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martedì 12 gennaio 2016

VISSE SECONDO QUESTA MASSIMA: "SPERNERE SE - SPERNERE MUNDUM - SPERNERE NULLUM - SPERNERE SPERNI"

SAN LUDOVICO BERTRAN



di Sr. M. Carla Bertaina



Il giorno di capodanno del 1526 non poteva portare migliore auspicio a Giovanni Luigi Bertràn ed alla sua degna consorte Giovanna Angela Exarch, sposata in seconde nozze, che rendendoli genitori di un Santo con la nascita del loro primogenito, Ludovico


A Valenza, rinomata città della costa orientale spagnola dove vivevano, Giovanni esercitava la professione di notaio ed era ricercato dalle principali famiglie a motivo della sua rettitudine ed abilità nel trattare le cause. Alla morte della prima moglie avrebbe voluto diventare monaco certosino entrando nella Certosa di Portacoeli, distante pochi chilometri dalla città, ma per divina ispirazione capì che doveva continuare a servire Dio come cristiano nel matrimonio e la Certosa come procuratore laico. Non si sentiva onorato dell’antico casato da cui proveniva, ma della lontana parentela con San Vincenzo Ferrer, illustre predicatore domenicano suo concittadino, vissuto un secolo e mezzo prima.


Giovanna Exarch aveva principi profondamente religiosi ed amava il raccoglimento domestico; dotata di un carattere soave e pacifico, costruì col marito una serena e cristiana vita familiare, allietando la casa con la nascita di otto figli.



Il giorno stesso della nascita Ludovico (Luìs) fu portato alla chiesa parrocchiale di Santo Stefano dove ricevette il dono della vita divina al medesimo fonte battesimale al quale era diventato figlio di Dio San Vincenzo Ferrer.



Dei suoi primissimi anni di vita si racconta che la nutrice, per calmare i suoi pianti, forse originati dalle condizioni di salute sempre precarie, lo portava in chiesa dove le sue lacrime cessavano alla vista delle statue e delle immagini sacre.



Del periodo della sua fanciullezza e prima adolescenza è conosciuto il suo desiderio di vivere col massimo impegno la sua crescita umana e spirituale: frequentava la scuola con grande diligenza ricavandone il migliore profitto e nutriva lo spirito con la preghiera prolungata, con mortificazioni e penitenze volontarie, come quella di dormire sul pavimento o su una cassapanca invece che sul letto.

Tralasciava i giochi coi compagni per avere più tempo da dedicare direttamente a Dio, senza tuttavia compromettere i suoi cordiali rapporti con loro, attratti dalla sua amabilità che scaturiva dall’umiltà sincera del suo cuore. La sua più grande gioia era partecipare alla Santa Messa e alla celebrazione dei Vespri nella chiesa di San Domenico, nella quale si recava spesso anche da solo per pregare.


Aveva per direttore spirituale un religioso dei Minimi di San Francesco da Paola, di cui seguiva con zelo i consigli e l’esempio di vita totalmente dedicata a Dio e all’amore verso il prossimo, col sacrificio di se stesso. Appena quattordicenne, col permesso dei genitori, passava spesso anche le notti ad assistere i malati che lo aspettavano come un vero angelo di conforto.



Verso i sedici anni sentì interiormente un forte impulso ad intraprendere la vita del pellegrino, a somiglianza di San Rocco che si era prodigato a servizio dei malati di peste ed aveva girato mendicando in Francia ed in Italia.



Si allontanò di mattino presto, nel cuore dell’inverno, senza avvertire i genitori, i quali non potevano spiegarsi in alcun modo la sua scomparsa e temevano per la sua incolumità. Spiegò la sua decisione con una lettera nella quale manifestava la sua convinzione di essere chiamato da Dio a quella vita raminga per espiare i suoi molti peccati e di essere tranquillo perché i genitori potevano contare sugli altri figli per il loro sostegno futuro. Il padre mandò subito dei messaggeri a cercarlo e quando essi lo raggiunsero, egli si rivolse nel suo intimo a Dio che gli diede la luce necessaria per capire che era stata sufficiente solo una prova della sua volontà di distacco dal mondo, distacco che avrebbe realizzato in futuro in altro modo.



Ritornò alla sua vita di preghiera, di studio, di opere di carità, ma ottenne dal padre il permesso di andare pellegrino al santuario di San Giacomo di Compostela e quello di vestire la talare ecclesiastica in segno della sua determinazione a consacrarsi a Dio.



Essendo morto il santo religioso che gli faceva da guida spirituale, Ludovico scelse come suo nuovo direttore il domenicano P. Lorenzo Lopez che aveva incontrato durante le conferenze che teneva agli studenti. Iniziò così a frequentare assiduamente la chiesa dei Frati Predicatori ed il convento in cui si trovava la cella, trasformata in oratorio, che era stata abitata per vent’anni da San Vincenzo Ferrer. 



Presto nel suo intimo divenne chiaro l’ideale da perseguire: entrare nella «navicella» dell’Ordine domenicano dove avrebbe potuto vivere il completo distacco dal mondo, praticare la penitenza ed attuare il sacrificio di sé per la salvezza delle anime. Chiese di esservi ammesso come postulante, ma un ostacolo imprevisto mise alla prova la perseveranza del suo desiderio: suo padre ancora una volta si spaventò all’idea di perdere quel suo primogenito di cui andava fiero ed ottenne dal priore del convento di San Domenico la promessa che non ne avrebbe accolto la domanda, convincendo invece il figlio che, a motivo della gracilità di salute, mai avrebbe potuto digiunare, flagellarsi ed astenersi dalla carne come era richiesto dall’osservanza regolare domenicana.



Ludovico soffrì profondamente per questo rifiuto, ma non cambiò intenzione: si dispose ad aspettare l’arrivo di un... nuovo priore, intensificando la preghiera e le visite al convento, dove cercava di rimanere il più a lungo possibile, talvolta anche di notte nascondendosi in qualche angolo buio della chiesa quando il fratello cooperatore ne chiudeva le porte.



Finalmente fu eletto nuovo priore il P. Giovanni Micon che, pur conoscendo la debole costituzione fisica del giovane, seppe discernere in lui i requisiti di una vera vocazione domenicana e ne accettò la domanda, dichiarandosi disposto a vestirlo del bianco abito. In attesa del giorno stabilito per la sua vestizione religiosa, il postulante ogni venerdì dopo Compieta, quando i frati dal coro passavano alla sala capitolare, si nascondeva tra le colonne del chiostro e poi restava in ginocchio dietro una finestra ad ascoltare le istruzioni e le esortazioni di quel priore dotto, santo e valente predicatore, allontanandosi poi senza essere visto per tornare a casa.




Vestì l’abito religioso a diciotto anni, il 26 agosto 1544.



Il padre, sempre contrario alla scelta dell’Ordine domenicano, scrisse al figlio una lettera per dissuaderlo dal suo proposito, ma questi rispose esprimendo ancora una volta la sua intima convinzione di essere nella via voluta per lui dal Signore. Non persuaso, il padre si recò dal priore ad esporre i suoi dubbi e così il figlio fu chiamato alla sua presenza dove dichiarò che mai avrebbe lasciato l’Ordine e che, privatamente, aveva già fatto voto di vivere e morire sotto la Regola di San Domenico.



Dopo tale dichiarazione, il notaio non si oppose più e lasciò trionfare la fede sui suoi sentimenti naturali. Anche la madre si rassegnò a quella separazione e da parte dei familiari il novizio non ebbe più lotte da sostenere. 
Ne ebbe ancora una, forte e dolorosa, all’interno del convento stesso: una calunnia, originata dalle parole di un fratello laico di Valenza, rischiò di farlo giudicare inadatto a portare l’abito religioso. Nella grave sofferenza del suo cuore, egli si rifugiò nella preghiera ed ottenne che la verità venisse in luce.



Fra Ludovico trascorse il suo anno di noviziato cercando di crescere nella perfezione di ogni virtù, di conoscere a fondo le Costituzioni dell’Ordine per osservarle fedelmente, di modellare la sua vita su quella di San Domenico e di seguire anche nei particolari la regola di vita tracciata da San Vincenzo Ferrer nel suo «Trattato della vita spirituale». Amava il silenzio per vivere nel raccoglimento e nella preghiera, si considerava il servo di tutti, meditava spesso la Passione di Gesù e i «Novissimi», seguiva interiormente la guida dello Spirito Santo che, trovandolo docile alle sue ispirazioni, sempre più lo conformava a Cristo.



Emise la Professione solenne il 27 agosto 1545, anno in cui nella Chiesa aveva inizio il Concilio Tridentino, e continuò per due anni gli impegni di religioso studente, in preparazione al Sacerdozio. 
Scrive il suo primo biografo, il P. Antist, che fu anche suo novizio: «Dalla Professione la sua vita fu austerissima. Era mortificato nel nutrirsi e nel bere. Affliggeva il suo corpo con cilici e veglie. Pregava incessantemente e parlava poco, sempre con gravità, evitando così ogni mormorazione o parola sconveniente per un religioso. Trattava volentieri di argomenti celesti. Non ricordo che abbia mai fatto burle o raccontato storielle giocose». 
Quest’ultima affermazione non significa che avesse un carattere triste o scontroso, ma semplicemente che non era portato ad un’allegria esuberante; era tanto umile e ricco di carità che tutti lo amavano e lo ammiravano.



Si riteneva sempre il meno fervoroso della comunità e trovava in ogni confratello virtù da imitare. Sentiva una speciale attrattiva per la penitenza e ne praticò con estremo rigore, senza riguardi alla sua salute, le forme esistenti nell’Ordine: veglie, digiuni, macerazioni notturne. Il suo fisico ne risentì fortemente ed i Superiori lo mandarono per un periodo in un altro convento in zona più salubre. 
Qui si conformò esattamente alle prescrizioni mediche e diede prova di esemplare obbedienza. Ritornato nel suo convento, riprese la vita di sempre, dedicando molte ore allo studio, che per lui era un’altra forma di penitenza poiché lo costringeva a lasciare la contemplazione che tanto gustava per applicare la mente e la memoria agli argomenti filosofici e teologici. Benché non ne avesse un’attitudine particolare, amò lo studio delle scienze sacre che fornirono sostanzioso alimento alla sua preghiera e alla sua futura predicazione.




Sempre di questi anni, il P. Antist scrive: «Non solo era fedele a tutti gli obblighi di ogni religioso: alla carità, alla povertà, all’obbedienza e alla castità, ma anche ad ogni benché minima prescrizione della Regola». Non fu quindi difficile ai Superiori giudicarlo pronto a ricevere il grande dono del Sacerdozio: celebrò la sua prima Messa non ancora ventiduenne, il 28 ottobre 1547, nella chiesa del convento di Valenza. Sprofondato nella consapevolezza della sua indegnità, che lo indusse per tutta la vita a coltivare in modo preminente il «santo timor di Dio», egli offrì tutto se stesso al Divin Sacerdote per essere canale di salvezza per le anime e gustò la gioia spirituale di sentirsi strettamente associato al Cristo Redentore.



Ricevette l’incarico di ridestare nei fedeli l’amore all’Eucaristia e, nell’adoperarsi a tale scopo, approfondì al massimo la devozione al Divin Sacramento, entrando in amicizia e comunione di spirito col P. Castells, riformatore della vita domenicana nella sua Provincia ed anima eminentemente eucaristica; a lui fra Ludovico ottenne, con la sua preghiera, la salvezza in un naufragio.



Nel 1548 il nostro Santo fu mandato nella cittadina di Lombay, dove era appena terminata la costruzione del «Convento della Santa Croce», che occorreva stabilire nel vero spirito di San Domenico.

Fu in questi primi mesi della sua residenza fuori Valenza che morì suo padre, ma egli poté assisterlo nell’agonia perché, avvertito da Dio con una visione durante la preghiera, ottenne il permesso di partire immediatamente per andare al suo capezzale e poté accoglierne l’estrema dichiarazione: «Figliolo, durante la mia vita mi riuscì penoso vederti domenicano, ma ora ciò costituisce per me il più grande conforto». Per ben otto anni il defunto apparve al figlio, per chiedergli suffragi affinché fosse liberato dalle pene del purgatorio. Interrogato sulla causa di così lunghe sofferenze espiative, il Santo rispose che suo padre doveva riparare peccati commessi nell’esercizio della sua professione di notaio e l’opposizione fattagli alla propria vocazione domenicana. Furono queste visioni ad imprimere in fra Ludovico il timore dei misteriosi giudizi di Dio.


A Lombay egli rimase solo un anno, perché a ventitré anni fu eletto Maestro dei novizi e tornò nel convento di Valenza. Mancava di esperienza e sicuramente non era dotto come altri padri del convento, ma fu scelto per la stima che avevano delle sue virtù.



Sentendosi indegno e inadatto a tale compito, fra Ludovico accettò l’obbedienza in spirito di fede e capì che doveva supplire all’inesperienza invocando con più insistenza l’aiuto di Dio e diventando un modello vivente di osservanza regolare, perché non sono le parole che convincono, ma gli esempi; solo essendo lui un perfetto osservante nella vita religiosa domenicana, avrebbe potuto chiedere ai novizi altrettanta esattezza nel vivere la Regola. Essendo alto l’ideale da raggiungere e grande il sacrificio richiesto alla natura con veglie, digiuni e penitenze, egli ne correggeva con severità le trasgressioni, perché provassero a loro stessi se si sentivano in grado di perseverare in tale stile di vita.




L’umiltà profonda del suo cuore — che rendeva la sua severità segno di vero amore — traspariva in ogni suo gesto, soprattutto nella riconoscenza dimostrata ai novizi che gli manifestavano, forzati dalla sua richiesta, una qualche sua imperfezione. Dopo ogni Capitolo delle colpe egli si flagellava ben più spietatamente di quanto avesse imposto ai suoi giovani, sia per riparare le colpe commesse, sia per dimostrare il suo amore a Cristo crocifisso. Le sue flagellazioni erano tali che spesso le pareti e il pavimento della cella restavano macchiati di sangue.



Nelle sue esortazioni insisteva sulla povertà e sull’obbedienza, combattendo le pur minime trasgressioni al silenzio, alla puntualità, alla perfezione della preghiera corale. Era premuroso verso i novizi che si ammalavano, voleva che le ore di ricreazione fossero trascorse in allegria, raccomandava con insistenza lo studio delle scienze sacre, indispensabile fondamento della vita domenicana. Egli stesso, ritenendo troppo manchevole la sua preparazione teologica, ottenne dal Maestro Generale il permesso di recarsi a completare i suoi studi all’Università di Salamanca, nonostante il parere contrario del priore P. Micon con tutta la comunità e la costernazione dei novizi nel vedersi abbandonati: tutti pensavano che fosse sufficiente insegnare la virtù, non la scienza! Risoluto nel suo proposito, partì per Salamanca, ma lungo il tragitto volle consultare un religioso rinomato per santità e prudenza e ne ebbe come risposta che stava allontanandosi dalla volontà di Dio per cedere ad un’illusione. Fra Ludovico chiese maggior luce nella preghiera e capì che doveva tornare sui suoi passi. A Valenza fu accolto con gran sollievo da tutti ed egli tornò serenamente al suo compito di formatore.



Nel 1556 poté assistere la mamma morente ed accompagnarla con le sue fervide preghiere all’incontro con Dio.

Nel 1557 si diffuse in Spagna la peste che subito colpì anche il convento domenicano di Valenza, per cui i frati furono distribuiti in varie parti: fra Ludovico fu mandato quale Vicario al convento di Albaida. Qui dimostrò le sue eccellenti qualità come responsabile della comunità e come apostolo della carità presso gli appestati e presso tutti i poveri che ricorrevano al convento, mantenendo la sua intensa vita interiore e di colloquio con Dio con frequenti ore di preghiera notturna. Dava fino all’ultimo quanto il convento possedeva per sovvenire i bisognosi, fiducioso nel soccorso della Provvidenza, nonostante le apprensioni dell’economo. La risposta del Cielo fu sempre generosa, tantoché il numero dei religiosi raddoppiò, senza causare maggiori difficoltà economiche.


Si dedicò con zelo alla predicazione al popolo e al ministero sacerdotale con la confessione e la direzione delle anime, ottenendo con la sua preghiera interventi miracolosi; in molte occasioni rivelò il suo spirito profetico a beneficio del prossimo. Tra i tanti prodigi operati, ricordiamo quello in cui trasformò in crocifisso la canna di un fucile puntato su di lui per vendetta da un signorotto che si era sentito offeso dall’invito del predicatore a cambiare vita; spesso nell’iconografia il Santo è rappresentato con questo simbolo.



Per non attirare l’attenzione su di sé, egli attribuiva il potere miracoloso al Rosario, alla cui devozione invitava sempre i fedeli.



Dopo tre anni, cessata la peste, tornò a Valenza e fu nuovamente incaricato di seguire i novizi, ma continuò anche la sua attività di predicatore, così fruttuosamente iniziata ad Albaida: non bastando le chiese a contenere i fedeli che desideravano ascoltarlo, egli spargeva la Parola di Dio nelle piazze.



Fu di questo periodo il contatto epistolare che ebbe con Santa Teresa d’Avila, la quale gli aveva chiesto se era nei disegni di Dio il suo piano di riforma per l’Ordine Carmelitano. Il Domenicano le scrisse: «...A nome di Dio, vi dico di intraprendere coraggiosamente la grande opera che vi si offre. Iddio stesso vi aiuterà e vi benedirà. A nome suo vi assicuro che, prima di cinquant’anni, il vostro Ordine sarà uno dei più illustri nella Chiesa di Dio».

*
Intanto per il nostro Santo si preparava un grande cambiamento di vita. L’evangelizzazione del Nuovo Mondo, che proseguiva tra gli ostacoli posti dallo sfruttamento dei conquistatori spagnoli e dalle credenze superstiziose degli indigeni, divenne un desiderio impellente del suo cuore, specialmente quando tra i suoi novizi fu ammesso un indios proveniente dalla Colombia, che non corrispondeva alla sua guida di maestro ormai esperto. Fu questo il mezzo con il quale conobbe l’estrema necessità di missionari per quelle popolazioni primitive ed intuì che avrebbe potuto anche avere l’occasione di versare il suo sangue per Cristo. Spinto da questo ardente amore di carità, supplicò intensamente Dio per conoscere la sua volontà e ritenne di aver ottenuto la risposta nell’arrivo a Valenza di due missionari domenicani autorizzati dal Maestro Generale ad arruolare nuovi religiosi come zelanti apostoli delle regioni recentemente scoperte.


Ancora una volta incontrò l’opposizione di tutti: il priore non volle dargli nulla per il viaggio e neppure la sua benedizione; i novizi e i confratelli manifestarono la loro desolazione e i loro dubbi su tale scelta; i familiari tentarono di dissuaderlo. Ma egli, sicuro della benedizione di Dio, partì a piedi per Siviglia dove si sarebbe imbarcato con un confratello, confidando nel Signore che avrebbe sorretto la sua salute cagionevole e indirizzato ogni cosa al bene delle anime da salvare.

Durante la traversata dell’Oceano si dedicò alla preghiera e all’istruzione catechistica dei marinai, che impararono ben presto a ricorrere alla sua potente intercessione presso Dio nei pericoli delle burrasche e che lo videro guarire miracolosamente il confratello, ferito gravemente alla testa dalla caduta dell’albero del vascello.


Aveva trentasei anni quando sbarcò a Cartagena e prese dimora nel convento domenicano di San Giuseppe, da dove iniziò i suoi viaggi missionari nei villaggi vicini e poi in diversi paesi dell’attuale Colombia. Con la sua predicazione, accompagnata da segni prodigiosi, riuscì ad aprire le menti di quegli indigeni alla realtà dell’esistenza di un Dio unico e provvidente e del suo Figlio Gesù morto in croce per la salvezza di tutti gli uomini. Oltre che con le guarigioni e l’avveramento di tante profezie, contribuì molto alla conversione di un gran numero di pagani il dono delle lingue, per il quale egli, che parlava spagnolo, veniva compreso dalla gente nella propria lingua locale. 


Ma, soprattutto, le conversioni furono il frutto della sua continua penitenza: fame, sete, caldo, viaggi estenuanti in mezzo ai pericoli delle foreste, erano il mezzo col quale chiedeva a Dio le anime; per loro continuava a flagellarsi, a digiunare, a pregare incessantemente. Il nemico di ogni bene, però, suscitò contro di lui insinuazioni malevole, calunnie diffamanti e veri attentati alla sua vita: due volte gli fu dato a sua insaputa del veleno, che non ebbe effetti letali per intervento divino, ma che gli causò comunque forti dolori.

Dopo sette anni di infaticabile lavoro missionario, fra Ludovico chiese al Maestro Generale di essere richiamato in patria perché la crudele tirannia dei governatori spagnoli sugli indios che tanto amava aveva turbato profondamente il suo animo; inoltre un’ispirazione soprannaturale gli aveva fatto capire che Dio lo voleva nuovamente in Europa ad infondere il suo zelo missionario in un numero maggiore di confratelli, che avrebbero continuato la sua opera nel tempo.

Sbarcò a Siviglia il 18 ottobre 1569 e subito si incamminò verso il convento di Valenza, dove fu accolto con la gioia più grande. Per un anno rimase libero da impegni particolari per poter riposare, ed egli considerò questo tempo come un anno che il Signore gli concedeva di passare in una più perfetta osservanza della Regola e tutto dedito alla preghiera e alla contemplazione. Fece amicizia con P. Nicola Factor, un francescano favorito di estasi, vero imitatore di San Francesco nella povertà, nella carità e nella vita di unione con Dio: l’uno ammirava l’altro, disprezzando se stesso.

Nell’ottobre del 1570 fu eletto priore del convento di Sant’Onofrio, che era povero, bisognoso di restauri e aggravato di debiti: sotto il suo governo non solo scomparve la miseria e furono pagati i debiti, ma si poterono attuare molti miglioramenti ed accogliere un maggior numero di frati. Come avvenne ciò? Con le sue abbondanti elemosine P. Bertràn si era reso debitore il buon Dio, il quale interveniva o con la generosità altrui o direttamente, come quando comparve sul suo tavolo la somma che il libraio gli stava chiedendo ed egli spiegò: «Prima non avevo la somma con cui pagarvi, ma il Padrone l’aveva e ora, grazie a Lui, il debito è saldato».

Naturalmente più di tutto il santo priore si preoccupava del bene spirituale della comunità e dei singoli fratelli, anche usando con discrezione il dono della chiaroveggenza soprannaturale, per cui due frati conversi ebbero a dire: «Il nostro priore è quasi cieco e sordo, passa molto tempo nella sua cella, eppure conosce tutto quanto succede...». Insisteva soprattutto sulla necessità di allontanare lo spirito mondano, evitando ogni uscita dal convento non motivata dalla predicazione o dalla carità. Egli stesso, nonostante una gamba ulcerata che gli procurava forti dolori, si affrettava a tornare tra i confratelli dopo una predicazione, anche se era già sera tardi.

Al termine del suo triennio la disciplina religiosa al Sant’Onofrio era rifiorita e le sacre funzioni erano frequentate da numerosi fedeli d’ogni ceto sociale.

Il Santo, tornando a Valenza, sperava di potersi dedicare ad una vita di silenzio e di preghiera e pensò di ritirarsi nella Certosa di Portacoeli, ma il suo amico P. Factor lo dissuase, rendendolo certo che era nei piani di Dio che continuasse a servirLo nella vita apostolica domenicana. 
Fu eletto nuovamente Maestro dei novizi, ma in tale ufficio durò poco più di un anno, perché il 15 maggio 1575, nonostante il suo palese indebolimento fisico, fu eletto priore del convento di Valenza. 

In questa responsabilità veramente onerosa, poiché la comunità era formata da oltre cento frati, egli si affidò all’aiuto di Dio e pregò San Vincenzo Ferrer che governasse lui la comunità, dichiarandosi suo «vicesuperiore». Continuò, secondo quanto gli consentivano le forze e le frequenti malattie, la predicazione al popolo, la direzione delle anime con la confessione, il soccorso generoso ai poveri e si dedicò con particolare compassione a visitare i carcerati.


Al termine del suo mandato, il 15 maggio 1578, P. Bertràn iniziò una vita di nascondimento e di preghiera, con penitenze sempre rigorose per conformarsi meglio al Dio Crocifisso ed espiare con la compunzione del cuore le proprie colpe.

Usciva dalla pace beata della sua cella per confessare, per visitare e confortare i malati, per predicare.

Prodigi, profezie e visioni celesti accompagnarono anche quest’ultimo periodo della sua vita, compreso il vaticinio della propria morte fatto nell’ottobre del 1580 al P. Pietro da Salamanca, mentre con lui andava a visitare un condannato a morte: «Padre, ricordate questo giorno, poiché tra un anno preciso io morirò!».

Il suo ultimo anno di vita fu colmo di acute sofferenze fisiche che egli accettò con eroica pazienza, e con profonda umiltà si adattò a tutti i rimedi imposti dai medici, pur conoscendone l’inutilità; solo una volta, sentendone il bisogno, chiese che gli dessero un po’ di pane, interrompendo la dieta a base di liquidi che gli avevano prescritto. Si mostrava estremamente grato ai visitatori che gli promettevano il soccorso spirituale della preghiera.
Morì, come aveva predetto, nella festa di San Dionigi, il 9 ottobre del 1581.

Il suo corpo fu conservato nella chiesa di Santo Stefano fino alla rivoluzione spagnola del 1936, quando venne distrutto.
Fu beatificato da Papa Paolo V nel 1608 e canonizzato da Papa Clemente X il 12 aprile 1671.




AMDG et BVM

giovedì 25 ottobre 2012

San Luis Bertrán, apóstol místico



Hechos de los Apóstoles en América,
José María Iraburu
San Luis Bertrán, apóstol místico
Valencia cristiana
La familia Bertrán
Entre los dominicos
Santidad en blanco y negro
Estudio y santidad
Primeros ministerios
Oración y penitencia
Discernimiento de espíritus
La llamada de América
En el Nuevo Mundo
Oración, penitencia y pobreza
Un modo suicida de evangelizar
El demonio se ve obligado a actuar directamente
Final en las Indias
El milagro de la cruz del árbol
Predicador general
Ultimo priorato
Santos amigos del santo
Muerte en el día previsto
Valencia cristiana
En el antiguo reino de Valencia, durante el siglo XVI, no escaseaban los vicios y corrupciones, y se daban también las simulaciones lamentables de los moriscos, pero había, a pesar de todo, vida cristiana floreciente, y no faltaban esas grandes luces de santidad, por las que Cristo ilumina a su pueblo.
Concretamente, por esos años nacieron o vivieron en el reino valenciano grandes santos, como el general de los jesuítas, nacido en Gandía, San Francisco de Borja (1510-1572), el beato franciscano Nicolás Factor (1520-1583), el franciscano de la eucaristía, San Pascual Bailón (1540-1592), y el beato Gaspar Bono, de la orden de los mínimos (1530-1604). Y en ese mismo tiempo tuvo Valencia como arzobispos al agustino Santo Tomás de Villanueva (1488-1555) y a San Juan de Ribera (1540-1592). En aquella Iglesia local había, pues, luces suficientes como para conocer el camino verdadero del Evangelio.
La familia Bertrán
En ese marco cristiano nació y creció San Luis Bertrán (1526-1581), cuya vida seguiremos con la ayuda del dominico Vicente Galduf Blasco. Pero comencemos por el padre del santo, Juan Luis Bertrán, que también fue un gran cristiano. Siendo niño, sufrió en un accidente graves quemaduras, y su abuela, doña Ursula Ferrer, sobrina de San Vicente Ferrer (1350-1419), pidió la intercesión de su tío celestial en favor del nietecillo, que milagrosamente quedó sano. Andando el tiempo, Juan Luis fue en Valencia notario de gran prestigio, elegido por la nobleza del reino como procurador perpetuo; pero cuando todavía joven quedó viudo, determinó retirarse a la Cartuja de Porta-Coeli. Ya de camino hacia el monasterio, San Bruno y San Vicente le salieron al paso, diciéndole que abandonara su idea y se casara de nuevo. Casó, pues, con una santa mujer, Juana Angela Eixarch, y tuvo nueve hijos, el primogénito de los cuales, Luis, nacido en 1526, había de llegar a ser santo.
La precocidad de Luis en la santidad hubiera sido muy rara en un hogar cristiano mundanizado -que han sido y son los más frecuentes-, pero no tuvo nada de extraño en un hogar tan cristiano como el de sus padres. En efecto, sabemos que siendo todavía niño comenzó a imitar a los santos de Cristo. Se entregaba, especialmente por las noches, a la oración y a la penitencia, disciplinándose y durmiendo en el suelo. Al llegar a la adolescencia se inició en dos devociones que continuó siempre: el Oficio parvo de la Virgen y la comunión diaria.
Con todo, la vida de San Luis no estuvo exenta de vacilaciones, y en no pocos casos, como iremos viendo, estuvo a punto de dar pasos en falso en asuntos bastante graves. Así por ejemplo, siendo un muchacho, decidió dejar su casa y vivir en forma mendicante, como había leído que hicieron San Alejo y San Roque. Y con la excusa de una peregrinación a Santiago, puso en práctica su plan, no sin escribir seriamente a sus padres una carta, en la que, alegando numerosas citas de la sagrada Escritura, trataba de justificar su resolución.
Pero su fuga no fue más allá de Buñol, donde fue alcanzado por un criado de su padre. Este fue un movimiento en falso, pronto corregido por el Señor. Y también estuvo a punto de equivocarse cuando, entusiasmado más tarde por la figura de San Francisco de Paula, decidió ingresar en la orden de los mínimos. Nuestro Señor Jesucristo, que no le perdía de vista, le hizo entender por uno de los religiosos mínimos, el venerable padre Ambrosio de Jesús, que no era ése su camino.
Entre los dominicos
En el siglo XV, en los duros tiempos del cisma de Aviñón, cuando los dominicos vivían el régimen mitigado de la Claustra, el beato Alvaro de Córdoba (+1430) había iniciado la congregación de la Observancia, que se había ido extendiendo por los conventos de España.
En aquellos difíciles años hubo muchos santos en la familia dominicana (Santa Catalina de Siena +1380, beato Raimundo de Capua +1399, San Vicente Ferrer +1419, beato Juan Dominici +1419, beato Andrés Abelloni +1450, San Antonino de Florencia +1459), todos ellos celosos de la observancia religiosa y apasionados por la unidad de la Iglesia.
Pues bien, la reforma de la Observancia se fue extendiendo por todos los conventos españoles, de manera que en 1502, dando fin al régimen mitigado, toda la provincia dominicana de España adoptó la estricta observancia. La reforma en España de los franciscanos que vinieron a ser llamados descalzos (1494), y ésta de los dominicos observantes (1502), tuvo un influjo decisivo en la asombrosa potencia que estas dos órdenes hermanas mendicantes mostraron en la primera evangelización de América.
Pues bien, cuando el Señor quiso llamar a Luis Beltrán con los dominicos, su gracia había hecho florecer en Valencia por aquellos años un gran convento de la Orden de Predicadores, con un centenar de frailes. Es cierto que aquel monasterio había conocido antes tiempos de relajación, pero fray Domingo de Córdoba, siendo provincial en 1531, realizó con fuerte mano una profunda reforma. Algunos frailes entonces, antes de reducirse a la observancia, prefirieron exclaustrarse. Y dos de estos religiosos apóstatas, en 1534, sorprendieron en una calle de Valencia a fray Domingo de Córdoba, que iba acompañado del prior Amador Espí, y los mataron a cuchilladas. Lo que muestra, una vez más, que la reforma de las comunidades religiosas relajadas no puede ser intentada sin vocación de mártir.
Diez años más tarde, en 1544, estando ya aquel convento dominico en la paz verdadera de un orden justo, Luis Bertrán, a pesar de que su salud era bastante precaria, tomó el hábito blanco y negro de la Orden de Predicadores. Aquella santa Orden religiosa, fundada por Santo Domingo de Guzmán en 1216, que permitía ser a un tiempo monje y apóstol -contemplata aliis tradere: transmitir a otros lo contemplado-, había de ser para siempre el muy amado camino de San Luis Bertrán. Recibió su profesión el prior fray Juan Micó (1492-1555), ilustre religioso, escritor y maestro espiritual. Este dominico fue tan santo que, en 1583, al ser trasladados sus restos junto a la tumba de San Luis Bertrán, el arzobispo San Juan de Ribera mandó abrir proceso en vistas a su posible beatificación.
Santidad en blanco y negro
Conocemos muchos detalles de la vida religiosa de San Luis Bertrán por la biografía que de él escribió su compañero, amigo y confidente fray Vicente Justiniano Antist, escritor de muchas obras, y también prior algunos años del convento de Valencia. Él nos cuenta que fray Luis «toda la vida fue recatado, y no se hallará novicio que le hiciese ventaja en llevar los ojos bajos y compuestos en el coro y refectorio, fuera y dentro de casa... Era muy austero en su vida, abstinentísimo en el comer, templado en el beber, amigo de disciplinas y cilicios y vigilias y largas oraciones». Su fisonomía, tal como la reflejó entonces un pintor valenciano, recuerda las figuras del Greco: era fray Luis un hombre alto, de cara larga y delgada, con nariz aguileña, ojos profundos y manos finas y largas.
Se diría que la constitución psicosomática de San Luis Bertrán puso en él siempre una cierta inclinación a la melancolía y al escrúpulo, y que el Señor permitió que estos rasgos deficientes perdurasen en él, hasta cierta medida, para motivación continua de su humildad y de su pura confianza en Dios, y también para estímulo de quienes siendo débiles y enfermizos, temieran no estar en condiciones de llegar a la perfecta santidad.
Varias anécdotas nos muestran esta faceta atormentada del carácter de San Luis Bertrán. Siendo maestro de novicios se retiró bruscamente de una reunión, y al amigo que le siguió, y que le encontró llorando, le dijo: «¿No tengo harto que llorar que no sé si me he de salvar?». Y a veces, como él mismo dijo en confidencia a cierta persona, «despertándose por las noches con la memoria viva de Dios y de su presencia, se había tomado a temblar y los huesos le habían crujido»...
Por el contrario, esta temerosidad ante Dios comunicaba a fray Luis un valor ilimitado ante los hombres. Como dijo de él el padre Antist, «nunca tenía cuenta de contentar a los hombres, sino a Dios y a santo Domingo». El santo temor de Dios, experimentado por él con una profundidad singularísima, poco frecuente, unido a un amor de Dios aún más grande, le dejaba exento en absoluto de todo temor a los hombres, a las fieras o a la naturaleza hostil, a las enfermedades o a lo que fuera. Su valentía, como veremos, era absoluta: no temía a nada en este mundo, pues sólo temía ofender a Dios.
Estudio y santidad
En sus primeros tiempos de religioso, no acertó fray Luis a dar a su vida una forma plenamente dominicana. Tan centrado andaba en la oración y la penitencia, que no atendía suficientemente a los libros, «porque le parecía que los estudios escolásticos eran muy distractivos». Muy pronto el Señor le sacó de esta equivocación, haciéndole advertir el engaño, y fray Luis tomó para siempre el estudioso camino sapiencial de Santo Tomás, convencido ya de que el demonio «suele despeñar en grandes errores a los que quieren volar sin alas, quiere decir, contemplar sin saber». En adelante, San Luis Bertrán, como buen dominico, unirá armoniosamente en su vida oración y penitencia, estudio y predicación.
Primeros ministerios
En 1547 fray Luis fue ordenado sacerdote. Y poco después, a la edad de veintitrés años, caso muy poco frecuente, recibió el nombramiento de maestro de novicios del convento de Valencia. La importancia de aquel ministerio era clave, pues allí se forjaban los religiosos de la provincia dominicana de Aragón. Y recuérdese, por otra parte, que en aquellos años formaban el noviciado dominicano no sólo los religiosos novicios, sino todos los profesos todavía estudiantes, que no habían sido ordenados sacerdotes. Siete veces en su vida hubo fray Luis de ser maestro de novicios, y esta faceta, la de formador y maestro espiritual, fue la más característica de su fisonomía personal.
San Luis Bertrán, débil en su naturaleza y fuerte en el Espíritu, era como maestro espiritual muy exigente, sobre todo en asuntos de humildad y de obediencia, y «con gran facilidad quitaba el hábito y devolvía sus ropas de seglar a los que no sentaban el pie llano». Sin embargo, la radicalidad profética de aquel joven maestro, su ejemplaridad absoluta, la ternura de su firme caridad, hizo que fuera muy amado por sus novicios, que a lo largo de los años formaron una verdadera escuela de fray Luis Bertrán.
También en esta fase de su vida estuvo a punto de dar un paso en falso. Doliéndose de los estragos que el luteranismo hacía por esos años, se obstinó en irse a estudiar a Salamanca «para después poder defender nuestra fe contra los herejes». Todos sus compañeros, y también el prior fray Juan Micó, trataron de disuadirle; pero él, con el permiso del padre General, logró ponerse en camino hacia el convento de San Esteban, en Salamanca. Llegado a Villaescusa de Haro, a través de un padre de mucho sentido espiritual, de nuevo el Señor le hizo ver que aquello era tentación de engaño, y que debía regresar al convento de Valencia, como así lo hizo.
Aunque la misión principal de fray Luis Bertrán fue la de maestro de novicios, también tuvo años de gobierno. A los treinta y un años fue elegido, por voto unánime, prior del convento de Santa Ana de Albaida, a cien kilómetros de Valencia, y allí mostró que, siendo tan místico y recogido, tenía capacidad para gobernar espiritualmente, gestionar asuntos, estar en todo y resolver problemas.
Concretamente, el convento de Santa Ana pasaba por una extrema pobreza, y «sin ser él pedigüeño, ni molestar a nadie, ni hacer diligencias extraordinarias para sacar dineros, ni curando de acariciar mucho la gente, antes siendo algo seco, nuestro Señor, que es el universal repartidor de las limosnas, movía los corazones de los fieles para que le socorrieran bastantemente». En especial durante la noche, pasaba muchas horas en oración, y allá resolvía todo con el Señor, también la penuria de la casa, hasta el punto de que la comunidad estuvo en situación de dar grandes limosnas a los pobres. Y así decía fray Luis: «Si mucho damos por acá (señalando la portería), más nos vuelve Dios por allá (y señalaba la iglesia)».
Oración y penitencia
San Luis Bertrán tuvo siempre su clave secreta en la oración, a la que dedicaba muchas horas. «Salía de la oración hecho un fuego, y el resplandor es una de las propiedades del fuego». Ese extraño fulgor de su rostro, del que hablan los testigos, se hacía a veces claridad impresionante al celebrar la eucaristía, o cuando venía de orar en el coro, o también al regresar de sus fugas contemplativas entre los árboles de un monte cercano. Un día del Corpus, en Santa Ana de Albaida, estuvo arrodillado ante Cristo en la eucaristía desde el amanecer hasta la noche, fuera de un momento en que salió para tomar algo de alimento.
Por otro lado, fray Luis, a pesar de su salud tan precaria -pasó enfermo casi todo el tiempo de su vida religiosa-, se entregó siempre a la penitencia con un gran empeño, que venía de su amor al Crucificado y a los pecadores. Apenas salido de una enfermedad, comenta un testigo, apenas iniciada una convalecencia, ya estaba de nuevo en sus penitencias: «No era como algunos, que si por hacer penitencia enferman, después huyen de ella extrañamente».
Dos o tres veces al día las disciplinas le hacían sangrar. Llevaba cilicio ordinariamente. Dormía, siempre vestido, sobre un banco, o en la cama si hacía mucho frío. Amargaba los alimentos para no encontrar gusto en ellos. Solía decir: «Domine hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in æternum parcas» (Señor, aquí quema, aquí corta, aquí no perdones, para que me perdones en la eternidad).
Discernimiento de espíritus
Uno de los dones espirituales más señalados en San Luis Bertrán fue la clarividencia en el trato de las almas, un discernimiento espiritual certero y pronto, por el que participaba del conocimiento que Cristo tiene de los hombres: «No tenía necesidad de que nadie diese testimonio del hombre, pues El conocía lo que en el hombre había» (Jn 2,25). Con frecuencia, en confesión o en dirección espiritual, fray Luis daba respuestas a preguntas no formuladas, corregía pecados secretos, descubría vocaciones todavía ignoradas, resolvía dudas íntimas, aseguraba las conciencias. Y en esto pasaba a veces más allá del umbral de lo natural, adentrándose en lo milagroso.
Esta cualidad llegó a ser tan patente que durante toda su vida recibió siempre consultas de religiosos y seglares, obispos, nobles o personas del pueblo sencillo. Su fama de oráculo del Señor llegaba prácticamente a toda España. Citaremos sólo un ejemplo. En 1560, teniendo fray Luis treinta y cuatro años, y estando de nuevo como maestro de novicios en Valencia, recibió carta de Santa Teresa de Jesús, en la cual la santa fundadora, al encontrar tantas y tales dificultades para su reforma del Carmelo, le consultaba, después de haberlo hecho con San Pedro de Alcántara y otros hombres santos, si su empresa era realmente obra de Dios.
Tres o cuatro meses tardó fray Luis en enviarle su respuesta, pues quiso primero encomendar bien el asunto al Señor «en mis pobres oraciones y sacrificios». La carta a Santa Teresa, que se conserva, es clara y breve: «Ahora digo en nombre del mismo Señor que os animéis para tan grande empresa, que El os ayudará y favorecerá. Y de su parte os certifico que no pasarán cincuenta años que vuestra religión no sea una de las más ilustres en la Iglesia de Dios».
La llamada de América
En 1562 llegaron de América al convento dos padres que buscaban refuerzos para la gran obra misionera que allí se estaba desarrollando. Hablaron de aquel inmenso Mundo Nuevo, de la necesidad urgente de aquellos pueblos, de las respuestas florecientes que allí estaba encontrando el Señor. Fray Luis fue el primero en inscribir su nombre. Una vez más trataron todos de disuadirle, y también el prior fray Jaime Serrano, alegando unos y otros su poca salud y la tarea que en el noviciado llevaba con tanto fruto.
Pero en esta ocasión la llamada de América era llamada del mismo Cristo. Fray Luis se persistió en su apostólico intento, y en cuanto obtuvo el permiso, se echó al camino, rumbo a Sevilla, sin cuidarse siquiera de tomar provisiones para el camino. Un hermano suyo le alcanzó en Játiva, trató en vano de persuadirle, y terminó dándole un dinero, con el que pudo adquirir un asnillo, sin el cual apenas hubiera podido continuar su viaje.
El corazón atormentado de fray Luis no le habría dejado del todo tranquilo en el camino de Sevilla, y estaría oprimido por algunos pensamientos negros: ¿Será de nuevo una tentación del demonio, para apartarme del noviciado dominico? ¿Estaré engañado, como cuando quise llevar vida mendicante de peregrino, o cuando decidí ingresar en los mínimos, o ir a estudiar a Salmanca para dedicar mi vida a la lucha intelectual contra los herejes?...
En el Nuevo Mundo
En cuaresma de 1562 partía fray Luis Bertrán de Sevilla hacia América en un galeón. Durante el viaje, un fuerte golpe que recibió por accidente en una pierna le dejó para siempre una cojera bastante pronunciada. Y cuando después de tres meses de navegación bajó del barco en Cartagena de Indias aquel fraile larguirucho, flaco y macilento, con su paso desigual y vacilante, más de uno se habría preguntado qué podría hacer aquel pobre fraile en los duros trabajos misioneros entre los indios...
Recién llegado al convento dominicano de Cartagena, comenzó allí sus ministerios pastorales ordinarios, semejantes a los que ya en Valencia había ejercido. Pero él quiso ir a la selva, a los indios. Y después de insistentes peticiones, obtuvo del prior fray Pedro Mártir permiso para hacer de vez en cuando algunas salidas. En primer lugar se buscó un intérprete, un faraute que transmitiera a los indios lo que él iba predicando.
Pero con este método apenas conseguía nada, ya que el intérprete, por ignorancia o mala voluntad, desvirtuaba su predicación. Y así, «como no sabía el santo la gracia que se le había comunicado, proseguía predicando con su intérprete, hasta que le dixeron los indios que les hablara en su propia lengua, porque en ella lo entendían mejor que en lo que dezía su intérprete». Y así lo hizo en adelante, con un fruto cada vez más copioso.
Oración, penitencia y pobreza
En las peores dificultades, el método misionero de San Luis se hacía muy simple. Cuando todo se ponía en contra, cuando fallaba su salud, cuando ya no podía más, cuando los indios no se convertían, unas cuantas horas o días de oración y de disciplinas introducían en su miserable acción la acción de Cristo, y todo iba adelante con frutos increíbles. Nunca le falló esta fórmula, que no es, por cierto, una receta mágica, sino una fórmula evangélica, directamente enseñada por el ejemplo y la enseñanza del Señor. Oración y penitencia.
Y pobreza, también enseñada por Cristo. Fray Luis se metía por campos y montes, caminos y selvas, como un pobre de Dios, «sin bolsa ni alforja» (Lc 10,4), confiado a la Providencia, a lo que le diesen para comer, y nunca quiso aceptar aquellos regalos, dinero o alimentos que muchas veces querían darle para que pudiera seguir adelante más seguro.
Un compatriota suyo, Jerónimo Cardilla, que le acompañó en este tiempo como criado, se quejaba de esto muy amargamente, pues tampoco a él le permitía recibir nada para el camino. En una ocasión, cuando esta locura evangélica les puso en riesgo muy grave, Jerónimo acusó a fray Luis sin ningún respeto: «Vos tenéis la culpa de lo que nos está pasando. Aquí moriremos de hambre, si antes una fiera no acaba con nosotros». Entonces fray Luis, como siempre, le llamó a la confianza en Dios, le recordó aquello de «los lirios y los pájaros», y llegó a «prometerle» la ayuda providencial del Señor. Al tiempo llegaron a un árbol que estaba cargado de fruta, junto a una fuente. Jerónimo confesó su culpa, comió y bebió todo cuanto quiso, y cargó sus alforjas para el camino. Fray Luis, advertido de aquello, vació las alforjas, y Jerónimo no quiso acompañarle más en sus correrías apostólicas. Ya tenía bastante. Y acabó mal unos años después, tal como fray Luis se lo había anunciado con gran pena.
La providencia del Padre celestial, siempre solícita para aquellos que de verdad se confían filialmente a su omnipotencia amorosa, le envió otro Jerónimo a fray Luis, con el que anduvo siete meses. Por él sabemos que muchas veces, especialmente los viernes, San Luis Bertrán se alejaba de él, y en un lugar apartado se disciplinaba muy duramente, orando sin cesar ante un crucifijo. Por él también conocemos que, de camino por aquellas soledades, desérticas o selváticas, no era raro que se acercaran amenazantes bestias feroces. Entonces, mientras Jerónimo quedaba paralizado de espanto, fray Luis seguía impertérrito, y bendiciendo aquellas fieras con la señal de la cruz, las dejaba mansas y sin fiereza alguna, de modo que podían seguir adelante sin peligro.
También aquí, y en otras ocasiones que veremos, se cumplían en fray Luis las palabras de Jesús a su mensajeros apostólicos: «Agarrarán serpientes en sus manos y aunque beban veneno no les hará daño» (Mc 16,18). San Luis Bertrán, tan desmedrado, no mostró jamás miedo alguno en sus aventuras apostólicas por las Indias. En realidad, no sentía en absoluto ningún temor, y más bien parecía que andaba buscando secretamente el martirio: dar su sangre en supremo testimonio por Cristo.
Un modo suicida de evangelizar
Una vez comprobadas las desconcertantes posibilidades misioneras de este santo fraile, le confían sus superiores un pueblecito situado en las estribaciones de los Andes, llamado Tubara. En aquella doctrina hay escuela e iglesia, y viven unos pocos españoles, en tanto que el núcleo principal de los indios, temerosos, no vive en el pueblo, sino en la selva, en el monte, donde en seguida va fray Luis a buscarlos. Siempre a su estilo, llega el santo fraile misionero hasta las chozas más escondidas, y no hay camino, por escarpado o peligroso que sea, que le arredre. A todas partes hace él que llegue la verdad y el amor de Cristo.
En los tres años que pasó en Tubara consiguió San Luis muchas conversiones de españoles y el bautizo de unos dos mil indios, siempre a su estilo, siempre suicida, al modo evangélico: grano de trigo que cae en tierra, muere, y da mucho fruto (Jn 12,24). Era suicida fray Luis cuando derribaba los ídolos a patadas o mandaba quemar las chozas que les servían de adoratorios. Era suicida cuando, al modo de San Juan Bautista, reprobaba públicamente a un indio muy principal, que vivía amancebado con una mujer casada.
En esta ocasión, el indio aludido le lanzó con todas sus fuerzas su macana, pero el Señor desvió el curso mortal de su trayectoria. Y se ve, pues, que San Luis Bertrán no hacía ningún caso de ese consejo que tantas veces suele darse y que también a él le habrían dado: «Tiene usted, padre, que cuidarse más». San Luis, en realidad, se cuidaba muy poco, lo mínimo exigido por la prudencia sobrenatural, y en cambio se arriesgaba mucho, muchísimo, hasta entrar de lleno en lo que para unos era locura y para otros escándalo (1Cor 1,23).
No tuvo San Luis gran cuidado de su propia vida cuando una vez, después de intentar reiteradas veces desengañar a los indios de Cepecoa y Petua, que daban culto a una arquilla que guardaba los huesos de un antiguo sacerdote, la sustrajo de noche. Llegó a saberse su acción, y un sacerdote indio, figiéndose amigo, le dio a beber un veneno mortal -el mismo veneno que había matado antes a un padre carmelita, después de unas pocas horas de atroces dolores-. Cinco días estuvo fray Luis entre la vida y la muerte, y en ellos dio claras señales de estar tan alegre como aquellos primeros apóstoles azotados, que se fueron «contentos porque habían sido dignos de padecer ultrajes por el nombre de Jesús» (Hch 5,41).
Ni siquiera le quedó a San Luis Bertrán en adelante un gran temor a los posibles brebajes tóxicos, como pareciera psicológicamente inevitable. Lo vemos en ocasiones como ésta: un cacique le dijo que creería en Cristo si era capaz de resistir un veneno que él le prepararía. Fray Luis le tomó la palabra sin vacilar: «¿Matenéis vuestra palabra de convertiros si bebo sin daño vuestro veneno?». Y obtenida la afirmativa: «Venga ese veneno y sea lo que Dios quiera». Hizo fray Luis la señal de la cruz sobre la copa y bebió de un trago aquel veneno activísimo. Y a continuación pasó a ocuparse de lo que había que hacer para bautizar unos cuantos cientos más de indios asombrados y convertidos.
En aquella primera ocasión, cuando fue envenenado por el sacerdote indio, se supo en seguida que fray Luis no había muerto bajo la acción del veneno, y más de trescientos indios se reunieron amenazadores y bien armados, dispuestos a terminar la obra iniciada por el tósigo. Dos negros que se aprestaban a defenderle, uno de ellos armado de un arcabuz, fueron apartados, y el santo salió al encuentro de la muchedumbre amenazante sólo y sin temor alguno.
Cuenta un cronista que «entonces fray Luis les predicó con más fervorosa exhortación y se convirtieron gran parte de aquellos indios; los cuales, después de ser instruídos como acostumbraba el santo, fueron por él mismo bautizados». Pero otros indios, endurecidos en su hostilidad, raptaron a Luisito, un muchacho indio bautizado por fray Luis, y lo sacrificaron como moxa a los ídolos, lo que apenó mucho al santo, pues le tenía en gran estima.
En todo caso, nada de esto terminaba con los métodos suicidas de San Luis Bertrán. Poco después, tratando de persuadir a un cacique principal, éste se resistía diciendo: «No; tu religión me gusta, pero tengo miedo a mi ídolo». Fray Luis se mostró dispuesto a terminar con este miedo. Con el cacique se dirigió al adoratorio, y allí, ante el pánico de todos, la emprendió a patadas con el dicho ídolo, hasta que el cacique y los suyos se vieron libres del temor idolátrico, y aceptaron el Evangelio.
El demonio se ve obligado a actuar directamente
Aquel fraile debilucho y sin salud se mostraba bastante más fuerte de lo que parecía a primera vista, y desde luego bastante más eficaz en el apostolado de lo que cualquier previsión humana hubiera podido pensar. Así las cosas, el demonio se vio obligado a tomar cartas directamente en el asunto. Trató de intimidarle con visiones, con golpes y con ruidos horribles, sin conseguir nada. Suscitó contra fray Luis persecuciones de los indios y de los blancos, de los malos y también de los buenos, con resultados nulos. Atentó contra su honra gravemente, levantó terribles calumnias contra su castidad, y en más de una ocasión le envió alguna mujer para que le tentase, sin conseguir de fray Luis otra cosa sino que se encerrase en la iglesia para azotarse a conciencia.
Pero quizá la peor tentación del demonio se produjo cuando un falso ermitaño le hizo llegar mensajes descorazonadores: «Os tengo que decir de parte del Señor, que os ha de persuadir a volver a Valencia, de donde jamás teníais que haber salido. Si permanecéis más tiempo aquí, no sólo será nulo vuestro trabajo, sino que peligra vuestra eterna salvación». Sólo una luz del cielo pudo salvar de esta asechanza el corazón de fray Luis, que ya por temperamento era inseguro y atormentado, y que una y otra vez se preguntaba acerca de su propia salvación. El santo, llevado a este límite, se refugió en Cristo, hizo la señal de la cruz, y el falso ermitaño huyó «dando espantosos aullidos, como de lobo».
Final en las Indias
Cuarenta y un años tenía San Luis cuando llevaba ya cinco años de apostolado en Nueva Granada. En el tiempo que le queda en América su labor misionera le hará adentrarse en las regiones más cerradas a la luz del Evangelio, en Cicapoa y Pelvato, en Cepecoa y Petua -donde, como vimos ya, sufrió aquel grave envenenamiento-, en los montes de Santa Marta, Mompoix y Tuncara, a veces en apostolado breve y de paso, y produciendo siempre unos frutos totalmente desproporcionados a su fuerza humana, pues se le ve flaco, enfermizo y cojo, los cabellos grises, los ojos casi ciegos. Lo que hizo San Luis Beltrán en su labor misionera, está claro, fue obra ante todo de Jesucristo, y a éste ha de darse la gloria y el honor por los siglos de los siglos.
Fray Luis está ya al final de su tiempo en América. Su salud, realmente, está hecha una miseria. Él, que en Valencia se confesaba más de una vez al día, ahora apenas tenía ocasión de confesar, como no fuera yendo a muchas leguas de distancia, y esto le afligía no poco, pues siendo tan seguro y certero en el discernimiento espiritual de los corazones ajenos, era, por permisión de Dios, sumamente inseguro y escrupuloso respecto de su propio corazón.
Por otra parte, siempre tuvo fray Luis graves problemas de conciencia en la atención pastoral de aquellos pecadores que eran españoles, pues con sus abusos escandalizaban gravemente a los indios paganos o recién bautizados. Podemos recordar sobre esto aquella ocasión en que San Luis asistía a un banquete ofrecido por las autoridades, y en el que participaban algunos encomenderos que él sabía crueles e injustos. En un momento dado, fray Luis «dixo a los encomenderos: ¿Quieren desengañarse de que es sangre de los indios lo que comen? Pues véanlo con sus propios ojos; y apretando entre sus mismas manos las arepas [de maíz], empezaron a destilar sangre sobre los manteles de la mesa. Asombrados, aunque no enmendados con suceso tan raro y prueba tan evidente, procuraron siempre ocultarlo todos los interesados».
Así las cosas, al final de su estancia en América, recibió una carta del obispo de Chiapas, en México, fray Bartolomé de las Casas, hermano suyo dominico. En ella le animaba a dedicarse a la conversión de los indios; «me consta que así lo hacéis con singular fruto». Y le ponía en guardia respecto de los cristianos españoles: «Lo que más quiero advertiros, y para eso principalmente os escribo, es que miréis bien cómo confesáis y absolvéis a los conquistadores y encomenderos, cuando no se contentan con los privilegios del rey y tratan tiránicamente a los naturales contra la expresa intención de su majestad».
Mucho debió angustiarle a fray Luis esta carta, que agudizaba sus propias preocupaciones morales. Y también debió pasar en esos momentos, dado su temperamento escrupuloso, muchas dudas y penas antes de llegar al convencimiento de que estaba de Dios que él pusiera fin a su labor misionera entre los indios. Sin duda que llegó a tal decisión sólamente cuando el Señor le dio conciencia moral cierta de que así convenía. Sólo entonces fray Luis pidió al padre General licencia para regresar a España, y la obtuvo. De tal modo que su último nombramiento como prior de Santa Fe quedó sin efecto.
El milagro de la cruz del árbol
San Luis Bertrán hizo innumerables milagros, tantos que hemos renunciado a relatarlos. También los hizo durante los últimos meses, sumamente fecundos, de su apostolado en América. En ellos recorrió los pueblos de Mampoix, islas de San Vicente y Santo Tomás, Tenerife y varios lugares del Nuevo Reino de Granada. Como despedida de su ministerio en América, referiremos sólamente uno de sus milagros. En la isla de San Vicente, predicando fray Luis sobre el poder salvador de la cruz, se le acercó impresionado el cacique, queriendo saber más de la virtud de la cruz. «El santo, inspirado del cielo, se arrima al tronco de un grandísimo árbol de los que coronan la plaza y, extendiendo los brazos en forma de crucifijo, graba en el árbol la forma de la cruz, de su misma estatura. Apártase después del tronco y queda la imagen de la cruz perfecta, como de medio relieve, en el árbol». El signo sagrado de la cruz de Cristo: ésta fue la huella viva que dejó San Luis Bertrán en Nueva Granada tras siete años de acción misionera.
Predicador general
En 1569 llegó fray Luis a Sevilla, y regresó al convento valenciano de Santo Domingo. Estaba macilento y demacrado, tanto que hubo de pasar una larga temporada de absoluto reposo. Pero al año y medio de su vuelta ya le nombraron prior de San Onofre por votación unánime. Y en sus tres años de priorato aquel santo fraile, alto y flaco, cojo, algo sordo y de mala vista, «mostró ser bueno no solamente para la contemplación, mas también para la acción». Con suma caridad, con un celo enérgico por la observancia, con un sentido de la pobreza y de la providencia que para algunos era locura, procuró un desconocido bienestar material y espiritual a la comunidad.
En 1574 el Capítulo dominicano de la provincia de Aragón nombró a fray Luis Bertrán predicador general, un título propio de la Orden de Predicadores. Como predicador popular recorrió toda la zona de Valencia, alargándose a la región de Castellón y también de Alicante. Normalmente hacía los caminos a pie, a no ser que la llaga crónica, que desde su viaje a América le había dejado cojo, se pusiera peor y le exigiera a veces emplear alguna cabalgadura prestada. Su predicación, sencilla y sumamente vibrante, llegaba directamente a los corazones. Solía hacerla más gráfica y conmovedora contando muchos ejemplos y refiriendo numerosas anécdotas personales, sobre todo de su apostolado en América, cosa que hacía a veces por humildad en tercera persona.
«En la predicación -testifica un contemporáneo- no era muy gracioso ni deleitaba a los oyentes, pero tenía grande espíritu y movía mucho, porque aunque no tenía la voz muy sonora, ni era tan expedito de lengua como otros, era tan grande el fervor con que hablaba, que pocos advertían aquellas faltas». Sus exhortaciones morales tenían en su predicación el vigor poderosísimo de los profetas de Dios. Desengañaba de las vanidades de esta vida: «Todo es sueño lo de esta vida». Precavía sobre la avidez de riquezas: «¿Qué pensáis que es toda la hacienda del mundo sino un poco de estiércol y basura?». Llamaba apasionadamente al amor de Dios y del prójimo, exigiendo al amor fidelidad y perseverancia: «No volváis atrás, por muchas dificultades que el demonio os ponga en el camino de Dios. Porque, donde vos faltareis, Dios suplirá». El mal ejercicio de la autoridad civil o religiosa le parecía la fuente principal de los peores males: «Por ser ellos flojos, se cometen tantas maldades. Si vos os sentís inhábil y de pocas fuerzas para regir este oficio, que no lo toméis; y si lo tenéis, dejadlo... Todos los que rigen y gobiernan están a dos dedos de dar en el abismo del infierno». Oyendo a San Luis Bertrán, sucesor de San Vicente Ferrer en tierras de Valencia, apenas era posible mantener el corazón indiferente a la Palabra divina.
San Luis, al predicar, hacía continuas citas de la Sagrada Escritura, que conocía muy bien, y como era muy estudioso, daba buen fundamento doctrinal a cuanto predicaba. «Tengo para mí -opinaba el padre Antist- que en toda esta provincia no hay religioso que tantos libros haya leído de cabo a cabo». Había reunido una biblioteca personal muy cuantiosa, como pudo comprobarse a su muerte, cuando parte de sus libros se distribuyeron entre los religiosos, y otra parte se vendió en ochocientos sueldos, que se destinaron para la biblioteca común.
Él, como maestro espiritual, «no era -sigue diciendo el padre Antist- de la condición de algunos maestros, que quieren echar tanto por el camino de la devoción, que aborrecen el estudio, como si las letras repugnasen a la santidad, o como si la ignorancia demasiada ayudase a la devoción. Antes, siempre decía que estudiásemos». Y en esto fray Luis, como en todo, daba ejemplo vivo de lo que predicaba a los otros.
Ultimo priorato
En 1575, estando de nuevo fray Luis como maestro de novicios en Valencia, fue elegido para prior del mismo convento. El se resistió cuanto pudo, alegando muchas razones: su mala salud, su mayor idoneidad para el cultivo interior de las personas que para su gobierno externo... Por otra parte, la obra reformadora de fray Domingo de Córdoba no se había cumplido totalmente, y el convento estaba necesitado todavía de urgentes rectificaciones, pues todavía algunos religiosos se resistían a la plena observancia.
Así las cosas, cuando al fin se vio obligado a aceptar el priorato por obediencia, lo primero que hizo fue fijar en la entrada de su celda prioral un letrero bien legible con la frase de San Pablo: «Si hominibus placerem, Christi servus non essem» (si quisiera agradar a los hombres, no sería siervo de Cristo; Gál 1,10).
En la celda antigua de San Vicente, ahora transformada en oratorio, puso San Luis su priorato en manos de su santo antecesor. Y a fe que San Luis -o quizá San Vicente- supo servir bien su ministerio. «Haciendo más de lo que a los otros mandaba, castigaba los defectos con gran celo». Particularmente, refiere Antist, era riguroso «con los que tenían cargos, pues si veía que tantico se descuidaban, luego les quitaba el cargo, aunque fuese dentro de ocho días. Decía que más quería ser tenido por hombre mudable, que no que Dios no fuese servido como requiere la perfección de la religión». Cuando terminó su priorato en 1578, toda aquella comunidad inmensa, con más de cien frailes, estaba unida y en paz.
Fray Luis pensó ya, llegado a la última etapa de su vida, en retirarse a la paz contemplativa de la Cartuja de Porta-Coeli, pues su afán de oración y penitencia se hacían cada vez más acuciantes, y sin embargo, aunque ya no tenía cargos de importancia, continuamente le requerían de aquí y de allá, unas veces para predicar, otras para atender consultas, aquellos llegaban a solicitar su discernimiento de espíritus o su intercesión ante Dios, y no faltaban quienes buscaban en él ciertos milagros oportunos. Era una serie interminable de requerimientos. Finalmente, el consejo de sus amigos y su amor a la Orden, le retuvieron como hijo de Santo Domingo. También en esta ocasión la Providencia divina le sujetó bajo su guía, y no permitió que diera un paso en falso.
Aún tuvo fray Luis intervenciones públicas de gran importancia, como en 1579 el sermón de autos organizado por la Inquisición acerca de los iluminados de Valencia, un grupo de pseudomísticos. En ese mismo año, a requerimiento del virrey, que había sido consultado al efecto por Felipe II, hizo un informe sobre la posible expulsión de los moriscos, en el que San Luis reconocía que en parte habían sido forzados al bautismo: «aquello no fue bien hecho y pluguiera a Dios que nunca se hiciera». El problema era gravísimo, pues los moriscos «casi todos son herejes y aun apóstatas, que es peor,... y guardan las ceremonias de Mahoma en cuanto pueden».
Recordaremos aquí uno de los remedios que propone, pues sería hoy igualmente oportuno en no pocas ocasiones: «No se administre el bautismo a los niños hijos [de moriscos], si han de vivir en casa de sus padres, porque hay evidencia moral de que serán apóstatas como ellos, y más vale que sean moros, que herejes o apóstatas». Este dictamen fue refrendado por su buen amigo San Juan de Ribera, arzobispo de Valencia, en cartas al rey.
Santos amigos del santo
Cuando el caso de los iluminados de Valencia, San Luis en su famoso sermón avisó con gran severidad que debían evitar «las pláticas de visiones en sus casas, aunque parezcan del cielo, ni arrobos, etc., por la gran perturbación y daño espiritual que pueden ocasionar a las almas». Sin embargo, el más íntimo de sus amigos, el franciscano Beato Nicolás Factor, con el que muchas veces se juntaba para hablar de temas espirituales, se caracterizó por la frecuencia y profundidad de sus éxtasis. En la celda de fray Luis, donde solían reunirse, era frecuente que, al tocar ciertos temas espirituales, fray Nicolás quedara extático en una suspensión de los sentidos que en ocasiones duraba horas. En estas ocasiones, fray Luis, que no solía tener estos arrobos contemplativos, se estaba orando en silencio, adorando al Señor, haciendo compañía a su santo hermano franciscano, hasta que éste volvía en sí.
San Luis Bertrán nunca dudó de la veracidad de tales éxtasis, y así lo declaró, como se adujo en el Proceso de beatificación de fray Nicolás. Santo varón fue éste, gran maestro en cosas espirituales, y buen escritor, como se aprecia en su breve escrito sobre Las tres vías, uno de los pocos que se conservan de él. El Beato Nicolás siempre estuvo convencido de la santidad de su amigo fray Luis. Una carta que le escribió terminaba así: «Rogad a Dios por mí, Sancte Ludovice Bertrán». Y una vez, desde el púlpito, dijo ante mucha gente: «Yo no soy santo, pero fray Luis Bertrán, sí».
Otro gran amigo de fray Luis, como veremos, fue San Juan de Ribera, que era en Valencia un arzobispo santo (1569-1611), al estilo reformador de Trento, como lo eran en Milán San Carlos Borromeo o en Lima Santo Toribio de Mogrovejo.
Muerte en el día previsto
El uno de enero de 1581 cumplió fray Luis sus cincuenta y cinco años, sabiendo que iba a morir pronto; conoció incluso la fecha: el 9 de octubre, fiesta de San Dionisio y compañeros mártires. Ese conocimiento, así consta, llegó a hacerse público en Valencia. Así por ejemplo, en los primeros meses de ese año, el prior de la Cartuja de Porta-Coeli se enteró de tal fecha por el Patriarca y por otras personas, y al volver al monasterio escribió en un papel: «Anno 1581, in festo Sancti Dionisii, moritur fr. Ludovicus Bertrandus». Selló luego el papel, y lo guardó en la caja fuerte del monasterio con el siguiente sobreescrito: «Secreto que ha de ser abierto en la fiesta de Todos los Santos del año 1581».
Todavía predicó San Luis algunos sermones importantes, pero ya no pensaba sino en morir en los brazos de Cristo. Pero tampoco entonces le dejaban tranquilo, y por su celda de moribundo pasaba una procesión interminable de visitantes, llenos de solicitud y veneración. Aún hizo algunos milagros, y uno de ellos estando en su lecho de muerte: a ruegos de su buen amigo el caballero don Juan Boil de Arenós, cuya hija doña Isabel estaba agonizando de un mal parto, consiguió con su oración volverla a la salud.
El más asiduo y devoto de sus visitantes fue el Patriarca, San Juan de Ribera, tanto que terminó por llevarse al enfermo a su casa arzobispal de Godella. Allí el arzobispo, según cuentan testigos, «le componía la cama, le acomodaba los paños de las llagas que tenía en las piernas y besábalas con profunda humildad y devoción». Según refiere el padre Antist, «él mismo le cortaba el pan y la comida. Daba también la bendición y las gracias y, en más de una ocasión, le sirvió de rodillas la bebida y aun le ponía los bocados en la boca. Acabada la cena, se estaba muchas veces el Patriarca con fray Luis hablando de cosas del espíritu en la ventana, porque el benigno padre gustaba en extremo de mirar al cielo, que, en fin, era su casa». Del contenido de aquellas altas conversaciones, sólo los ángeles de Dios guardan relación exacta.
Vuelto al convento, aún vive un mes postrado. Y cuando algunos amigos le hacen música en la celda, él esconde su rostro bañado en lágrimas bajo la sábana, pues ya presiente la bienaventuranza celestial. El 6 de octubre pregunta en qué día está, y cuando se lo dicen, hace la cuenta: «¡Oh, bendito sea Dios! ¡Aún me quedan cuatro días!». Cuando llegó el día, se volvió hacia San Juan de Ribera, su amado arzobispo: «Monseñor, despídame, que ya me muero. Dadme vuestra bendición».
Y ese día murió, justamente, el 9 de octubre de 1581, fiesta de San Dionisio y compañeros mártires. Paulo V lo beatificó en 1608, y Clemente X lo incluyó en 1671 entre los santos de Cristo y de su Iglesia.


ADVENIAT REGNUM CHRISTI 
PER MARIAM!