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giovedì 27 giugno 2019

Gamaliele... e Saulo... e STEFANO

VOLUME X CAPITOLO 645



DCXLV. Il processo a Stefano e la sua lapidazione. Le opposte vie di Saulo e di Gamaliele alla santità. 

    7 agosto 1944.
 
 1 L'aula del Sinedrio, uguale, e per disposizione e per persone, a come era nella notte tra il giovedì e il venerdì, durante il processo di Gesù. Il Sommo Sacerdote e gli altri sono sui loro scanni. Al centro, davanti al Sommo Sacerdote, nello spazio vuoto dove, durante il processo, era Gesù, è ora Stefano.
   Egli deve aver già parlato, confessando la sua fede e testimoniando sulla vera Natura del Cristo e sulla sua Chiesa, perché il tumulto è al colmo e nella sua violenza è in tutto simile a quello che si agitava contro il Cristo nella notte fatale del tradimento e deicidio. Pugni, maledizioni, bestemmie orrende sono lanciati contro il diacono Stefano che, sotto le percosse brutali, traballa e vacilla mentre con ferocia lo stiracchiano qua e là. Ma egli conserva la sua calma e dignità. Anzi più ancora. È non solo calmo e dignitoso, ma persino beato, quasi esta­tico.

   Senza curarsi degli sputi che gli rigano il volto, né del sangue che gli scende dal naso violentemente colpito, alza, ad un certo momento, il suo volto ispirato e il suo sguardo luminoso e sorridente per affissarsi su una visione nota a lui solo. Apre poi le braccia in croce, le alza e le tende verso l'alto, come per abbracciare ciò che vede, poscia cade in ginocchio esclamando: «Ecco, io vedo aperti i Cieli, ed il Figlio dell'Uomo, Gesù, il Cristo di Dio, che voi avete ucciso, stare alla destra di Dio».
   Allora il tumulto perde quel minimo che ancora conservava di umanità e di legalità e, con la furia di una muta di lupi, di sciacalli, di belve idrofobe, tutti si slanciano sul diacono, lo mordono, lo calpestano, lo afferrano, lo rialzano sollevandolo per i capelli, lo trascinano, facendolo cadere di nuovo, facendo ostacolo con la furia alla furia, perché, nella ressa, chi cerca di strascinare fuori il martire è ostacolato da chi lo tira in altra direzione per colpirlo, per calpestarlo di nuovo.



 2 Tra i furenti più furenti vi è un giovane basso e brutto, che chiamano Saulo. La ferocia del suo volto è indescrivibile.
   In un angolo della sala sta Gamaliele. Egli non ha mai preso parte alla zuffa, né mai ha rivolto parola a Stefano né ad alcun potente. Il suo disgusto per la scena ingiusta e feroce è palese. In un altro angolo, anche lui disgustato e non partecipante al processo e alla mischia, sta Nicodemo, che guarda Gamaliele, il cui volto è di una espressione più chiara di ogni parola. Ma, ad un tratto, e precisamente quando vede per la terza volta sollevare Stefano per i capelli, Gamaliele si ammanta nel suo amplissimo mantello e si dirige verso un'uscita opposta a quella verso cui è strascinato il diacono.

   L'atto non sfugge a Saulo, che grida: «Rabbi, te ne vai?».
   Gamaliele non risponde.
   Saulo, temendo che Gamaliele non abbia capito che la domanda era diretta a lui, ripete e specifica: «Rabbi Gamaliele, ti astrai da questo giudizio?».
   Gamaliele si volge tutto d'un pezzo e, con uno sguardo terribile tanto è disgustato, altero e glaciale, risponde soltanto: «Sì». Ma è un "sì" che vale più d'un lungo discorso.
   Saulo capisce tutto quanto c'è in quel "sì" e, abbandonando la muta feroce, corre verso Gamaliele. Lo raggiunge, lo ferma e gli dice: «Non vorrai dirmi, o rabbi, che tu disapprovi la nostra condanna».
   Gamaliele non lo guarda e non gli risponde.
   Saulo incalza: «Quell'uomo è doppiamente colpevole, per aver rinnegato la Legge, seguendo un samaritano posseduto da Belzebù, e per averlo fatto dopo esser stato tuo discepolo».

   
Gamaliele continua a non guardarlo e a tacere.
   Saulo allora chiede: «Ma sei tu forse, anche tu, seguace di quel malfattore detto Gesù?».
   Gamaliele ora parla e dice: «Non lo sono ancora. Ma, se Egli era Colui che diceva, e in verità molte cose stanno a dimostrare che lo era, io prego Dio che io lo divenga».
   «Orrore!», grida Saulo.
   «Nessun orrore. Ognuno ha un'intelligenza per adoperarla e una libertà per applicarla. Ognuno dunque l'usi secondo quella libertà che Dio ha dato ad ogni uomo e quella luce che ha messo nel cuore di ognuno. I giusti, prima o poi, li useranno, questi due doni di Dio, nel bene, ed i malvagi nel male».

   E se ne va, dirigendosi verso il cortile dove è il gazofilacio, e va ad appoggiarsi contro la stessa colonna contro la quale Gesù parlò alla povera vedovache dà al Tesoro del Tempio tutto quanto ha: due piccioli.


 3 È lì da poco quando lo raggiunge nuovamente Saulo e gli si pianta davanti. Il contrasto tra i due è fortissimo.
   Gamaliele alto, di nobile portamento, bello nei tratti fortemente semitici, dalla fronte alta, dai nerissimi occhi intelligenti, penetranti, lunghi e molto incassati sotto le sopracciglia folte e diritte, ai lati del naso pure diritto, lungo e sottile, che ricorda un poco quello di Gesù. Anche il colore della pelle, la bocca dalle labbra sottili, ricordano quelle di Cristo. Solo che Gamaliele ha la barba e i baffi, un tempo nerissimi, ora molto brizzolati e più lunghi.
   Saulo invece è basso, tarchiato, quasi rachitico, con gambe corte e grosse, un poco divaricate ai ginocchi, che si vedono bene perché si è levato il manto ed ha solo una veste a tunica corta e bigiognola. Ha le braccia corte e nerborute come le gambe, collo corto e tozzo, sorreggente una testa grossa, bruna, con capelli corti e ruvidi, orecchie piuttosto sporgenti, naso camuso, labbra tumide, zigomi alti e grossi, fronte convessa, occhi scuri, piuttosto bovini, per nulla dolci e miti, ma molto intelligenti sotto le ciglia molto arcuate, folte e arruffate. Le guance sono coperte da una barba ispida come i capelli e foltissima, però tenuta corta. Forse, per causa del collo così corto, pare lievemente gobbo o con spalle molto tonde.


  4 Per un poco tace, fissando Gamaliele. Poi gli dice qualcosa sottovoce.
   Gamaliele gli risponde, con voce ben netta e forte: «Non approvo la violenza. Per nessun motivo. Da me non avrai mai approvazione ad alcun disegno violento. L'ho detto anche pubblicamente, a tutto il Sinedrio, quando furono presi, per la seconda volta, Pietro e gli altri apostoli e furono portati davanti al Sinedrio perché li giudicasse. E ripeto le stesse cose: "Se è disegno e opera degli uomini, perirà da sé; se è da Dio, non potrà essere distrutta dagli uomini, ma anzi questi potranno esser colpiti da Dio". Ricordalo».
   «Sei protettore di questi bestemmiatori seguaci del Nazareno, tu, il più grande rabbi d'Israele?».
   «Sono protettore della giustizia. E questa insegna ad essere cauti e giusti nel giudicare. Te lo ripeto. Se è cosa che viene da Dio resisterà, se no cadrà da sé. Ma io non voglio macchiarmi le mani di un sangue che non so se meriti la morte».
   «Tu, tu, fariseo e dottore, parli così? Non temi l'Altissimo?».
   «Più di te. Ma penso. 
 5 E ricordo… Tu non eri che un piccolo, non ancora figlio della Legge, ed io insegnavo già in questo Tempio con il rabbi più saggio di questo tempo… e con altri, saggi ma non giusti. La nostra saggezza ebbe, tra queste mura, una lezione che ci fece pensare per tutto il resto della vita. Gli occhi del più saggio e giusto del tempo nostro si chiusero sul ricordo di quell'ora e la sua mente sullo studio di quelle verità, udite dalle labbra di un fanciullo che si rivelava agli uomini, specie se giusti. I miei occhi hanno continuato a vigilare e la mia mente a pensare, coordinando eventi e cose… Io ho avuto il privilegio di udire l'Altissimo parlare per mezzo della bocca di un fanciullo, che fu poi uomo giusto, sapiente, potente, santo, e che fu messo a morte proprio per queste sue qualità. Le sue parole di allora hanno poi avuto conferma dai fatti accaduti molti anni dopo, all'epoca detta da Daniele… Misero me che non compresi avanti! che attesi l'ultimo terribile segno per credere, per capire! Misero popolo d'Israele che non comprese allora e non comprende neppur ora! La profezia di Daniele, e quella d'altri profeti e della Parola di Dio, continuano e si compiranno per Israele cocciuto, cieco, sordo, ingiusto, che continua a perseguitare il Messia nei suoi servi!».
   «Maledizione! Tu bestemmi! Veramente non vi sarà più salvezza per il popolo di Dio se i rabbi d'Israele bestemmiano, rinnegano Javé, il Dio vero, per esaltare e credere in un falso Messia!».
   «Non io bestemmio. Ma tutti coloro che insultarono il Nazareno e continuano a fargli spregio, spregiando i suoi seguaci. Tu sì che lo bestemmi, poiché lo odi, in Lui e nei suoi. Ma hai detto giusto dicendo che non c'è più salvezza per Israele. Ma non perché vi sono israeliti che passano nel suo gregge, ma perché Israele ha colpito Lui, a morte».
   «Mi fai orrore! Tradisci la Legge, il Tempio!».
   «Denunciami allora al Sinedrio, perché io abbia la stessa sorte di colui che sta per essere lapidato. Sarà l'inizio e il compendio felice della tua missione. E io sarò perdonato, per questo mio sacrificio, di non aver riconosciuto e compreso il Dio che passava, Salvatore e Maestro, tra noi, suoi figli e suo popolo».


 6 Saulo, con un atto d'ira, va via sgarbatamente, tornando nel cortile prospiciente all'aula del Sinedrio, cortile nel quale dura il gridio della folla esasperata contro Stefano. Saulo raggiunge gli aguzzini in questo cortile, si unisce a loro, che lo attendevano, ed esce insieme agli altri dal Tempio e poi dalle mura della città. Insulti, dileggi, percosse continuano ad esser lanciati contro il diacono, che procede già spossato, ferito, barcollante, verso il luogo del supplizio.
   Fuori delle mura vi è uno spazio incolto e sassoso, assolutamente deserto. Là giunti, i carnefici si allargano in cerchio, lasciando solo, al centro, il condannato, con le vesti lacere e sanguinante in molte parti del corpo per le ferite già ricevute. Gliele strappano prima di allontanarsi. Stefano resta con una tunichetta cortissima. Tutti si levano le vesti lunghe, rimanendo con le sole tuniche, corte come quella di Saulo, al quale affidano le vesti, dato che egli non prende parte alla lapidazione, o perché scosso dalle parole di Gamaliele, o perché si sa incapace di colpire bene.


 7 I carnefici raccolgono i grossi ciottoli e le aguzze selci, che abbondano in quel luogo, e cominciano la lapidazione.
   Stefano riceve i primi colpi rimanendo in piedi e con un sorriso di perdono sulla bocca ferita, che, un istante prima dell'inizio della lapidazione, ha gridato a Saulo, intento a raccogliere le vesti dei lapidatori: «Amico mio, ti attendo sulla via di Cristo». Al che Saulo gli aveva risposto: «Porco! Ossesso!», unendo alle ingiurie un calcio vigoroso sugli stinchi del diacono, che solo per poco non cade, e per l'urto e per il dolore.
   Dopo diversi colpi di pietra, che lo colpiscono da ogni parte, Stefano cade in ginocchio puntellandosi sulle mani ferite e, certo ricordando un episodio lontano, mormora, toccandosi le tempie e la fronte ferita: «Come Egli m'aveva predetto! La corona… I rubini… O Signore mio, Maestro, Gesù, ricevi lo spirito mio!».
   Un'altra grandine di colpi sul capo già ferito lo fanno stramazzare del tutto al suolo, che si impregna del suo sangue. Mentre si abbandona tra i sassi, sempre sotto una grandine di altre pietre, mormora spirando: «Signore… Padre… perdonali… non tener loro rancore per questo loro peccato… Non sanno quello che…». La morte gli spezza la frase tra le labbra, un estremo sussulto lo fa come raggomitolare su sé stesso, e così resta. Morto.
   I carnefici gli si avvicinano, gli lanciano addosso un'altra scarica di sassate, lo seppelliscono quasi sotto di esse. Poi si rivestono e se ne vanno, tornando al Tempio per riferire, ebbri di zelo satanico, ciò che hanno fatto.

 8 Mentre parlano col Sommo Sacerdote e altri potenti, Saulo va in cerca di Gamaliele. Non lo trova subito. Torna, acceso d'odio verso i cristiani, dai sacerdoti, parla con loro, si fa dare una pergamena col sigillo del Tempio che lo autorizza a perseguitare i cristiani. Il sangue di Stefano deve averlo reso furente come un toro che veda il rosso, o un vino generoso dato ad un alcoolizzato.
   Sta per uscire dal Tempio quando vede, sotto il portico dei Pagani, Gamaliele. Va da lui. Forse vuole iniziare una disputa o una giustificazione. Ma Gamaliele traversa il cortile, entra in una sala, chiude la porta in faccia a Saulo che, offeso e furente, esce di corsa dal Tempio per perseguitare i cristiani.
           


 9 [Dice Gesù:]
   «Mi sono manifestato molte volte e a molti, anche nelle straordinarie manifestazioni. Ma non in tutti in ugual modo la mia manifestazione operò. Possiamo vedere come ad ogni mia manifestazione corrisponda una santificazione di coloro che possedevano la buona volontà richiesta agli uomini per avere Pace, Vita, Giustizia.
   Così, nei pastori la Grazia lavorò per i trent'anni del mio nascondimento e poi fiorì con spiga santa quando fu il tempo in cui i buoni si separarono dai malvagi per seguire il Figlio di Dio, che passava per le vie del mondo gettando il suo grido d'amore per chiamare a raccolta le pecore del Gregge eterno, sparpagliate e sperdute da Satana. Presenti tra le turbe che mi seguivano, messi miei, perché, coi loro semplici e convinti racconti, bandivano il Cristo dicendo: "È Lui. Noi lo riconosciamo. Sul suo primo vagito scesero le ninna-nanne degli angeli. E a noi, dagli angeli, fu detto che avranno pace gli uomini di buona volontà. Buona volontà è il desiderio del Bene e della Verità. Seguiamolo! Seguitelo! Avremo tutti la Pace promessa dal Signore".

   Umili, ignoranti, poveri, i miei primi messi tra gli uomini si scaglionarono come scolte lungo le vie del Re d'Israele, del Re del mondo. Occhi fedeli, bocche oneste, cuori amorosi, incensieri esalanti il profumo delle loro virtù per fare meno corrotta l'aria della Terra intorno alla mia divina Persona, che s'era incarnata per loro e per tutti gli uomini, e persino ai piedi della Croce li ho trovati, dopo averli benedetti col mio sguardo lungo la via sanguinosa del Golgota, unici, con pochissimi altri, che non maledicessero fra la plebe scatenata ma che amassero, credessero, sperassero ancora, e che mi guardassero con occhi di compassione, pensando alla notte lontana del mio Natale e piangendo sull'Innocente, il cui primo sonno fu su un legno penoso e l'ultimo su un legno ancor più doloroso. Questo perché la mia manifestazione a loro, anime rette, li aveva santificati.

   E così pure avvenne ai tre Savi d'Oriente, a Simeone ed Anna nel Tempio, ad Andrea e Giovanni al Giordano, e a Pietro, Giacomo e Giovanni al Tabor, a Maria di Magdala nell'alba pasquale, agli undici perdonati sull'Uliveto, e ancor prima a Betania, del loro smarrimento… No. Giovanni, il puro, non ebbe bisogno di perdono. Fu il fedele, l'eroe, l'amante sempre. L'amore purissimo che era in lui e la sua purezza di mente, di cuore, di carne, lo preservò da ogni debolezza.


 10Gamaliele, e con lui Hillele, non erano semplici come i pastori, santi come Simeone, sapienti come i tre Savi. In lui, e nel suo maestro e parente, era il viluppo delle liane farisaiche a soffocare la luce e la libera espansione della pianta della Fede. Ma nel loro essere farisei era purità d'intenzione. Credevano di essere nel giusto e desideravano di esserlo. Lo desideravano per istinto, perché erano dei giusti, e per intelletto, perché il loro spirito gridava malcontento: "Questo pane è mescolato a troppa cenere. Dateci il pane della vera Verità".

   Gamaliele però non era forte al punto di avere il coraggio di spezzare queste liane farisaiche. L'umanità sua lo teneva ancor troppo schiavo e, con essa, le considerazioni della stima umana, del pericolo personale, del benessere famigliare. Per tutte queste cose Gamaliele non aveva saputo comprendere "il Dio che passava tra il suo popolo", né usare "quell'intelligenza e quella libertà" che Dio ha dato ad ogni uomo perché le usi per il suo bene. Solo il segno atteso per tanti anni, il segno che lo aveva atterrato e torturato con rimorsi che non cessavano più, avrebbe suscitato in lui il riconoscimento del Cristo e la mutazione del suo antico pensiero, per cui, da rabbi dell'errore — avendo gli scribi, i farisei ed i dottori corrotta l'essenza e lo spirito della Legge, soffocandone la semplice e luminosa verità, venuta da Dio, sotto cumuli di precetti umani, sovente errati, ma sempre di utilità per loro — sarebbe divenuto, dopo lunga lotta tra il suo io antico e il suo io attuale, discepolo della Verità divina.

 11Non era, del resto, stato il solo nell'essere incerto nel decidere e forte nell'agire. Anche Giuseppe d'Arimatea, e più ancora Nicodemo, non seppero mettere subito sotto i piedi le consuetudini e le liane giudaiche e abbracciare palesemente la nuova Dottrina, tanto che usavano venire dal Cristo "in occulto" per timore dei giudei, oppure costumavano incontrarlo come per caso, e per lo più nelle loro case di campagna o in quella di Betania, da Lazzaro, perché la sapevano più sicura e più temuta dai nemici del Cristo, ai quali era ben nota la protezione di Roma per il figlio di Teofilo.
   Certamente, però, sempre molto più avanti nel Bene e più coraggiosi questi rispetto a Gamaliele, al punto da osare i gesti pietosi del Venerdì Santo. Meno avanti rabbi Gamaliele.


 12Ma osservate, voi che leggete, la potenza della sua retta intenzione. Per essa la sua giustizia, umanissima, si intinge di sovrumano. Quella di Saulo, invece, si sporca di demoniaco nell'ora che lo scatenarsi del male pone lui e il suo maestro Gamaliele davanti al bivio della scelta tra il Bene e il Male, tra il giusto e l'ingiusto.
   L'albero del Bene e del Male si drizza davanti ad ogni uomo per presentargli, col più invitante e appetitoso aspetto, i suoi frutti del Male, mentre tra le fronde, con ingannevole voce di usignolo, sibila il Serpente tentatore. Sta all'uomo, creatura dotata di ragione e di un'anima datagli da Dio, saper discernere e volere il frutto buono tra i molti che buoni non sono e che dànno lesione e morte allo spirito, e quello cogliere, anche se pungente e faticoso a cogliersi, amaro a gustarsi e meschino d'aspetto. La sua metamorfosi, per cui diviene tanto più liscio e morbido al tatto, dolce al gusto, bello all'occhio, avviene solo quando, per giustizia di spirito e ragione, si sa scegliere il frutto buono e ci si è nutriti del suo succo, amaro ma santo.

   Saulo tende le mani avide al frutto del Male, dell'odio, del­l'in­giu­stizia, del delitto, e le tenderà sinché non verrà folgorato, abbattuto, fatto cieco della vista umana perché acquisti la vista sovrumana e divenga non solo giusto, ma apostolo e confessore di Colui che prima odiava e perseguitava nei suoi servi.

   Gamaliele, spezzando le liane tenaci della sua umanità e dell'ebraismo, per il nascere e fiorire del lontano seme di luce e giustizia, non solo umana ma anche sovrumana, che la mia quarta epifania — o manifestazione, che forse vi è parola più chiara e comprensibile — gli aveva posto in cuore, nel suo cuore dalle rette intenzioni, seme che egli aveva custodito e difeso con onesta affezione ed eletta sete di vederlo nascere e fiorire, tende le mani al frutto del Bene. Il suo volere ed il mio Sangue ruppero la dura scorza di quel lontano seme, che egli aveva conservato nel cuore per decenni, in quel cuore di roccia che si fendette insieme al velo del Tempio e alla terra di Gerusalemme — e che gridò il suo supremo desiderio a Me, che più non potevo udirlo con udito umano ma che ben l'udivo col mio spirito divino — là, gettato a terra ai piedi della croce. E sotto il fuoco solare delle parole apostoliche e dei discepoli migliori e la pioggia del sangue di Stefano, primo martire, quel seme mette radici, fa pianta, fiorisce e fruttifica.

   La pianta novella del suo cristianesimo, nata là dove la tragedia del Venerdì Santo aveva abbattuto, sradicato, distrutto tutte le piante ed erbe antiche. La pianta del suo nuovo cristianesimo e della sua santità nuova è nata e s'erge davanti agli occhi miei.
   Perdonato da Me, benché colpevole per non avermi compreso avanti, per la sua giustizia che non volle partecipare alla mia condanna né a quella di Stefano, il suo desiderio di divenire mio seguace, figlio della Verità, della Luce, viene benedetto anche dal Padre e dallo Spirito Santificatore, e da desiderio diviene realtà, senza bisogno di una potente e violenta folgorazione quale fu necessaria per Saulo sulla via di Damasco, per il protervo che con nessun altro mezzo avrebbe potuto esser conquistato e condotto alla Giustizia, alla Carità, alla Luce, alla Verità, alla Vita eterna e gloriosa dei Cieli».  http://www.valtortamaria.com/operamaggiore/volume/10/dcxlv-il-processo-a-stefano-e-la-sua-lapidazione-le-opposte-vie-di-saulo-e-di-gamaliele-alla-santita
AMDG et DVM

mercoledì 5 dicembre 2012

‘I Vangeli della Fede’: Un rabbino, un teppista, un diacono


‘I Vangeli della Fede’

7 agosto.
Ieri sera ho avuto una singolarissima visione 
(La visione, che qui viene narrata con qualche incertezza e discontinuità, si ritroverà trascritta con maggior sicurezza e più ordine narrativo sul quaderno n. 100, e formerà l’episodio del “Martirio di Stefano” del ciclo della “Glorificazione” della grande opera sul Vangelo) 
che sul principio mi ha lasciata proprio sbalordita.
Poi ho capito che si riferiva alle prime persecuzioni verso
i cristiani, avvenute proprio in Gerusalemme. Ma questo l’ho capito poi, quando la visione si è animata, perché sul principio non vedevo che l’interno del Tempio, e precisamente quel portico in quel cortile presso al quale è la bocca del Tesoro, quel punto, insomma, presso il quale, appoggiato a una colonna, Gesù osservava la folla nella visione della vedova che dà i due piccioli.
Alla stessa colonna, proprio alla stessa - la riconosco per la sua posizione
presso le bocche del Tesoro e la scala che immette all’altro cortile - è un
autorevole personaggio. Un fariseo certo, tale me lo denunciano la veste e il mio interno ammonitore.


È un uomo sui sessant’anni, a giudicare dall’aspetto. Dai 55 ai 60. Alto, di nobile portamento e anche bello nei tratti fortemente semitici. La fronte deve essere alta, ma non è scoperta per un bizzarro copricapo che la copre sino a quasi le sopracciglia molto folte e dritte, che ombreggiano due occhi intelligentissimi, penetranti, neri, molto lunghi di taglio e incassati ai lati di un naso che scende diritto dalla fronte, lungo, sottile, dalle narici palpitanti, lievemente curvo in basso, alla punta. Guance di un avorio carico piuttosto incavate, non per emaciazione ma per conformazione del viso. Bocca piuttosto larga, dalle labbra sottili, ma bella, ombreggiata da baffi che non ne superano gli angoli e che si mescono ad una barba tagliata quadrata, che scende
non più di tre dita dal mento; i baffi e la barba, molto ben curati, sono di una brizzolatura tanto accentuata da esser più bianca che nera, come doveva essere inizialmente e come denunciano dei rari fili di un nero fin quasi azzurrognolo tanto è morato.
Ma quello che mi colpisce è l’abito. Sulla testa ha un copricapo fatto di un telo di lino piuttosto rigido, che cinge la fronte e si chiude sulla nuca come la cuffia delle infermiere di Croce Rossa. Il lembo libero ricade, al disopra della fermatura, sul collo e giunge alle spalle. È una specie di cappuccio, insomma, ma da adattarsi di volta in volta. L’abito invece è fatto così. Sotto, una lunga (fino a terra, a coprire i piedi, che infatti non vedo) veste di lino candidissimo, molto ampia, con maniche lunghe e larghe, tenuta a posto alla vita da una ricca cintura che è tutto un gallone di ricamo e di cordoni. La veste ha degli orli ricamati come a bordura, molto ampi.
Sopra questa vi è una specie di sopraveste curiosissima. Dietro pare una pianeta da Messa: un pezzo di stoffa tutta ricamata che pende dalle spalle sin verso il ginocchio, aperta ai lati, e che sul davanti scende a V fino all’altezza di dove finisce lo sterno facendo pieghe: 3 per parte, e sullo sterno è tenuta raccolta da una targa lavorata di metallo prezioso, che pare la borchia o chiusura di una cintura preziosa, che va ad allacciarsi ai lati posteriori della pianeta (la chiamerò così) ma non strettamente: appena quel tanto da tenere tutto a posto.
Oltre questa fibbia, la pianeta scende senza più pieghe fino al ginocchio.
Questo scarabocchio [grafico] vorrebbe essere la parte davanti di questa parte dell’abito del fariseo. Non rida di me. Tutto intorno ai suoi bordi, questa singolare casacca ha dei nastrini messi così [grafico] azzurri, fitti fitti.
Questi nastri messi a frangia si ritrovano anche sui bordi di un amplissimo
mantello di stoffa morbidissima, pare quasi una seta tanto è pieghevole e lieve, deve essere lino o lana del filato più fino, ma per la candidezza direi lino. Il mantello è tanto ampio che potrebbe bastare a coprire tre persone. Ora è aperto e pende dalle spalle sino a terra, dove si ammucchia con pieghe fastose.
Il fariseo ha le mani conserte sul petto, le braccia conserte, e guarda con
severità e direi con disgusto qualche cosa. Non è sprezzante però. Direi
addolorato.

Fin qui la prima parte della visione che ho descritto al presente per maggior vivezza, anche perché è tuttora presente alla mia vista come ieri sera. Se sapesse quanto ho studiato la veste del fariseo! Potrei dire e disegnare, se fossi capace, i ghirigori della fibbia preziosa e le greche dei bordi ricamati.

In un secondo tempo ho visto venire davanti al fariseo un giovinotto, un ebreo certo, dalle caratteristiche nette, e anzi un brutto ebreo. Bassotto, tarchiato, direi quasi un poco rachitico, con gambe molto corte e grosse, un poco divaricate ai ginocchi: le vedo bene perché ha veste corta come chi si appresta a viaggiare, me lo dice il mio ammonitore... Una veste grigiognola. Braccia pure corte e nerborute, collo corto e grosso che sostiene una testa piuttosto grossa, bruna, con capelli corti e ruvidi, dalle orecchie piuttosto sporgenti, labbra tumide, naso fortemente camuso, zigomi alti e grossi, fronte convessa e alta, occhi... tutt’altro che dolci. Piuttosto bovini ma dallo sguardo duro, iracondo.
Eppure questi occhi, nerissimi sotto i cespugli di sopracciglia arruffate, sono occhi bellissimi. Fanno pensare. Non ha barba lunga, ma le guance paiono affumicate dall’ombra di una barba foltissima e che deve esser ispida come i capelli. È un uomo decisamente brutto nel corpo e nel volto. Pare persino un poco gobbo nella spalla destra. Ma pure colpisce e attira nonostante abbia aspetto brutto e cattivo.

Va di fronte al fariseo e gli dice qualcosa, con le sue grosse labbra, che io
non capisco.
Il fariseo risponde: “Non approvo la violenza. Per nessun motivo. Da me non avrai mai adesione a un disegno violento. L’ho detto anche pubblicamente”.

“Sei forse protettore di questi bestemmiatori, seguaci del Nazareno?”

“Sono protettore della giustizia. E questa insegna ad esser cauti nel giudicare. L’ho detto: ‘Se è cosa che viene da Dio resisterà, se no cadrà da sé’. Ma io non voglio macchiarmi le mani di un sangue che non so se meriti morte”.

“Tu, fariseo e dottore, parli così? Non temi l’Altissimo?”

“Più di te. Ma penso e ricordo... Tu non eri che un piccolo, non ancora figlio della Legge, ed io insegnavo in questo Tempio con il rabbino più saggio di questo tempo... E la nostra saggezza ebbe una lezione che ci fece pensare per tutto il resto della vita. Gli occhi del saggio si chiusero sul ricordo di quell’ora e la sua mente sullo studio di quella verità che si rivelava agli onesti. I miei hanno continuato a vigilare, e la mente a pensare, coordinando le cose... Io ho udito l’Altissìmo parlare dalla bocca di un fanciullo

(Gesù dodicenne fra i dottori nel Tempio: Luca 2, 41-50. Nell’analogo episodio
scritto da Maria Valtorta per l’opera sul Vangelo, si incontrano i personaggi di
Gamaliele  - il fariseo che qui parla - e di Hillel  -  il saggio rabbino
qui ricordato-).

che poi fu uomo e giusto e che fu messo a morte per esser giusto. E quelle parole hanno avuto conferma nei fatti... Misero me che non compresi avanti! Misero popolo d’Israele!”.

“Maledizione! Tu bestemmi! Non vi è più salvezza se i maestri d’Israele
bestemmiano il Dio vero”.

“Non io l’ho bestemmiato. Tutti! E lo continuavamo a bestemmiare. Giusto hai detto: non vi è più salvezza!”.

“Mi fai orrore”.

“Denunciami al Sinedrio come colui che fu lapidato. Sarà l’inizio felice della tua missione e io sarò perdonato, per il mio sacrificio, di non aver compreso il Dio che passava”.
Il brutto giovane va via sgarbatamente e la visione cessa lì. Stamane si
ripresenta nettissima alla memoria, ma con un anticipo (o antefatto)
che me la fa capire.


Vedo l’aula del Sinedrio, la stessa e messa nello stesso modo di quando accolse il mio Gesù nella notte fra il Giovedì e Venerdì. Il Sommo Sacerdote e gli altri sono sui loro scanni; al centro dell’aula, nello spazio vuoto dove era Gesù, è ora un giovane, direi sui 25 anni, alto e bello. Intorno a lui, sgherri e allievi del Sinedrio, non so se si chiamino così, ma mi paiono studenti alle dipendenze dei rabbini, perciò allievi.
Stefano deve avere già parlato (Atti d. Apostoli 7), perché il tumulto è al colmo e ha riscontro solo nella gazzarra assassina che accompagnò 1’uscita di Gesù dall’aula. Pugni, maledizioni e bestemmie sono tesi e lanciati contro il diacono Stefano e anche percosse brutali, per cui egli traballa, stiracchiato qua e là con ferocia.

Ma egli conserva calma e dignità. Più che calma, gioia. Con viso ispirato e luminoso, senza curarsi degli sputi che vengono a rigargli il viso né di un filo di sangue che scende dal naso violentemente colpito, egli alza gli occhi e sorride ad una vista nota a lui solo. Apre le braccia in croce e le tende come per un abbraccio e cade in ginocchio così, adorando ed esclamando: “Ecco, io vedo i Cieli aperti ed il Figlio dell’Uomo, Gesù Nazareno, il Cristo di Dio che voi avete ucciso, è alla destra di Dio!”

Allora la canea cessa di avere l’ultima parvenza di umanità e di legalità e, con la furia di una muta di mastini idrofobi, si scaglia sul diacono, lo morde, lo afferra, lo mette in piedi a suon di calci, lo spinge fuori a suon di pugni, tirandolo per i capelli, facendolo cadere e trascinandolo ancora, facendo ostacolo alla sua furia con la sua stessa furia, perché nella rissa chi cerca tirare il martire è ostacolato da chi lo calpesta.

Fra i più veementi e crudeli è il giovane brutto che ho visto parlare al rabbino e fariseo e che chiamano Saulo. Mi spiace per l’apostolo... ma pareva un teppista prima di esser di Cristo...

Vedo anche il fariseo e dottore il quale, uno dei pochi che non è partecipante alla zuffa, come è stato sempre silenzioso durante l’accusa e mentre è data condanna (e con lui mi pare vedere anche Nicodemo, in un angolo semi-scuro), il quale fariseo e dottore, disgustato della scena illegale e feroce, si ammanta nel suo amplissimo mantello e si dirige verso un’uscita opposta a quella verso la quale è diretta la turba dei carnefici.

La mossa non sfugge a Saulo che grida: “Rabbi, te ne vai?” e dato che l’altro mostra di non prendere per sé la domanda, Saulo specifica: “Rabbi Gamaliel, ti astrai da questo giudizio?”.
Gamaliele si volge tutto d’un pezzo e con sguardo altero e freddo risponde semplicemente: “Sì”. Ma è un “sì” che vale un intero discorso.
Saulo comprende e, lasciando la muta, corre a lui. “Non vorrai dirmi, maestro, che disapprovi la nostra condanna”.

Silenzio.

“Quell’uomo è doppiamente colpevole per aver rinnegato la Legge seguendo un samaritano posseduto da Belzebù e per averlo fatto dopo essere stato tuo allievo”.

Silenzio.

“Sei tu forse seguace del malfattore detto Gesù?”.

“Non lo sono. Ma se egli era colui che si diceva, io prego l’Altissimo che io lo divenga”.

“Orrore!”.

“Nessun orrore. Ognuno ha una intelligenza per adoperarla e una libertà per applicarla. Ognuno l’usi secondo quella libertà che Dio ha dato e quella luce che ci ha messo in cuore. I giusti l’useranno nel bene, i malvagi nel male. Addio”. E se ne va senza curarsi d’altro.

Saulo raggiunge gli aguzzini nel cortile ed esce con loro dal Tempio e dalle porte della città, sempre fra percosse e dileggi.
Fuori le mura, in uno spazio incolto e sassoso, i carnefici si allargano a
cerchio. Al centro è il condannato con le vesti lacere e già pieno di ferite
sanguinose. Tutti si levano le sopravvesti rimanendo in corte tuniche come quella di Saulo nella visione di ieri sera. Le vesti vengono date a Saulo che non prende parte alla lapidazione. Non so se perché troppo piccolo o conscio della sua incapacità di tiratore o se perché scosso dalle parole di Gamaliele.
Fatto è che Saulo resta con la veste lunga e il mantello a custodire le vesti
degli altri, i quali, a colpi di pietra (le pietre abbondano nel luogo, ciottoli
tondi e selci aguzze), finiscono il martire.

Stefano prende i primi colpi in piedi con un sorriso di perdono sulla bocca ferita. Prima, con quella bocca, ha salutato Saulo. Gli ha detto, mentre la muta si apriva a cerchio e Saulo era intento a ritirare le vesti: “Amico, io ti attendo sulla via di Cristo”. Al che Saulo aveva risposto, accompagnando gli epiteti con un calcio vigoroso: “Porco! Ossesso!”.




Poi Stefano vacilla, e sotto la grandine dei colpi cade in ginocchio dicendo: “Signore Gesù, ricevi lo spirito mio!”. Altri colpi sul capo ferito lo fanno stramazzare, e mentre cade e si adagia col capo nel suo sangue, fra i sassi, mormora spirando: “Signore, Padre,... perdonali... non tener loro rancore per il loro peccato. Non sanno quello che...”. La morte ferma la frase qui.
I carnefici lanciano un’ultima valanga di sassi sul morto, lo seppelliscono
quasi sotto questa grandinata di pietre. Si rivestono e vanno. Tornano al Tempio e i più accesi si presentano, ebbri di zelo satanico, al Sommo Sacerdote per aver carta libera a perseguitare.
Fra questi, il più acceso è Saulo. Avuta la lettera di autorizzazione - una
pergamena col sigillo del Tempio in rosso - esce. Non perde tempo. Si appresta subito al viaggio e alla persecuzione. Il sangue di Stefano gli ha fatto l’effetto del rosso a un toro e di un vino ad un demente per alcoolismo. Lo ha portato alla furia. È più brutto che mai. Mi scusi l’apostolo. Ma devo dire ciò che vedo.

Mentre attende non so chi, vede Gamaliele appoggiato alla colonna e va a lui. Ho l’impressione che Saulo fosse di quelli che non lasciavano cadere una disputa, ma con una insistenza da mosca tornasse sempre all’assalto. Nel male prima, nel bene poi.

Rivedo esattamente la scena di ieri sera, che perciò non ripeto. E null’altro.
Io non avevo riconosciuto Gamaliele, molto più vecchio del momento della disputa di Gesù fanciullo, e ora con quel copricapo che allora non aveva. Ma dico il vero. Fin da allora mi era piaciuto. Ora mi piace più ancora. Mi impone rispetto. Non so se sia morto cristiano (Nel 1951 Maria Valtorta scriverà l’episodio della conversione di Gamaliele al cristianesimo, che sarà uno degli ultimi capitoli della grande opera sul Vangelo). Ma vorrei lo fosse perché mi pare lo
meritasse. Era giusto.

Come lei vede, una visione proprio impensabile ad aversi, specie per quello che riguarda Gamaliele. Ma è così netta! Una delle più nette e insistenti. Potrei numerare persone, pietre e colpi, tanto sono esatti i particolari.
Per ora nessun commento da parte di Gesù.


Da ‘I QUADERNI’ ( 1944, 1945-50) di Maria Valtorta.


DOMINE JESU,
ACCIPE SPIRITUM MEUM,
ET NE STATUAS ILLIS HOC PECCATUM