di
pitture o mosaici. Non capisco bene. So che sono figurazioni colorate in cui
splendono i toni più vivi o chiari e brillano le raggiere d’oro. Sull’altare
molti lumi accesi. Intorno all’altare una corona di vergini bianco-vestite e
bianco-velate.

1 Da qui comincia a scrivere sui fogli aggiunti al quaderno.
2 più è aggiunto da noi

Entra, benedicente, un vecchio dall’aspetto buono e maestoso. Credo sia il
Pontefice, perché tutti si prostrano riverenti. Egli è circondato da preti e
diaconi e passa fra la siepe di teste chine con un sorriso di bellezza
ineffabile sul volto. Il solo sorriso dice della sua santità. Sale all’altare e
si prepara al rito mentre i fedeli cantano.

La celebrazione ha luogo. È quasi simile alla nostra 3. Molto più complessa di
quella vista nel Tullianum, celebrata dall’apostolo Paolo, e di quella vista
celebrare in casa di Petronilla 4.

IL vecchio celebrante, Vescovo di certo se non Pontefice, è aiutato e servito
dai diaconi, i quali hanno vesti molto diverse dalle sue perché, mentre questo
porta una veste (di celebrazione) che somiglia, tanto per darle un’idea, a
quegli accappatoi 5 da toletta che le donne usano per pettinarsi - mantellette
tonde che coprono sul davanti e sul dietro e le spalle e braccia sino quasi al
polso - i diaconi hanno una veste di celebrazione quasi uguale alle attuali,
lunga sino al ginocchio e con maniche larghe e corte.
La Messa consta di canti, che comprendo essere brani di salmi o dell’Apocalisse,
di letture di brani epistolari o biblici e del Vangelo, i quali vengono
commentati ai fedeli dai diaconi a turno.
Finito di leggere il Vangelo - lo legge con voce di canto un giovane diacono -
si alza il Pontefice. Lo chiamo così perché sento che così è indicato da una
mamma ad un suo bambino piuttosto irrequieto. Il brano scelto era la parabola
delle dieci vergini: sagge o stolte 6.
Il Pontefice dice: «Propria delle vergini, questa parabola si rivolge a tutte le
anime, poiché i meriti del Sangue del Salvatore e la Grazia riverginizzano le
anime e le fanno come fanciulle in attesa dello Sposo.
Sorridete, o vecchi cadenti; alzate il volto, o patrizi sino a ieri immersi
nella fanghiglia del paganesimo corrotto; guardate senza più rimpianto al vostro
candido ignorare di fanciulle, o madri e spose. Non siete, nell’anima, dissimili
da questi gigli fra cui passeggia l’Agnello e che ora fanno corona al suo
altare. L’anima vostra ha bellezze di vergine che nessun bacio ha sfiorata,
quando rinascete e permanete in Cristo, Signor nostro. Il suo venire fa più
candida di alba su un monte coperto di neve l’anima che prima era sporca e nera
dei vizi più abbietti. Il pentimento la deterge, la volontà la depura, ma
l’amore, l’amore del nostro santo Salvatore, amore che viene dal suo Sangue che
grida con voce d’amore, vi rende la verginità perfetta. Non già quella che
aveste all’alba della vostra vita umana. Ma


3 La scrittrice si riferisce, ovviamente, alla S. Messa come veniva celebrata ai
suoi tempi, prima della riforma liturgica introdotta dal Concilio Vaticano II,
anche se resta la somiglianza della celebrazione da lei descritta con quella dei
nostri giorni.
4 Il 29 febbraio (pag. 225) ??? e il 4 marzo (pag. 243).???
5 accappatoi è nostra correzione da accapatoi
6 Matteo 25, 1-13.

quella che era del padre di tutti: Adamo, ma quella che era della madre di
tutti: Eva, prima che Satana passasse, traviando, sulla loro innocenza angelica,
sull’innocenza: dono divino che li vestiva di grazia agli occhi di Dio e
dell’universo.
O santa verginità della vita cristiana! Bagno di Sangue, di Sangue di un Dio che
vi fa nuovi e puri come l’Uomo e la Donna usciti dalle mani dell’Altissimo! O
nascita seconda della vostra vita, nella vita cristiana, preludio di quella
terza nascita che vi darà il Cielo quando vi salirete al cenno di Dio, candidi
per la fede o porpurei per il martirio, belli come angeli e degni di vedere e
seguire Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore nostro!
Ma oggi, più che alle anime riverginizzate dalla Grazia, mi volgo a quelle
chiuse in corpo vergine, con volontà di vergine. Alle vergini sagge che hanno
compreso l’invito d’amore del Signor nostro e le parole del vergine Giovanni, e
vogliono seguire per sempre l’Agnello fra la schiera di coloro che non conobbero
contaminazione e che empiranno in eterno i Cieli del cantico che niuno può dire
se non coloro che vergini sono per amore di Dio 7. E parlo alla forte nella
fede, nella speranza, nella carità, che si ciba questa notte delle Carni
immacolate del Verbo e si corrobora col suo Sangue come di Vino celeste per
esser forte nella sua impresa.
Una fra voi si alzerà da questo altare per andare incontro a un destino il cui
nome può essere “morte”. E vi va fidente in Dio, non della fede comune a tutti i
cristiani, ma di una ancor più perfetta fede che non si limita a credere per se
stessa, a credere nella protezione divina per se stessa. Ma crede anche per gli
altri e spera di portare a questo altare colui che domani sarà agli occhi del
mondo il suo sposo ma agli occhi di Dio il fratello suo dilettissimo. Doppia 8,
perfetta verginità che si sente sicura della sua forza al punto di non temere
violazione, di non temere ira di sposo deluso, di non temere debolezza di senso,
di non temere paura di minacce, di non temere delusione di speranze, di non
temere paura e quasi certezza di martirio.
Alzati e sorridi al tuo Sposo vero, casta vergine di Cristo che vai incontro
all’uomo guardando a Dio, che ci vai per portare l’uomo a Dio! Dio ti guarda e
sorride e ti sorride la Madre che fu Vergine e gli angeli ti fanno corona.
Alzati e vieni a dissetarti alla Fonte immacolata prima di andare alla tua
croce, alla tua gloria.
Vieni, sposa di Cristo. Ripeti a Lui il tuo canto d’amore sotto queste volte che
ti sono più care della cuna della tua nascita al mondo, e portalo teco sino al
momento che l’anima lo canterà nel Cielo mentre il corpo poserà nell’ultimo
sonno fra le braccia di questa tua vera Madre: l’apostolica Chiesa.»

Finita l’omelia del Pontefice, vi è un poco di brusio, perché i cristiani
sussurrano guardando e accennando la schiera delle vergini. Ma viene zittito per
far fare silenzio e poi vengono fatti uscire i catecumeni e la Messa prosegue.

7 Apocalisse 14, 4.
8 Doppia è lettura incerta


Non c’è il Credo. Almeno io non lo sento dire. Dei diaconi passano fra i fedeli
raccogliendo offerte, mentre altri diaconi cantano con la loro voce virile
alternando le strofe di un inno alle voci bianche delle vergini. Volute di
incenso salgono verso la volta della sala mentre il Pontefice prega all’altare e
i diaconi sollevano sulle palme le offerte raccolte in vassoi preziosi e in
anfore pure preziose.
La Messa prosegue ora così come è adesso. Dopo il dialogo che precede il
Prefazio, e il Prefazio cantato dai fedeli, si fa un grande silenzio in cui si
odono 9 solo le aspirazioni e i sibili del celebrante che prega curvo
sull’altare e che poi si solleva e a voce più distinta dice le parole della
Consacrazione.
Bellissimo il Pater intonato da tutti. Quando si inizia la distribuzione delle
Specie i diaconi cantano. Vengono comunicate le vergini per prime. Poi cantano
esse il canto udito per la sepoltura di Agnese 10: “Vidi supra montem Sion Agnum
stantem...”. Il cantico dura sinché dura la distribuzione delle Specie
alternandosi al salmo: “Come il cervo sospira alle acque, così l’anima mia anela
Te mio Dio” 11 (credo avere tradotto bene).
La Messa ha termine. I cristiani si affollano intorno al Pontefice per esserne
benedetti anche singolarmente e per accomiatarsi dalla vergine a cui si è
rivolto il Pontefice. Questi saluti avvengono però in una sala vicina, una
anticamera, direi, della chiesa vera e propria. E avvengono quando la vergine,
dopo una preghiera più lunga di tutte degli altri presenti, si alza dal suo
posto, si prostra ai piedi dell’altare e ne bacia il bordo. Pare proprio un
cervo che non sappia staccarsi dalla sua fonte d’acqua pura.

Sento che la chiamano: “Cecilia, Cecilia” e la vedo, finalmente, in viso, perché
ora è ritta presso il Pontefice e si è un poco sollevato il velo. È bellissima e
giovanissima. Alta, formosa con grazia, molto signorile nel tratto, con una
bella voce e un sorriso e uno sguardo d’angelo. Dei cristiani la salutano con
lacrime, altri con sorrisi. Alcuni le dicono come mai si è potuta decidere a
nozze terrene, altri se non teme l’ira del patrizio quando la scoprirà
cristiana.
Una vergine si rammarica che ella rinunci alla verginità. Risponde Cecilia a lei
per rispondere a tutti: “Ti sbagli, Balbina. Io non rinuncio a nessuna
verginità. A Dio ho sacrato il mio corpo come il mio cuore e a Lui resto fedele.
Amo Dio più dei parenti. Ma li amo ancora tanto da non volerli portare a morte
prima che Dio li chiami. Amo Gesù, Sposo eterno, più d’ogni uomo. Ma amo gli
uomini tanto da ricorrere a questo mezzo per non perdere l’anima di Valeriano.
Egli mi ama, ed io castamente lo amo, perfettamente lo amo, tanto da volerlo
avere meco nella Luce e nella Verità. Non temo le sue ire. Spero nel Signore per
vincere. Spero in Gesù per cristianizzare lo sposo terreno. Ma se non vincerò
in questo, e martirio mi verrà


9 odono è nostra correzione da ode
10 Il 20 gennaio, pag. 62. Apocalisse 14, 1.
11 Salmo 42 (volgata: 41), 2.


dato, vincerò più presto la mia corona. Ma no!... Io vedo tre corone scendere
dal Cielo: due uguali e una fatta di tre ordini di gemme. Le due uguali sono
tutte rosse di rubini. La terza è di due fasce di rubini intorno e un grande
cordone di perle purissime. Esse ci attendono. Non temete per me. La potenza del
Signore mi difenderà. In questa chiesa ci troveremo presto uniti per salutare
dei nuovi fratelli. Addio. In Dio”.
Escono dalle catacombe. Si avvolgono tutti in mantelli scuri e sgattaiolano per
le vie ancora semioscure perché l’alba è appena appena al suo inizio.


Seguo Cecilia che va insieme a un diacono e a delle vergini. Alla porta di un
vasto fabbricato si lasciano. Cecilia entra con due vergini sole. Forse due
ancelle. Il portinaio però deve essere cristiano perché saluta così: “Pace a
te!”.
Cecilia si ritira nelle sue stanze e insieme alle due prega e poi si fa
preparare per le nozze. La pettinano molto bene. Le infilano una finissima veste
di lana candidissima, ornata di una greca in ricamo bianco su bianco. Sembra
ricamata in argento e perle. Le mettono monili alle orecchie, alle dita, al
collo, ai polsi.
La casa si anima. Entrano matrone e altre ancelle. Un via vai festoso e
continuo.

Poi assisto a quello che credo sia lo sposalizio pagano. Ossia l’arrivo dello
sposo fra musiche e invitati e delle cerimonie di saluti e aspersions e simili
storie, e poi la partenza in lettiga verso la casa dello sposo tutta parata a
festa. Noto che Cecilia passa sotto archi di bende di lana bianca e di rami che
mi paiono mirto e si ferma davanti al larario, credo, dove vi sono nuove
cerimonie di aspersioni e di formule. Vedo a odo i due darsi la mano e dire la
frase rituale: “Dove tu, Caio, io Caia”.


Vi è tanta di quella gente e su per giù tutta in vesti uguali: toghe, toghe e
toghe, che non capisco quale sia il sacerdote del rito e se c’è. Mi pare di
avere il capogiro.
Poi Cecilia, tenuta per mano dallo sposo, fa il giro dell’atrio (non so se dico
bene), insomma della sala a nicchie e colonne dove è il larario, e saluta le
statue degli antenati di Valeriano, credo. E poscia passa sotto nuovi archi di
mirto ed entra nella vera casa. Sulla soglia le offrono doni e, fra l’altro, una
rocca e un fuso. Glie la offre una vecchia matrona. Non so chi sia.
La festa si inizia col solito banchetto romano e dura fra canti e danze. La sala
è ricchissima come tutta la casa. Vi è un cortile - credo si chiami impluvio, ma
non ricordo bene i nomi della edilizia romana né so se li applico giusti - che è
un gioiello di fontane, statue e aiuole. Il triclinio è fra questo e il giardino
folto e fiorito che è oltre la casa. Fra i cespugli, statue di marmo e fontane
bellissime.
Mi sembra passi molto tempo perché la sera scende. Si vede che per i romani non
c’erano le tessere 12. Il banchetto non finisce mai. È vero che vi sono soste di
canti e danze. Ma insomma...

12 Le tessere che, nel periodo bellico in cui Maria Valtorta scriveva,
regolavano il razionamento del pane e di altri alimenti.


Cecilia sorride allo sposo che le parla e la guarda con amore. Ma pare un poco
svagata. Valeriano le chiede se è stanca e, forse per farle cosa gradita, si
alza per licenziare gli ospiti.

Cecilia si ritira nelle sue nuove stanze. Le sue ancelle cristiane sono con lei.
Pregano e, per avere una croce, Cecilia bagna un dito in una coppa che deve
servire alla toletta e segna una leggera croce scura sul marmo di una parete. Le
ancelle la svestono del ricco abito mettendole una semplice veste di lana, le
sciolgono i capelli levandone le forcine preziose e glie li annodano in due
trecce. Senza gioielli, senza riccioli, così, con le trecce sulle spalle,
Cecilia pare una giovinetta, mentre giudico abbia dai 18 ai 20 anni.
Un’ultima preghiera e un cenno alle ancelle che escono per tornare con
altre più anziane, certo della casa di Valeriano. In corteo vanno ad una
magnifica camera e le più vecchie accompagnano Cecilia al letto che è poco
dissimile dai divani alla turca di ora, soltanto la base è di avorio intarsiato
e colonne di avorio sono ai quattro lati, sorreggenti 13 un baldacchino di
porpora. Anche il letto è coperto di ricchissime stoffe di porpora. La lasciano
sola.

Entra Valeriano e va a mani tese verso Cecilia. Si vede che l’ama molto. Cecilia
sorride al suo sorriso. Ma non va verso lui. Resta in piedi al centro della
stanza, perché, non appena uscite le vecchie ancelle che l’avevano adagiata sul
letto, ella si è rialzata.
Valeriano se ne stupisce. Crede non l’abbiano servita a dovere ed è già iracondo
verso le ancelle. Ma Cecilia lo placa dicendo che fu lei a volerlo attendere in
piedi.
“Vieni, allora, Cecilia mia” dice Valeriano cercando di abbracciarla. “Vieni,
ché io ti amo tanto”.
“Io pure. Ma non mi toccare. Non mi offendere con carezze umane”.
“Ma Cecilia!... Sei mia sposa”.
“Son di Dio, Valeriano. Son cristiana. Ti amo, ma con l’anima in Cielo. Tu non
hai sposato una donna, ma una figlia di Dio cui gli angeli servono. E l’angelo
di Dio sta meco a difesa. Non offendere la celeste creatura con atti di triviale
amore. Ne avresti castigo”.
Valeriano è trasecolato. Dapprima lo stupore lo paralizza, ma poi l’ira d’esser
beffato lo soverchia ed egli si agita e urla. È un violento, deluso sul più
bello. “Tu mi hai tradito! Tu ti sei fatta giuoco di me. Non credo. Non posso,
non voglio credere che tu sei cristiana. Sei troppo buona, bella e intelligente
per appartenere a questa sozza congrega. Ma no!... È uno scherzo. Tu vuoi
giuocare come una bambina. È la tua festa. Ma lo scherzo è troppo atroce. Basta.
Vieni a me”
“Sono cristiana. Non scherzo. Mi glorio d’esserlo perché esserlo vuol dire esser
grandi in terra e oltre. Ti amo, Valeriano. Ti amo tanto che sono venuta a te
per portarti a Dio, per averti con me in Dio”.


13 sorreggenti è nostra correzione da sorregenti


“Maledizione a te, pazza e spergiura! Perché mi hai tradito? Non temi la mia
vendetta?...”
“No, perché so che sei nobile e buono e mi ami. No, perché so che non osi
condannare senza prova di colpa. Io non ho colpa...”.
“Tu menti dicendo di angeli e dèi. Come posso credere a questo? Dovrei vedere e
se vedessi... se vedessi ti rispetterei come angelo. Ma per ora sei la mia
sposa. Non vedo nulla. Vedo te sola”.
“Valeriano, puoi credere che io menta? Lo puoi credere, proprio tu che mi
conosci? Sono dei vili, Valeriano, le menzogne. Credi a quanto ti dico. Se tu
vuoi vedere l’angelo mio, credi in me e lo vedrai. Credi a chi ti ama. Guarda:
sono sola con te. Tu potresti uccidermi. Non ho paura. Sono in tua balìa. Mi
potresti denunciare al Prefetto. Non ho paura. L’angelo mi ripara delle sue ali.
Oh! se tu lo vedessi!...”
“Come potrei vederlo?”
“Credendo in ciò che io credo. Guarda: sul mio cuore è un piccolo rotolo. Sai
cosa è? È la Parola del mio Dio. Dio non mente, e Dio ha detto di non avere
paura, noi che crediamo in Lui, ché aspidi e scorpioni saranno senza veleno per
il nostro piede 14...”.
“Ma pure voi morite a migliaia nelle arene...”
“No. Non moriamo. Viviamo eterni. L’Olimpo non è. Il Paradiso è. In esso non
sono gli 15 dèi bugiardi e dalle passioni brutali. Ma solo angeli e santi nella
luce e nelle armonie celesti. Io le sento... Io le vedo... O Luce! O Voce! O
Paradiso! Scendi! Scendi! Vieni a far tuo questo tuo figlio, questo mio sposo.
La tua corona prima a lui che a me. A me il dolore d’esser senza il suo affetto,
ma la gioia di vederlo amato da Te, in Te, prima del mio venire. O gioioso
Cielo! O eterne nozze! Valeriano, saremo uniti davanti a Dio, vergini sposi,
felici di un amore perfetto...” Cecilia è estatica.

Valeriano la guarda ammirato, commosso. “Come potrei... come potrei avere ciò?
Io sono il patrizio romano. Sino a ieri gozzovigliai e fui crudele. Come posso
esser come te, angelo?”
“Il mio Signore è venuto per dare vita ai morti. Alle anime morte. Rinasci in
Lui e sarai simile a me. Leggeremo insieme la sua Parola e la tua sposa sarà
felice d’esserti maestra. E poi ti condurrò meco dal Pontefice santo. Egli ti
darà la completa luce e la grazia. Come cieco a cui si aprono le pupille tu
vedrai. Oh! vieni, Valeriano, e odi la Parola eterna che mi canta in cuore”.
E Cecilia prende per mano lo sposo, ora tutto umile e calmo come un bambino, e
si siede presso a lui su due ampi sedili e legge il I capitolo del Vangelo di S.
Giovanni sino al v. 14, poi il cap. 3° nell’episodio di Nicodemo.
La voce di Cecilia è come musica d’arpa nel leggere quelle pagine e Valeriano le
ascolta prima stando seduto col capo appuntellato alle mani, posando i
gomiti

14 Marco 16, 17-18; Luca 10, 19.
15 gli è nostra correzione da i

sui ginocchi, ancora un poco sospettoso e incredulo, poi appoggia il capo sulla
spalla della sposa e a occhi chiusi ascolta attentamente e, quando lei smette,
supplica: “Ancora, ancora”. Cecilia legge brani di Matteo e Luca, tutti atti a
persuadere sempre più lo sposo, e termina tornando a Giovanni del quale legge
dalla lavanda in poi 16.
Valeriano ora piange. Le lacrime cadono senza sussulti dalle sue palpebre
chiuse. Cecilia le vede e sorride, ma non mostra notarle. Letto l’episodio di
Tommaso incredulo 17, ella tace...
E restano così, assorti l’una in Dio, l’altro in se stesso, sinché Valeriano
grida: “Credo. Credo, Cecilia. Solo un Dio vero può aver detto quelle parole e
amato in quel modo. Portami dal tuo Pontefice. Voglio amare ciò che tu ami.
Voglio ciò che tu vuoi. Non temere più di me, Cecilia. Saremo come tu vuoi:
sposi in Dio e qui fratelli. Andiamo, ché non voglio tardare a vedere ciò che tu
vedi: l’angelo del tuo candore “.
E Cecilia raggiante si alza, apre la finestra, scosta le tende perché la luce
del nuovo giorno entri, e si segna dicendo il Pater noster: adagio, adagio
perché lo sposo possa seguirla, e poi con la sua mano lo segna in fronte e sul
cuore e per ultimo gli prende la mano e glie la porta alla fronte, al petto,
alle spalle nel segno di croce, e poi esce tenendo lo sposo sempre per mano,
guidandolo verso la Luce.
Non vedo altro.

Ma Gesù mi dice:

«Quanto avete da imparare dall’episodio di Cecilia! È un vangelo della Fede 18.
Perché la fede di Cecilia era ancor più grande di quella di tante altre vergini.
Considerate. Ella va alle nozze fidando in Me che ho detto: “Se avrete tanta
fede quanto un granello di senapa, potrete dire a un monte: ritirati, ed esso si
sposterà”19. Vi va sicura del triplo miracolo di esser preservata da ogni
violenza, di esser apostola dello sposo pagano, di esser immune per il momento,
e da parte di lui, da ogni denuncia. Sicura nella sua fede, ella fa un passo
rischioso, agli occhi di tutti, non ai suoi, perché i suoi fissi in Me vedono il
mio sorriso. E la sua fede ha ciò che ha sperato.
Come va al cimento? Corroborata di Me. Si alza da un altare per andare alla
prova. Non da un letto. Non parla con uomini. Parla con Dio. Non si appoggia
altro che a Me.
Ella lo amava santamente Valeriano, lo amava oltre la carne. Angelica sposa,
vuole continuare ad amare così il consorte per tutta la vera Vita. Non si limita
a farlo felice qui. Vuole farlo felice in eterno. Non è egoista. Dà a lui ciò
che è il suo

16 Da Giovanni 13, 1 in poi.
17 Giovanni 20, 24-29.
18 Vedi il breve dettato del 28 febbraio, pag. 152.
19 Matteo 17, 20; Luca 17, 6.

bene: la conoscenza di Dio. Affronta il pericolo pur di salvarlo. Come madre,
ella non cura pericoli pur di dare alla Vita un’altra creatura.
La vera Religione non è mai sterile. Dà ardori di paternità e maternità
spirituali che empiono i secoli di calori santi. Quanti coloro che in questi
venti secoli hanno effuso se stessi, facendosi eunuchi volontari 20 pur di esser
liberi di amare non pochi, ma tanti, ma tutti gli infelici!
Guardate quante vergini fanno da madri agli orfani, quanti vergini da padri ai
derelitti. Guardate quanti generosi senza tonaca o divisa fanno olocausto della
loro vita per portare a Dio la miseria più grande: le anime che si sono perdute
e impazzano nella disperazione e nella solitudine spirituale. Guardate. Voi non
li conoscete. Ma Io li conosco uno per uno e li vedo come diletti del Padre.
Cecilia vi insegna anche una cosa. Che per meritare di vedere Iddio bisogna
esser puri. Lo insegna a Valeriano e a voi. Io l’ho detto: “Beati i puri perché
vedranno Dio”21.

Esser puri non vuol dire esser vergini. Vi sono vergini che sono impuri, e padri
e madri che sono puri. La verginità è l’inviolatezza fisica e, dovrebbe essere,
spirituale. La purezza è la castità che dura nelle contingenze della vita. In
tutte. È puro colui che non pratica e seconda la libidine e gli appetiti della
carne. È puro colui che non trova diletto in pensieri e discorsi o spettacoli
licenziosi. È puro colui che, convinto della onnipresenza di Dio, si comporta
sempre, sia che sia con sé solo che con altri, come fosse in mezzo ad un
pubblico.

Dite: fareste in mezzo ad una piazza ciò che vi permettete di fare nella vostra
stanza? Direste ad altri, coi quali volete rimanere in alto concetto, ciò che
ruminate dentro? No. Perché su una via incorrereste nelle pene degli uomini e
presso gli uomini nel loro disprezzo. E perché allora fate diversamente con Dio?
Non vi vergognate di apparire a Lui quali porci, mentre vi vergognate di
apparire tali agli occhi degli uomini?

Valeriano vide l’angelo di Cecilia e ebbe il suo e portò a Dio Tiburzio. Lo vide
dopo che la Grazia lo rese degno, e la volontà insieme, di vedere l’angelo di
Dio. Eppure Valeriano non era vergine. Non era vergine. Ma quale merito sapersi
strappare, per un amore soprannaturale, ogni abitudine inveterata di pagano!
Grande merito in Cecilia che seppe tenere l’affetto per lo sposo in sfere tutte
spirituali, con una verginità doppiamente eroica; grande merito in Valeriano di
saper volere rinascere alla purezza dell’infanzia, per venire con bianca stola
nel mio Cielo.
I puri di cuore! Aiuola profumata e fiorita su cui trasvolano gli angeli. I
forti nella fede. Rocca su cui si alza e splende la mia Croce. Rocca di cui ogni
pietra è un cuore cementato all’altro nella comune Fede che li lega.


20 Matteo 19, 12.
21 Matteo 5, 8.


Nulla Io nego a chi sa credere e vincere la carne e le tentazioni. Come a
Cecilia, Io do vittoria a chi crede ed è puro di corpo e di pensiero.
Il Pontefice Urbano ha parlato sulla riverginizzazione delle anime attraverso la
rinascita e la permanenza in Me. Sappiatela raggiungere. Non basta esser
battezzati per essere vivi in Me. Bisogna sapervi rimanere.

Lotta assidua contro il demonio e la carne. Ma non siete soli a combatterla.
L’angelo vostro ed Io stesso siamo 22 con voi. E la terra si avvierebbe verso la
vera pace quando i primi a far pace fossero i cuori con se stessi e con Dio, con
se stessi e i fratelli, non più essendo arsi da ciò che è male e che a sempre
maggior male spinge. Come valanga che si inizia da un nulla e diviene massa
immane.
Tanto dovrei dire ai coniugi. Ma a che pro? Già ho detto 23. Né si volle capire.
Nel mondo decaduto non soltanto la verginità pare manìa ma la castità nel
coniugio, la continenza, che fa dell’uomo un Uomo e non una bestia, non è più
riputata che debolezza e menomazione.

Siete impuri e trasudate impurità. Non date nomi ai vostri mali morali. Ne hanno
tre, i sempre antichi e sempre nuovi: orgoglio, cupidigia e sensualità. Ma ora
avete raggiunto la perfezione in queste tre belve che vi sbranano e che andate
cercando con pazza bramosia.
Per i migliori ho dato questo episodio, per gli altri è inutile perché alla loro
anima sporca di corruzione non fa che muovere solletico di riso. Ma voi buoni
state fedeli. Cantate con cuore puro la vostra fede a Dio. E Dio vi consolerà
dandosi a voi come Io ho detto. Ai buoni fra i migliori darò la conoscenza
completa della conversione di Valeriano per il merito di una vergine pura e
fedele.»

22 siamo è nostra correzione da sono
23 Nei dettati del 22 marzo (pag. 195) e del 21 giugno (pag. 321).

Per altre immagini ecc..: http://gerardoms.blogspot.it/2012/11/cantantibus-organis-cecilia-virgo-in.html