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venerdì 29 luglio 2016

Martirio di Otranto

22 novembre 2013

Nel bellissimo film “Mission”, padre Gabriel, il gesuita responsabile della missione tra i guaranì stanziati nel territorio dell’attuale Paraguay, dice al suo confratello Rodrigo, ex mercenario di schiavi che intende combattere con le armi i soldati portoghesi inviati a porre fine alla missione perché commercialmente concorrenziale con i traffici dei coloni portoghesi, «se è la forza a creare il diritto, non c’è posto per l’Amore di Cristo in questo mondo». La scena successiva si chiude con padre Gabriel che, attorniato dai suoi indios, va incontro alla fucileria dei portoghesi innalzando l’ostensorio con il Santissimo Sacramento, fino a quando non viene raggiunto da una fucilata e cade a terra mentre il Santissimo è significativamente raccolto da uno degli indios. Era successo che il massone marchese di Pombal, padrone della corte lusitana, con la minaccia (poi comunque messa in atto) di cacciare l’ordine di sant’Ignazio dal Portogallo e con quella dello scisma, aveva costretto il Papa a mettere fine all’esperimento delle reducciones in America Latina (1)
Le reducciones si erano sviluppate nei territori coloniali ispanici, dove erano tutelate, contro gli scalpitanti coloni spagnoli, dalle leggi della Corona, risalenti ad Isabella La Cattolica, le quali vietavano la schiavitù degli indios. Nella prima metà del settecento un trattato internazionale aveva assegnato parte di quei territori, al confine tra l’attuale Paraguay e l’attuale Brasile, al Portogallo. Nel regno portoghese la schiavitù, sia quella indiana sia quella negra, era invece pratica legale da secoli. Di lì a poco – siamo in pieno XVIII secolo – le monarchie illuminate europee avrebbero varato una serie di riforme antiecclesiali e cacciato i gesuiti, odiati dalla massoneria, ormai padrona delle corti, perché a suo tempo avevano fermato l’avanzata del protestantesimo in Europa e recuperato metà continente alla fede cattolica.
“Se è la forza a creare il diritto, non c’è posto per l’Amore di Cristo in questo mondo”! Dovremmo, in quanto cristiani, tenere sempre nei nostri pensieri questo ammonimento, perché contiene tutta la Verità dell’intera storia umana sospesa tra la salvezza e la dannazione, tra Giustizia e realpolitik, tra l’Amore salvifico di Nostro Signore e l’avidità di denaro e di potere. Se l’Amore di Cristo sembra, in apparenza, non aver posto nel mondo è anche perché troppo spesso è stato tradito proprio dai sedicenti “cristianissimi” monarchi.
Non è, però, della eroica e drammatica vicenda delle missioni gesuitiche in America Latina che voglio qui parlare ma di un’altra anteriore vicenda dalla quale trapela l’eroismo del martirio di tanta povera gente cristiana e il calcolo di potere di governi che pur si fregiavano della Croce di Cristo, a chiacchiere. Voglio parlarvi di chi, in realtà, armò la mano di Gedik Ahmed Pascià, il martirizzatore degli ottocento otrantini canonizzati dalla Chiesa.
Ma andiamo con ordine.
Partiamo da quanto le cronache ci tramandano circa il ruolo di “Cassandra” che, in quei frangenti, fu assunto da san Francesco di Paola, il quale a proposito della guerra in quel momento in corso in Toscana – vedremo poi in quale contesto era scoppiata tale guerra – così rispondeva a chi gli chiedeva quando sarebbe terminata «Oh! Non è per la Toscana, ma per questo nostro regno che dovremo temere. Io vedo il turco che tra poco porrà piede sulla nostra misera terra. Miseri noi, miseri noi …». Il santo, poi, rivolgendosi verso Otranto invitava tutti a pregare per quella “infelice città” esclamando: «Di quanti cadaveri vedo coperte le tue strade! Di quanto sangue cristiano ti vedo inondata!». Agli emissari del re di Napoli, Ferdinando I di Aragona, il santo intimava di dire al sovrano: «… che ormai è tempo di calmare lo sdegno del Signore con pronto ravvedimento: che Dio tiene alzata la sua destra per colpirlo; che si valesse del tempo concessogli per evitare il castigo. L’armata dei turchi minaccia l’Italia, ma più da vicino il suo regno: ritirasse le soldatesche dalla Toscana, non curasse l’altrui mentre trattasi di difendere il proprio».
Il re tuttavia, come i sovrani ebrei a cospetto dei profeti biblici, non diede alcuna importanza alle ammonizione del santo calabrese. Re Ferrante, come era denominato Ferdinando I, era un abile tessitore di alleanze volte a contendere l’egemonia sul mediterraneo alla Serenissima Repubblica di Venezia. La quale, a sua volta, voleva fermare l’emergente potere aragonese. Questo contrasto veneziano-napoletano aveva per scenario il confronto all’epoca in corso tra l’Impero Ottomano e gli Stati europei, ormai sulla strada del passaggio dalla tramontante Res Publica Christiana all’Europa delle monarchie nazionali che sarà consacrata poi a Westfalia nel 1648.
Un avvenimento di portata epocale si era verificato nel 1453: i turchi ottomani, guidati dal sultano Maometto II, avevano posto fine all’Impero Romano. Sì, all’Impero Romano! Noi siamo abituati a datare la fine di Roma antica al 476 d. Cr.. In realtà, Bisanzio, ovvero Costantinopoli, la città capitale dell’oriente romano, fu non l’erede ma la continuatrice legittima di Roma, come ben sapeva un Carlo Magno che, dopo la notte di Natale dell’anno 800, cercò in tutti i modi di stabilire rapporti cordiali e di alleanza con l’Impero d’Oriente del quale, evidentemente, riconosceva l’Autorità e dal quale sperava una legittimazione, che non arrivò mai in termini palesi, del suo nuovo Impero occidentale. L’Impero bizantino, dunque, era – senza soluzioni di continuità – la pars Orientis dell’impero romano come ridefinito dalla riforma teodosiana del 395. Ed ecco perché è possibile affermare che i turchi nel maggio 1453 posero fine all’Impero romano.
La caduta di Costantinopoli provocò nel mondo cristiano un’ondata di paura che ben presto si vestì di immagini apocalittiche rinfocolando le mai sopite pulsioni millenaristiche. Ci fu una nuova esplosione delle antiche profezie medioevali che associavano la caduta di Roma alla imminente comparsa dell’Anticristo ed alla fine dei tempi. Papa Nicolò V, il 30 settembre 1453, chiamò i popoli cristiani alla “crociata” indicando in Maometto II un precursore dell’Anticristo. Non senza effetti: la secolare guerra dei cent’anni tra Inghilterra e Francia venne chiusa per far fronte al pericolo comune mentre in Italia veniva stipulata nel 1454 la “Pace di Lodi” con la quale si pose termine alle endemiche guerre tra Stati italiani. Un “equilibrio”, questo nato con la Pace di Lodi, che durò sostanzialmente fino allo sconquasso provocato nel 1796-99 dai francesi invasori. Ancora una volta veniva riconfermata l’antica regola della politica, che più tardi Carl Schmitt chiamò dell’“amico/nemico”, e che sancisce il costituirsi delle alleanze politiche in funzione di un comune nemico, sicché l’amicizia sarebbe fondata sull’inimicizia e la sussistenza di un nemico sarebbe il presupposto sempre necessario della convivenza tra gli uomini. Una regola – diciamolo chiaramente – post-adamitica e nient’affatto originaria. Infatti essa è del tutto incompatibile con la concezione cristiana della convivenza originariamente fondata sull’amicizia e sul bene comune ma guastata dal peccato ossia, appunto, dal comparire nella storia umana, proprio a causa del peccato, dell’inimicizia.
Ma, al di là della “crociata” bandita dal Papa e delle visioni apocalittiche che fomentavano la paura in Europa, ben altre concrete preoccupazioni avevano gli Stati europei. L’emergente potenza ottomana ora controllava, da Costantinopoli, gli stretti e tutto il mediterraneo orientale. Minacciava così gli interessi commerciali genovesi e veneziani che sulla rotta tra il mar Nero ed il mar Egeo avevano creato una fitta rete di mercati sotto il benestare bizantino. Il subentrare del potere turco a quello bizantino non solo metteva in crisi il dominio veneziano-genovese ma poneva anche le basi di una crisi economica e di nuove carestie dal momento che il frumento arrivava in Europa occidentale dalla Crimea sulle galee di Venezia e di Genova.
Il comparire della potenza ottomana sullo scenario geopolitico europeo-mediterraneo aveva sconvolto diversi consolidati equilibri. Gli ottomani premevano ormai sui Balcani e sull’Adriatico. Fermati solo provvisoriamente a Belgrado si affacciarono ben presto di fronte alla stessa Venezia e poi a Vienna. Lo stesso regno aragonese di Napoli era terribilmente esposto a questa pressione e le sue coste continua preda di incursioni “prendi e fuggi” dei pirati turchi. Tutto questo alimentava l’impressione di una imminente invasione turca dell’intera Europa. Oggi gli storici sanno molto bene che, sia per carenze tecnologiche (i turchi acquistavano tecnologia militare, e persino le prestazioni degli ingegneri, dall’Europa, non essendo in grado di produrla in proprio) sia per le lotte intestine che dilaniavano la corte della Sublime Porta, un’invasione continentale era del tutto fuori dalla portata delle possibilità ottomane. Ma, in quei tempi, l’impressione era quella ed essa giocava il suo ruolo politico.
Del resto, la Cristianità occidentale iniziava a pagare la cambiale firmata qualche secolo prima ai danni del Sacro Romano Impero. Venuto meno quest’ultimo, ormai poco più che un regno germanico-danubiano, a causa delle spinte centrifughe delle embrionali monarchie nazionali e regionali, era venuto meno anche l’universalismo politico medioevale e questo aveva indebolito l’Europa. Come conseguenza del ritrarsi del Potere imperiale anche l’Auctoritas, ossia il potere indiretto, del Papa, subì un ridimensionamento. Nel XV secolo il Papa poteva tutt’al più ambire alla simbolica funzione di “presidente” di questa o quella lega di regni cristiani. Nulla, però, di veramente decisivo. Tuttavia i Papi di quell’epoca cercarono perlomeno di far funzionare queste “Leghe Sante” per tentare – impresa davvero disperata per molti versi – di tenere uniti i regni cristiani. In tal senso, il bandire nuove “crociate”, impossibili nel nuovo quadro storico e politico, come anche il soffiare sulle ansie millenaristiche poteva servire allo scopo. Pio II arrivò persino a scrivere una lettera – forse mai recapitata – nella quale, parlando a nuora affinché suocera intendesse, prometteva al sultano, se solo si fosse battezzato, la corona imperiale, della quale a suo giudizio nessun principe cristiano si dimostrava degno.
Abbiamo parlato di impresa disperata perché gli interessi politici, geopolitici ed economici dei regni cristiani erano divergenti. Mettere insieme le mire del re d’Ungheria e del re di Francia o quelle di Venezia e di Napoli era davvero una impresa disperata. Per capire come possa essere difficile comporre dissidi interni anche di fronte ad un comune pericolo esterno, bisogna tener presente che la regola dell’amico-nemico va sempre a braccetto con quell’altra che sancisce che “il nemico del mio nemico è mio potenziale amico”. Alla luce di questa seconda regola è possibile spiegarsi come mai ben presto, passato il primo momento di allarme di fronte alla caduta di Costantinopoli, gli Stati europei avevano iniziato a capire che se, da un lato, i turchi rappresentavano certamente un comune pericolo, dall’altro si prestavano benissimo a diventare il pretesto per ridisegnare tra loro alleanze intese a far passare, dietro l’alibi della “crociata contro il Turco”, i propri interessi nazionali contro quelli dei vicini. Dietro l’ipocrisia ufficiale – quella che faceva finta di rispondere alla chiamata del Papa in difesa della fede cristiana – in realtà si giocavano partite geopolitiche immonde tra gli stessi regni cristiani. E’ noto che la Francia, in barba agli Asburgo, simpatizzasse, con concreti rapporti commerciali, con la Sublime Porta. Il sultano, d’altro canto alle prese con le lotte intestine al suo impero, che sconvolgevano la sua stessa corte, e con la pressione esterna, in oriente, degli altri potentati islamici, conosceva molto bene i machiavellismi delle cancellerie e delle corti europee. Maometto II, ricevendo gli ambasciatori di quelle stesse potenze cristiane i cui sovrani erano esperti nel prodigarsi retorico al richiamo alla “crociata”, in apparente risposta all’appello dei Papi, si divertiva ad inserirsi, pro domo sua, in quel sottile gioco diplomatico in atto tra i regni europei. Al sultano, insomma, non dispiaceva di far la parte del “cattivo” o dell’“alleato segreto” purché il suo controllo sul Mediterraneo orientale e sui Balcani, perché a questo egli realisticamente mirava, fosse consolidato.
«La crociata – è stato argutamente osservato – nell’Europa del secondo Quattrocento era come l’antifascismo nell’Europa del secondo Novecento: tutti ne parlavano, tutti erano d’accordo, ciascuno cercava di farla coincidere con i propri interessi e di accusare gli altri di non servire con altrettanta energia tale nobile ideale, nessuno o quasi ci credeva sul serio e quasi tutti erano pronti a tradirla alla prima redditizia occasione. In fondo, che Venezia fosse minacciata dal Turco non dispiaceva affatto né al re di Napoli, né al duca di Milano; e il re di Francia non chiedeva di meglio che gli ottomani se la prendessero con gli interessi oltremarini di Genova in modo da poter esser pronto a difendere il prestigioso porto ligure che da decenni ambiva, in contrasto con il duca di Milano, a sottomettere. Con tali premesse, e in un tale contesto, era chiaro che alternando sapientemente la guerra alla diplomazia il sultano poteva tranquillamente giocare le potenze cristiane: ed è quanto fece. Peraltro, Maometto II era un politico troppo realista e intelligente per puntare davvero a conquistare l’Europa e a sottomettere all’islam i popoli cristiani. Gli conveniva però che così si temesse, o si fingesse di temere. Il pericolo, ad ogni modo, era costante e reale. Fermati per miracolo davanti a Belgrado nel 1456, gli ottomani alternavano la minaccia navale attraverso l’Egeo, lo Ionio e l’Adriatico, a quella terrestre lungo la via del Danubio. Nel 1469 c’erano state incursioni in Carniola, Stiria e Carinzia, destinate a diventar periodiche: nel 1470 i turchi avevano occupato l’isola veneziana di Negroponte; nel ’77 e nel ’78 le loro incursioni avevano toccato il Friuli. La pressione era così forte che i veneziani, i quali da circa un quindicennio erano in guerra aperta con il sultano sobbarcandosi quasi da soli il compito di aiutare gli ungheresi di Mattia Corvino – sostenuto peraltro nella sua guerra anche dal danaro della Curia pontificia – e gli albanesi che comunque, da ormai un decennio, erano privi della guida del loro eroe Scander Beg, alla fine chiesero e ottennero dal sultano una pace, siglata appunto nel 1479» (2).
Ma vi erano altre motivazioni che spingevano Venezia a cercare una tregua con il sultano ottomano. E per comprenderle è necessario inquadrare la conquista mussulmana di Otranto in un progetto elaborato dagli ottomani ed inteso al controllo navale del canale che prende appunto nome dalla cittadina pugliese.
Il 28 luglio 1480 Otranto veniva assediata dalla flotta turca alla guida della quale vi era Gedik Ahmed Pascià, grande ammiraglio della Sublime Porta. Gli aragonesi abbandonarono la città senza combattere sicché l’11 agosto i musulmani entrarono nella città disperatamente difesa dai soli otrantini. Ne seguì un massacro indiscriminato di tre giorni e tra i caduti si annoverò anche il vescovo Stefano Pendinelli che fu ucciso nella cattedrale. Le cronache raccontano che il 14 agosto Ahmed Pascià fece riunire i superstiti di sesso maschile ed in età adulta, ossia per i canoni dell’epoca dai quindici anni in sù. Erano pressappoco ottocento anime alle quali fu posta la scelta tra l’apostasia e la decapitazione. Pare che la risposta arrivò da un vecchio conciatore di lana, tal Antonio Primaldo: «Fin qui – egli disse – ci siamo battuti per la patria e per salvare i nostri beni e la vita: ora bisogna battersi per Gesù Cristo e per salvare le nostre anime». Furono tutti decapitati a gruppi cinquanta ed i loro corpi furono lasciati insepolti per un anno fino al 15 agosto del 1481, quando la città fu ripresa dai cristiani e si seppellirono con tutti gli onori i loro resti mortali. La beatificazione fu pronunciata nel 1771. Nel 1983 sono stati proclamati santi.
Dal punto di vista coranico la martirizzazione degli otrantini era un misfatto. Il Corano infatti distingue tra la “gente del Libro”, ossia ebrei e cristiani, ed i “pagani”, ossia tutti gli altri. I primi, in quanto abramitici, secondo i precetti islamici, conoscono il vero Dio e pertanto non possono essere convertiti con la forza, benché devono essere sottomessi al governo islamico. I pagani invece devono essere combattuti senza tregua. Quindi l’alternativa posta agli otrantini tra la conversione e la morte era coranicamente illegittima. Essa poteva essere imposta solo ai pagani ma non alla “gente del Libro”. Quindi Ahmed Pascià infranse i precetti coranici perché trattò dei cristiani come fossero pagani. Lo scarto tra la precettistica e la sua effettiva applicazione, del resto, è una cosa nota anche al mondo cristiano. Sicché se conversioni forzate di cristiani all’islam sono state storicamente registrate, insieme a duri maltrattamenti, dalla Spagna fino alla Persia ed all’India, abbiamo episodi analoghi di conversioni forzate, anche queste illegittime perché contrarie all’Amore di Cristo che vuole la conversione del cuore e non la sua costrizione, di islamici ed ebrei al Cristianesimo durante la prima crociata del 1096-99 come anche nel corso della Reconquista iberica. Anche gli ebrei, quando hanno potuto non si sono dimostrati da meno. Come ad esempio nell’VIII secolo quando, a seguito della conversione all’ebraismo dei Kazhari, un popolo caucasico dal quale discende il ramo askenazita dell’ebraismo attuale, si installò presso la corte del monarca kazaro un sinedrio che per prima cosa mise fuorilegge la fede cristiana e recluse i cristiani nei loro quartieri trasformati in ghetti. I Turchi, oltretutto, provenienti dalle steppe dell’area centrale del continente asiatico, erano giunti tardi alla fede islamica e come accade a tutti i neofiti, di qualsiasi religione, si dimostrarono particolarmente zelanti e quindi eccessivamente rigoristi. Senza, poi, dimenticare che spesso i comandanti, fossero islamici o cristiani, dovevano fare i conti con le aspettative di bottino che le truppe nutrono ad ogni conquista.
Tornando al problema geopolitico del basso Adriatico, la base ottomana stanziatasi nel 1480 ad Otranto parve subito come l’inizio di un progetto più ampio che probabilmente contemplava la conquista dell’intera Puglia meridionale. Infatti, fra il 1480 ed il 1481, da Otranto, ormai saldamente in mano ottomana, partirono una serie di incursioni corsare turche alla volta di Taranto, Brindisi e Lecce. L’intenzione di Maometto II, e del suo gran visir, di creare una base ottomana sulle coste pugliesi, allo scopo di controllare i traffici marini e commerciali sul canale che unisce il mar Adriatico e lo Jonio, era evidente. Venezia sarebbe rimasta prigioniera nel suo stesso mare. D’altro canto la Serenissima era in conflitto con gli aragonesi di Napoli proprio sulla questione del controllo dello sbocco adriatico al mediterraneo e per questo si opponeva alle ambizioni che il re di Napoli aveva circa l’estensione del suo dominio indiretto a tutta la penisola italiana attraverso accorte alleanze e qualche ampliamento dei suoi territori. Per Venezia era questione di vita o di morte. Doveva necessariamente combattere o allearsi con chi deteneva o ambiva a detenere il controllo del canale tra Adriatico e Jonio.
Conosciamo, dalle stesse fonti veneziani, dunque da insospettabili “confessioni”, che il rappresentante della Serenissima a Costantinopoli, ora Istanbul, Andrea Gritti, fu incaricato di una ambasceria presso il sultano per informarlo che Venezia non si sarebbe affatto opposta all’eventualità di una conquista ottomana della Puglia. Quei territori erano appartenuti a Bisanzio e pertanto, così Venezia solleticava la Sublime Porta, potevano essere ora rivendicati da Istanbul.
Venezia non era però da sola in questa ricerca di una cordiale intesa con l’Impero Ottomano. Anche la Firenze di Lorenzo il Magnifico aveva tutto l’interesse a stabilire buoni rapporti con la Sublime Porta. Da tempo tra Maometto II e Lorenzo de’ Medici sussisteva una certa cordialità. Firenze aveva inviato ad Istanbul i suoi artisti – gli incisori toscani coniarono una serie di medaglie commemorative delle vittorie asiatiche del Gran Sultano – ed il sultano ricambiò facendo arrestare, e deportare a Firenze, Bernardo Bandini, uno dei congiurati che avevano attentato alla vita del Magnifico, uccidendone il fratello Giuliano, in quella che fu chiamata la “congiura dei Pazzi”.
In questo quadro politico, una chiave di comprensione per capire l’assalto ottomano ad Otranto sta, più che nei progetti del sultano di conquista delle Puglie, che pur contribuiscono a spiegarlo, nelle trame diplomatiche che dividevano i “cristianissimi” sovrani italiani del tempo ed in particolare nel contrasto di interessi che abbiamo visto sussisteva tra la volontà egemonica sull’intera Italia nutrita dal re di Napoli e quella di Venezia sull’Adriatico conteso proprio agli aragonesi. La già citata “congiura dei Pazzi” a Firenze, a sua volta un episodio della lotta interna al mondo cristiano italico, è poi l’elemento che fa chiarezza anche sul ruolo del Papa, ossia di Sisto IV, al secolo Francesco della Rovere, salito al soglio di Pietro nel 1471. La guerra di Toscana, della quale, come abbiamo visto, si lamentava San Francesco di Paola, era nata dal contrasto che vedeva Roma e Napoli alleate contro Firenze. La Toscana era una terra, in quel momento, sorretta da un instabile equilibrio politico. Siena, timorosa della potenza sempre più crescente della sua vicina e temendo per la propria indipendenza, osteggiava l’espansionismo mediceo ed aveva accolto i fuoriusciti fiorentini contrari al governo della dinastia bancaria dei Medici. Ferdinando I d’Aragona, dal canto suo, sosteneva la politica antifiorentina dei senesi. Papa Sisto IV mirava ad abbattere, con l’aiuto degli oppositori dei Medici ancora forti nell’aristocrazia fiorentina, il governo mediceo per installare a Firenze quello del nipote Girolamo Riario. Quest’ultimo aveva un vecchio conto da regolare con Lorenzo il Magnifico che aveva fatto, a suo tempo, fallire il suo tentativo di fondare una signoria ad Imola.
Queste furono le premesse della congiura detta dei Pazzi dal nome dei componenti della ricca famiglia che in Firenze contendeva la signoria ai Medici. La congiura, come noto, fallì e la repressione contro i congiurati, che coinvolse anche il clero fiorentino, fu feroce. A quel punto il Papa scomunicò il Magnifico e gettò l’interdetto contro Firenze, riunendo in una “lega” il regno di Napoli, la repubblica di Siena ed il signore del Montefeltro, Federico. Firenze trovò dalla sua parte Venezia e Milano che da nemiche avevano messo da parte gli antichi contrasti di fronte al comune pericolo dell’espansionismo aragonese-napoletano. Tuttavia la situazione si mise male per Lorenzo. Se il re di Francia aveva fatto sapere che si rifiutava di sostenere economicamente la guerra del Papa in Toscana perché si trattava di una guerra contro i cristiani – ma in realtà al sovrano d’oltralpe interessava solo risparmiare denaro ed uomini visto che poi lui per primo trescava con la Sublime Porta – invece Milano, alle prese con i suoi problemi interni, e Venezia, ancora impegnata a fronteggiare i turchi sotto casa, non potevano intervenire direttamente in terra Toscana. Firenze era rimasta sola a fronteggiare le truppe papali-senesi-napoletane. Ed oltretutto su di essa e su Lorenzo era caduto l’interdetto pontificio e l’accusa di impedire l’unità dei cristiani contro il pericolo turco alle porte. Il comandante dell’esercito fiorentino era il duca di Ferrara, Ercole d’Este, imparentato, in quanto genero, proprio con Ferdinando I re di Napoli, quindi visto con sospetto dal Magnifico.
La guerra in Toscana, dunque, si era messa molto male per Lorenzo. Per rompere l’accerchiamento il Magnifico ricorse alla diplomazia e riuscì a convincere Ferdinando che rischiava grosso a legarsi troppo alla politica di Sisto IV ormai anziano. Nessuno poteva dare garanzie al re di Napoli che il successivo Pontefice avrebbe continuato nella politica, mossa da motivi nepotistici, di Sisto IV. Si giunse così, il 25 marzo 1480, ad un patto di pace tra Firenze e Napoli. Questo fatto causò a sua volta un riavvicinamento della Serenissima al Papa. Venezia, infatti, non poteva guardare di buon occhio chiunque non si opponesse al re di Napoli, come aveva ora mostrato di fare Lorenzo il Magnifico. Persino il re di Francia, che rivendicava gli antichi diritti angioini su Napoli contro gli aragonesi, non aveva apprezzato la svolta filo-napoletana di Firenze.
Chi approfittò di questa congiuntura, allo scopo di rafforzare il suo dominio sui Balcani e sullo Jonio, fu il sultano. Sembra che tra il ‘78 e l’’80 giungessero a Maometto II sollecitazioni da Firenze affinché invadesse la Puglia. Anche Venezia, che nel frattempo aveva siglato nel 1479 una pace con Istanbul, istigava il sultano a rivendicare la terra d’Otranto quale erede di Bisanzio. Sicché quando, nel 1480, Ferdinando inviò aiuti ai cavalieri di Rodi, sotto assedio da parte turca, Maometto II, per ritorsione, fece occupare Valona ed inviò Ahmed Pascià ad Otranto. Le galee veneziane appoggiarono, dalla distanza, rifornendola di viveri, la flotta turca in avvicinamento alla città pugliese. Maometto II sapeva che la sua iniziativa in Puglia avrebbe dato il pretesto per la proclamazione della “crociata” determinando la riappacificazione degli Stati cristiani. Ed, infatti, così fu. Il Papa proclamò la crociata, i predicatori percorsero tutta l’Europa per sollecitare re e popoli a “prendere la croce”, Venezia ed il re di Francia giunsero ad una tregua nelle loro contese e insieme misero momentaneamente da parte ogni contesa verso il regno di Napoli, lo stesso Papa fece subito pace con Firenze e le truppe napoletano-pontificie lasciarono la Toscana meridionale. Il 31 maggio 1481 morì Maometto II. Ne derivò una lotta dinastica tra i suoi figli che facilitò la riconquista cristiana di Otranto da parte di Alfonso di Calabria, figlio di re Ferdinando.
L’esame storico dei fatti relativi al martirio di Otranto, dimostra che la storia, anche di fatti eroici di fede come quello accaduto nel 1480, è sempre straordinariamente complessa e mai riducibile, come pretende la vulgata dello “scontro di civiltà”, a schemi semplicistici per i quali tutti i buoni sarebbero da una parte e tutti i cattivi dall’altra. In realtà non sono mai esistite due civiltà monolitiche e reciprocamente impenetrabili ed in perenne conflitto tra esse. Dietro la parvenza di un conflitto militare tra Cristianesimo ed islam, agivano in realtà ben altre motivazioni geopolitiche, di potere, di ambizioni, di interessi sovrani che usavano strumentalmente le reciproche fedi “cugine”. Cosa che ci da la certezza che quelle non furono guerre di religione o guerre sante o scontri di civiltà e, quindi, che la fede, nella sua integrità, non è, come accusa il pensiero ateo e laicista, fonte di intolleranza, violenza e guerra. Tutte cose – la “crociata”, la “guerra santa” – buone per la propaganda, ed in effetti furono ampiamente usate nella propaganda anche all’epoca, ma del tutto inservibili per spiegare le reali motivazioni di quei conflitti, compreso quello cui conseguì il martirio degli ottocento cristiani di Otranto che pur resta un esempio fulgido di testimonianza eroica della nostra fede cristiana.
Ad Otranto, nel 1480, i turchi hanno avuto il ruolo di risolutori delle contese interne al mondo cristiano. Avranno tale ruolo anche in successive occasioni, alle porte di Vienna. Il loro apparire sullo scenario geopolitico del tempo rianimò gli appelli alla “crociata”: un appello sulla cui sincerità, in chi lo proclamava, non possiamo avere dubbi ma che fu strumentalmente usato per giochi di potere. Gli ottomani furono l’elemento per la schmittiana “esportazione della violenza” e per ricostruire o conservare l’equilibrio interno al mondo cristiano. La stessa identità europea deve molto al “pericolo turco”, senza del quale gli Stati “cristianissimi” si sarebbero dilaniati tra loro con qualche secolo di anticipo (infatti lo fecero più tardi, quando non si dichiaravano più cristiani, con due secoli di guerre intestine iniziate nel ‘700 e culminate con le guerre mondiali del XX secolo). L’identità europea deve, del resto, molto anche alle stesse crociate medioevali, quelle che storicamente corrispondono al concetto autentico di “crociata” o meglio di “peregrinatio”, che, come detto, mai assunsero il carattere di guerre sante(3) né quello di guerre di religione (queste ultime invece furono ferocemente combattute all’interno del mondo cristiano tra cattolici e protestanti, a causa dello sconquasso luterano).
Ma, per concludere tornando alla vicenda del 1480, in tutta la tragicomica commedia, fatta di intrighi diplomatici, di guerre e di alleanze segrete o palesi, che abbiamo raccontato, gli unici ad averci rimesso la vita, testimoniando con il loro martirio la fede in Cristo, furono i poveri 813 martiri di Otranto. E qui tornano, potenti, le parole di padre Gabriel: «se è la forza – ed aggiungiamo noi, l’intrigo, il machiavellismo, le ambizioni personali e politiche – a creare il diritto, non c’è posto per l’Amore di Cristo in questo mondo». A queste parole, nel film, padre Gabriel ne faceva seguire altre, rivolte al suo confratello: «Ed io non ho la forza di vivere in un mondo così». Ma alla fine il gesuita quella forza l’ha trovata ed è andato, insieme ai suoi indios, incontro al martirio, per mano dei soldati di un re, il portoghese, che si proclamava “cristianissimo” ma approvava la politica anticristiana del suo ministro massone. Una politica che stava facendo del Portogallo un regno potente e ricco, anche se a scapito dell’Amore di Cristo portato dai gesuiti agli indios guaranì. 
Una forza, quella che dispose padre Gabriel al martirio, che può essere solo dono del Signore. La stessa forza che, al momento supremo, trovarono i poveri martiri di Otranto uccisi per mano islamica ma per responsabilità e mandato di sedicenti governi “cristianissimi”, più attenti ai loro affari ed alle loro ambizioni geopolitiche che alla difesa della Cristianità. Governi, soprattutto, dimentichi della Misericordia Divina, unico metro di Vera Giustizia in questo mondo.
Alla fine, quando giungerà il giorno del rendiconto, del redde rationem, padre Gabriel ed i martiri di Otranto rifulgeranno, davanti a tutti, nella Gloria. Ma, nel Giorno del Giudizio, tramontata per sempre la “gloria umana”, quella che la storiografia è capace di costruire e perpetuare, quale sarà, a cospetto dell’Altissimo, la sorte eterna di Lorenzo il Magnifico, di Sisto IV, di Maometto II, di Ahmed Pascià, di Ferdinando I, del marchese di Pombal? Pur conscio dei miei tanti e pesanti peccati, e per questo affidato solo alla Sua Misericordia, non vorrei mai essere nei loro panni.
                                                                                                             
Luigi Copertino
NOTE
1) Il Pombal, tra le altre “riforme” illuminate che promosse, durante il suo governo, introdusse anche l’imposizione per le famiglie aristocratiche di “antica cristianità”, ossia che vantavano radici cristiane precedenti al XVI secolo, di far sposare i propri figli con i figli delle famiglie aristocratiche ebree o di “nuova cristianità” ossia di origini converse. La storiografia racconta che un provvedimento del genere serviva, nobilmente, ad abbattere l’antigiudaismo cristiano tradizionale e certe forme di razzismo che pretendevano, illegittimamente, una giustificazione di tipo teologico. Senza negare che un obiettivo di questo genere poteva anche essere presente al Pombal, ci permettiamo, da parte nostra, di suggerire agli storici che forse qualcosa, di molto meno nobile, pur c’entrava. Ci riferiamo al fatto che il Pombal, massone confesso e per questo imbevuto di cultura cabalista, avesse come vero obiettivo quello di “cabalizzare” ossia “massonizzare” la fede cristiana mediante gli influssi culturali di una certa ambigua mistica ebraica. Se l’ebraismo postbiblico è cosa assolutamente diversa dal Cristianesimo, il quale ultimo ha la pretesa, più che fondata, di essere l’universalizzazione del vero ebraismo, e quindi il suo adempimento e superamento, non bisogna dimenticare che il cabalismo a sfondo gnostico, coltivato in seno all’ebraismo postbiblico, non corrisponde alla vera mistica cabalista, del tutto coincidente quest’ultima, come ha spiegato Julio Meinvielle, con la Rivelazione, e per questo ben nota ai profeti ed ai mistici biblici e che ha trovato continuazione nella mistica cristiana. L’avversione massonica alla fede cristiana, insieme agli interessi commerciali portoghesi messi in crisi dalle reducciones, che in termini moderni potrebbero definirsi vere e proprie “imprese sociali”, nelle quali i proventi del lavoro erano redistribuiti tra gli indios, fu la vera causa della politica antigesuitica del Pombal: su questo non ci piove.
2) Cfr. Franco Cardini “I martiri di Otranto”, Il Sabato, 21.8.1993, n. 34, p. 47s. Questo nostro contributo è ampiamente debitore del citato articolo del noto storico.
3) Per il Cristianesimo può esserci, con mille dubbi e mille restrizioni, solo la “guerra giusta”, che tuttavia rimane una colpa anche se necessitata, mentre mai può darsi una “guerra santa”, ossia capace di santificare attraverso l’uccisione del prossimo. Anche il concetto islamico di jihad fa innanzitutto riferimento a quella che cristianamente si chiama “pugna spiritualis” ovvero la lotta ai propri vizi, più che richiamare la guerra verso gli infedeli. Circa i quali, come detto, l’islam distingue tra cristiani ed ebrei, “gente del Libro”, che benché sottomessi non devono essere costretti alla conversione, e pagani verso i quali la guerra può anche essere, a certe condizioni, senza quartiere e che possono essere non solo sottomessi ma costretti a scegliere tra conversione e morte. Cosa, questa, molto veterotestamentaria a dimostrazione del carattere, appunto, veterotestamentario dell’islam che, insieme al giudaismo post-biblico, è una fede ancora in attesa della Venuta di Cristo che per islamici ed ebrei sarà quello che per noi cristiani è il Cristo della Seconda Venuta, il Cristo Giudice della Fine dei Tempi.
Da www.identitàeuropea.it

venerdì 8 maggio 2015

Se almeno noi Italiani meditassimo questa gloriosa pagina...


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Carissimo/a Amico/a

Nell’ultimo quarto del XV secolo, l’espansione conquistatrice dell’Impero ottomano rappresenta per la cristianità una minaccia temibile. Nell’XI secolo, i Turchi selgiuchidi provenienti dall’Asia centrale, che hanno aderito all’islam, hanno invaso l’Impero bizantino. A partire dal 1299, il principe Osman, da cui prenderà nome la dinastia ottomana, unisce i clan turchi sotto il suo dominio e minaccia l’Impero bizantino fin nel suo centro. 
Nel 1453, i Turchi entrano vittoriosi in Costantinopoli, la “seconda Roma”. Il sultano ottomano Mehmet (Maometto) II, dopo aver profanato l’antica basilica di Santa Sofia, la trasforma in moschea. Tutto l’Oriente cristiano e già una parte dei Balcani sono ormai nelle mani dei musulmani. Ma il conquistatore non vuole fermarsi lì: il suo obiettivo è quello di sottomettere l’intera Europa per farne una terra dell’islam.
Infelice città!

Nel 1480, sembra a Maometto II il momento favorevole per invadere l’Italia, devastata da guerre intestine nelle quali è coinvolto il re di Napoli, Ferdinando d’Aragona. Il sultano prevede due offensive congiunte: una verso il Veneto, via terra attraverso i Balcani (questa offensiva verrà arrestata dalla resistenza ungherese); l’altra verso l’Apulia (oggi la Puglia, nel sud-est dell’Italia), via mare. Papa Sisto IV mette in guardia i suoi connazionali contro la minaccia turca con queste parole: «Italiani, se volete potervi dire ancora cristiani, difendetevi!» Il suo appello cade nel vuoto; Mehmet II dichiara al Papa con sarcasmo: «Farò mangiare l’avena ai miei cavalli sulla tomba di San Pietro.» 
Dal canto suo, san Francesco da Paola (1415-1507), il famoso eremita della Calabria, ha più volte predetto l’imminente invasione del regno di Napoli da parte dei Turchi. All’inizio del 1480, alla presenza dei suoi confratelli dell’Ordine dei Minimi, il santo esclama, guardando in direzione di Otranto: «Ah, infelice città, di quanti cadaveri saranno cosparse le tue strade! Quanto sangue cristiano ti inonderà!» Francesco da Paola fa avvertire del pericolo il re di Napoli: lo scongiura di richiamare le sue truppe che conducono in Toscana una guerra fratricida e di difendere il suo regno. Ma Ferdinando accusa il santo di disfattismo e gli ordina di tacere.

Il capo di Otranto, o penisola salentina, il “tallone” e il punto più orientale dello stivale italiano, si protende come una sentinella verso l’uscita del mare Adriatico, a meno di 100 km dall’Albania, in potere dei Turchi dal 1478. Città greca nell’antichità, Otranto ha probabilmente visto sbarcare san Pietro, proveniente da Antiochia sulla strada per Roma. A lungo amministrata da Bisanzio, è stata nel 1095 il punto di imbarco dei dodicimila crociati normanni guidati da Boemondo di Taranto. Nel 1219, san Francesco d’Assisi, di ritorno dalla Terra Santa, vi è stato ricevuto con onore. Vicino a Otranto si trova il monastero basiliano di San Nicola, i cui monaci celebrano la liturgia in lingua greca.
Tenuta in scacco a Rodi dalla difesa dei Cavalieri di San Giovanni, la flotta ottomana – più di centocinquanta navi – abbandona l’assedio di questa isola e si dirige verso il capo di Otranto, con a bordo diciottomila soldati; arriva in vista delle coste il 29 luglio 1480. L’obiettivo iniziale era il porto di Brindisi, ma un vento contrario costringe le navi ad approdare 50 miglia più a sud – a Roca, luogo situato a qualche chilometro da Otranto. Al momento dello sbarco dei Turchi, la città può contare solo su una guarnigione di quattrocento uomini. La popolazione otrantina si affretta a chiamare in aiuto il re Ferdinando: «Se vostra Maestà non adotta immediatamente le misure necessarie, siamo in grande pericolo di essere presi; faremo il nostro dovere, ma la nostra morte non sarebbe la cosa peggiore: quello che è da temere è il danno inflitto al servizio di Dio e agli interessi di vostra Maestà.» Tuttavia, Ferdinando non ha truppe disponibili e non potrà intervenire a Otranto prima di diverse settimane.
Le chiavi gettate in mare

Il 1° agosto, i Turchi sbarcano senza aver incontrato resistenza. Gli abitanti si sono barricati all’interno delle fortificazioni. Il pascià Agometh, generale dell’esercito turco, invia un messaggero per proporre loro una resa a condizioni vantaggiose: se non opporranno resistenza, uomini e donne verranno lasciati liberi o di rimanere senza subire danni, o di andarsene. Dopo una discussione animata, i notabili della città decidono all’unanimità di resistere all’invasore e di combattere “per Dio e per la patria”. Essi non vogliono tradire il loro re né aprire agli infedeli un accesso all’Italia. Uno degli anziani della città, Ladislao De Marco, risponde all’interprete turco: “Se il pascià vuole Otranto, dovrà prenderla con la forza, perché dietro le mura ci sono i petti dei cittadini.» Per eliminare ogni equivoco, De Marco afferra le chiavi della città e, in modo ben visibile, le getta in mare dalla cima di una torre.
Le bombarde ottomane sparano allora su Otranto un uragano di palle di pietra. Durante la notte, una buona parte dei soldati della guarnigione napoletana scavalca le mura della città per mezzo di funi e fugge. A difendere la città rimangono solo i suoi abitanti; la battaglia è quindi impari. All’alba del secondo giorno, gli assalitori aprono una breccia nelle mura. Vi si precipitano, ma vengono respinti dai difensori. Un altro attacco non avrà maggiore successo: gli Otrantini gettano acqua bollente sui Turchi che tentano di scalare le fortificazioni. Tuttavia, il bombardamento incessante dell’artiglieria ottomana finisce con il provocare, l’11 agosto, il crollo della parte più debole delle mura; gli assedianti s’introducono attraverso questa larga breccia. I difensori della città, guidati da Zurlo e Falconi, che combattono con accanimento, soccombono sotto il numero degli assalitori. Le orde ottomane si precipitano urlando nelle strade, saccheggiando e poi bruciando le case una per una, e massacrando i loro abitanti. Molti Otrantini si sono rifugiati e barricati nella cattedrale difesa con l’energia della disperazione da alcuni uomini armati. L’anziano arcivescovo Stefano Pendinelli, vestito con i suoi abiti pontificali, distribuisce per l’ultima volta ai suoi fedeli il Pane di vita; poi un domenicano, fra Fruttuoso, li esorta a prepararsi cristianamente al martirio. Le sue parole vengono interrotte dal fracasso del portone, abbattuto dagli arieti degli aggressori. Questi mettono a tacere definitivamente il predicatore, poi si precipitano verso il vescovo, seduto sulla sua cattedra. Agometh gli chiede chi è: «Sono l’indegno pastore di questo gregge di Cristo.» Uno dei Turchi gli ordina di non pronunciare più il nome di Cristo, ma solo quello di Maometto. L’arcivescovo esorta il suo aggressore a convertirsi se non vuole subire la sorte di Maometto, che è stato giudicato nel tribunale di Dio per la sua empietà. Fuori di sé, il pascià ordina allora che il vescovo venga decapitato. Questa esecuzione è il segnale di un massacro generale. Il sangue dei cristiani scorre a fiotti nella cattedrale profanata.
Dopo tre giorni, il pascià Agometh sospende la strage e ordina ai soldati di raccogliere tutti gli uomini validi di età superiore ai quindici anni. Gli vengono condotti circa ottocento uomini (ottocentotredici secondo una tradizione). Un prete calabrese rinnegato sta accanto al capo ottomano; traducendo le sue parole, si sforza di convincere gli Otrantini a rinnegare Cristo. «La vittoria dei musulmani, dice loro, è una prova che Maometto è più potente di Cristo. Se vi convertirete all’islam, avrete salva la vita e conserverete i vostri beni; in caso contrario, verrete tutti massacrati.»

Un sarto valoroso

Allora, un sarto già avanti negli anni, Antonio Primaldo, si alza e rivolge ai suoi compagni il seguente discorso: «Fratelli miei, abbiamo sentito a che prezzo ci viene proposto di acquistare il diritto di prolungare questa miserevole vita. Abbiamo combattuto fino ad oggi per la nostra patria, la nostra vita e i nostri signori terreni. È giunto ormai il momento di combattere per salvare le nostre anime redente da Nostro Signore. Poiché Egli è morto sulla Croce per noi, è giusto che anche noi moriamo per Lui, saldi e costanti nella fede. Con questa morte temporale, avremo la gloria del martirio e la vita eterna.» A queste parole, tutti esclamano ad una sola voce e con fervore che preferiscono mille volte morire di qualsiasi morte piuttosto che rinnegare Cristo. Ognuno esorta i suoi compagni, chi suo figlio, chi suo padre, a dire “sì” a Cristo e “no a Maometto”, quali che ne siano le conseguenze.
Tuttavia, il capo dei Turchi promette ancora una volta ai prigionieri cristiani di restituire loro le mogli, i figli e tutti i loro beni, se pronunciano la “shahada”, formula rituale che farà di loro dei musulmani: “Non c’è altro Dio che Allah, e Maometto è il profeta di Dio”. In realtà, pronunciare questa frase equivale a un’apostasia. Primaldo vi si rifiuta e rinnova il suo giuramento di fedeltà a Cristo, che la folla ripete con fervore; essa sa, in effetti, che Gesù Cristo è Dio, e che non vi è, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini che quello di Gesù, nel quale è stabilito che noi siamo salvati (At 4,12).
Gesù Cristo è, infatti, l’unico Salvatore degli uomini, come lo ricordava la Congregazione per la Dottrina della Fede in un documento approvato di san Giovanni Paolo II: «Lui solo, quale Figlio di Dio fatto uomo, crocifisso e risorto, per missione ricevuta dal Padre e nella potenza dello Spirito Santo, ha lo scopo di donare la rivelazione e la vita divina all’umanità intera e a ciascun uomo. In questo senso si può e si deve dire che Gesù Cristo ha un significato e un valore per il genere umano e la sua storia, singolare e unico, a lui solo proprio, esclusivo, universale, assoluto. Gesù è, infatti, il Verbo di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti. Raccogliendo questa coscienza di fede, il Concilio Vaticano II insegna: “Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, è diventato egli stesso carne, per operare, lui l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni. Egli è colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua destra, costituendolo giudice dei vivi e dei morti” (Gaudium et spes, 45). È proprio questa singolarità unica di Cristo che a lui conferisce un significato assoluto e universale, per cui, mentre è nella storia, è il centro e il fine della stessa storia: Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine (Ap 22,13)» (Dichiarazione Dominus Jesus, 6 agosto 2000, n. 15).

Irritato dalla costanza degli ottocento prigionieri nella loro confessione della fede, Agometh decreta allora la loro condanna a morte. Il 14 agosto mattina, vengono condotti, con la corda intorno al collo e le mani legate dietro la schiena, al colle della Minerva, a poche centinaia di metri dalla città. Il prete apostata calabrese gira tra di loro mostrando una tavoletta sui cui è scritta in caratteri latini la “shahada”: «Pronunciate questa semplice frase, e avrete salva la vita.» Ma tutti i condannati, invocando Gesù e Maria, si dicono pronti a morire. Il pascià ordina che per primo venga giustiziato Antonio Primaldo. Prima di posare la testa sul ceppo, l’anziano esorta i suoi compagni a essere forti nella fede e a guardare il Cielo che li attende. La sua sicurezza viene dalla certezza della sua fede:

«La fede è certa, più certa di ogni conoscenza umana, perché si fonda sulla Parola stessa di Dio, il quale non può mentire. Indubbiamente, le verità rivelate possono sembrare oscure alla ragione e all’esperienza umane, ma la certezza data dalla luce divina è più grande di quella offerta dalla luce della ragione naturale». (Catechismo della Chiesa Cattolica, 157).

Segni certissimi

Riprendendo le parole di santo Stefano, Primaldo esclama che vede i cieli aperti e gli angeli consolatori. Viene decapitato con un colpo di scimitarra, ma, tra lo stupore generale, si rimette in posizione eretta; il suo corpo senza testa, nonostante gli sforzi furiosi dei carnefici che lo spingono e lo tirano con funi, rimarrà in piedi fino alla fine del supplizio di tutti. Di fronte a questo miracolo, uno dei carnefici, di nome Berlabei, si dichiara cristiano. Questa conversione illustra l’affermazione del Catechismo della Chiesa Cattolica: i miracoli di Cristo e dei santi, le profezie, la diffusione e la santità della Chiesa, la sua fecondità e la sua stabilità «sono segni certissimi della divina Rivelazione, adatti ad ogni intelligenza» (CCC, 156). Furioso, il pascià condanna il nuovo convertito al supplizio del palo, e Berlabei viene così battezzato nel suo sangue. Quattro testimoni oculari (ancora bambini o adolescenti nel 1480), hanno riferito nel 1539, durante il processo di beatificazione, il prodigio del corpo decapitato ma che rimase in piedi di Antonio Primaldo, e la conversione di Berlabei. Il colle della Minerva bagnato da tanto sangue verrà ormai chiamato la “Collina dei Martiri”, e i religiosi minimi vi fonderanno ben presto un monastero.

La caduta di Otranto e il massacro di gran parte della sua popolazione immergono l’Italia e anche tutto l’Occidente cristiano nello sgomento e nel terrore. Papa Sisto IV a un certo punto pensa di fuggire da Roma minacciata e lancia un appello alla crociata; spaventati, i potentati italiani e il re di Francia mettono a tacere i loro dissidi. Il re Ferdinando si affretta, in pochi giorni, a concludere la pace con Lorenzo de’ Medici; un esercito internazionale di crociati provenienti da diverse nazioni europee si mette immediatamente in viaggio verso il capo di Otranto, sotto il comando del Duca Alfonso di Calabria, figlio del re di Napoli. Nel frattempo, i Turchi hanno rapidamente ricostruito le fortificazioni della città. I crociati procedono a rilento per tutto l’inverno, mentre i musulmani ricevono via mare viveri e munizioni in vista di una grande offensiva di primavera nell’Apulia. Ma il 3 maggio 1481, il sultano Mehmet II muore improvvisamente, e la lotta per il potere tra i suoi figli Bayezid e Cem distoglie dall’Italia l’attenzione degli Ottomani. Questo evento provvidenziale permette ad Alfonso di Calabria, dopo un assedio di tre mesi, di entrare da liberatore nella città martire, il 10 settembre 1481. Il duca si è lasciato convincere a evitare un assalto che avrebbe provocato un grande spargimento di sangue. Gli occupanti turchi hanno capitolato, in cambio di aver salva la vita e avere il diritto di ritirarsi su quattro navi; Alfonso li costringe a liberare i loro prigionieri cristiani che erano in procinto di condurre via in schiavitù.

Resistenza salvatrice

Appena arrivati davanti a Otranto, i crociati hanno scoperto i corpi degli ottocento martiri, intatti pur essendo rimasti insepolti per un anno. Alfonso li fa seppellire provvisoriamente nelle vicinanze. Il 13 ottobre, una gran parte delle reliquie viene trasportata nella cattedrale di Otranto: si può vedere oggi attorno all’altare di Maria un ossario contenente le reliquie di cinquecentosessanta corpi; il resto delle reliquie è stato trasferito a Napoli. Il bilancio della tragedia è pesante: dei ventiduemila abitanti di Otranto, dodicimila sono morti durante e dopo l’assedio; ottocentotredici uomini sono stati decapitati (i martiri di recente canonizzati); la maggioranza degli altri abitanti, donne e bambini, sono stati presi in schiavitù. Solo un ridottissimo numero di Otrantini è riuscito a sfuggire al massacro o alla schiavitù. Ma le due settimane di resistenza degli abitanti assediati e il sacrificio dei loro martiri hanno salvato l’Italia permettendo ai principi cristiani di riprendersi e di organizzare la spedizione di salvataggio. I cronisti del tempo hanno potuto affermare a giusto titolo che la resistenza di Otranto ha permesso la salvezza dell’Italia del Sud e forse di Roma stessa.
I miracoli compiuti invocando i martiri di Otranto – i cui nomi rimangono sconosciuti, eccetto quello di Primaldo – o attraverso le loro sante reliquie sono stati innumerevoli fino ai nostri giorni: aura luminosa attorno alle ossa, guarigioni improvvise, protezione della città di Otranto contro nuovi assalti dell’islam o contro terremoti... Il 5 ottobre 1980, per il cinquecentesimo anniversario della strage, san Giovanni Paolo II si è recato a Otranto allo scopo di venerare i suoi martiri. Alla gioventù venuta ad incontrarlo, il Papa ha detto: «Voi... portate nel cuore, come una preziosissima eredità, il mirabile esempio di quegli Otrantini che, il 14 agosto del 1480, all’alba di quello che viene considerato storicamente l’evo moderno, preferirono sacrificare la vita stessa anziché rinunciare alla fede cristiana. È questa una pagina luminosa e gloriosa per la storia civile e religiosa dell’Italia, ma, specialmente, per la storia della Chiesa pellegrina in questo mondo, la quale deve pagare, attraverso i secoli, il suo tributo di sofferenza e di persecuzione per mantenere intatta ed immacolata la sua fedeltà allo Sposo, Cristo, uomo-Dio, Redentore e Liberatore dell’uomo... Voi... siete legittimamente fieri di appartenere ad una stirpe generosa, coraggiosa e forte, che..., dopo aver difeso con tutti i mezzi... la sua diletta città..., seppe anche difendere, in maniera sublime, il tesoro della fede, ad essa comunicato nel Battesimo... Erano forse degli illusi, degli uomini fuori del loro tempo? No, carissimi giovani! Quelli erano uomini, uomini autentici, forti, decisi, coerenti...; tra di loro c’erano dei giovani, come voi, e desideravano, come voi, la gioia, la felicità, l’amore... E fecero, con lucidità e con fermezza, la loro scelta per Cristo!... Di fronte alle suggestioni di certe ideologie contemporanee, che esaltano e proclamano l’ateismo teorico o pratico, io chiedo a voi...: siete disposti a ripetere... le parole dei beati martiri: “Scegliamo piuttosto di morire per Gesù Cristo con qualsiasi genere di morte, anziché rinnegarlo”? Essere disposti a morire per Cristo comporta l’impegno di accettare con generosità e coerenza le esigenze della vita cristiana, cioè significa vivere per Cristo.»

Il processo diocesano tenutosi a Otranto nel 1539 ha permesso l’audizione di dieci testimoni oculari del martirio. Essi hanno riferito i dettagli di cui disponiamo, in particolare per quanto riguarda il ruolo essenziale di Antonio Primaldo. Il culto reso agli ottocento martiri “da tempo immemorabile” è stato ufficialmente autenticato nel 1771 dalla Santa Sede, il che equivaleva a una beatificazione. Per la loro canonizzazione, è stata riconosciuta l’autenticità di un miracolo nel 2012 da papa Benedetto XVI: si tratta della guarigione improvvisa e inspiegabile dal punto di vista medico di una monaca italiana, suor Francesca Levote, affetta da un cancro avanzato e incurabile; questo miracolo è stato ottenuto dal Signore nel 1980 per la preghiera della malata, tramite l’intercessione dei martiri di Otranto.

Chiediamo a Dio, per intercessione dei martiri di Otranto, la grazia di essere fedeli a Gesù Cristo nel “martirio quotidiano” e, se necessario, fin nel martirio di sangue. Allora, vedremo un giorno i cieli aperti e il Cristo alla destra del Padre.
Dom Antoine Marie osb

venerdì 22 febbraio 2013

Martiri di Otranto: È prevista la loro canonizzazione il 12 maggio 2013.


Martiri di Otranto

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Beati Antonio Primaldo e compagni martiri
Beati Antonio Primaldo e compagni martiri

Reliquie dei Martiri di Otranto conservate nella Cattedrale della Città
Martiri
NascitaXV secolo
Morte14 agosto 1480
Venerato daChiesa cattolica
Beatificazione1771
Canonizzazione12 maggio 2013
Santuario principaleCattedrale di Otranto
Ricorrenza14 agosto
AttributiPalma
Patrono diArcidiocesi e città di Otranto
Antonio Primaldo e compagni martiri, conosciuti anche semplicemente come martiri di Otranto, sono gli 800 abitanti della città salentina di Otranto uccisi il 14 agosto 1480 dai Turchi guidati da Gedik Ahmet Pascià, per aver rifiutato la conversione all'Islam dopo la caduta della loro città. Saranno canonizzati il 12 maggio 2013[1].

Storia 

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi la voce Battaglia di Otranto.
Il 28 luglio 1480 un'armata turca proveniente da Valona, forte di 90 galee, 40 galeotte e altre navi, per un totale di circa 150 imbarcazioni e 18.000 soldati, si presentò sotto le mura di Otranto.
La città resistette strenuamente agli attacchi, ma la sua popolazione di soli 6.000 abitanti non poté opporsi a lungo ai bombardamenti. Infatti il 29 luglio la guarnigione e tutti gli abitanti abbandonarono il borgo nelle mani dei Turchi, ritirandosi nella cittadella mentre questi ultimi cominciavano le loro razzie anche nei casali vicini.
Quando Gedik Ahmet Pascià chiese la resa ai difensori, questi si rifiutarono ed in risposta le artiglierie turche ripresero il bombardamento. L’11 agosto, dopo 15 giorni d’assedio, Gedik Ahmet Pascià ordinò l’attacco finale durante il quale riuscì a sfondare le difese e a espugnare anche il castello.
Nel massacro che ne seguì, tutti i maschi di oltre quindici anni furono uccisi, mentre le donne e i bambini furono ridotti in schiavitù. Secondo alcune ricostruzioni storiche, i morti furono in totale 12.000 e i ridotti in schiavitù 5.000, comprendendo anche le vittime dei territori della penisola salentina intorno alla città[2].
I superstiti e il clero si erano rifugiati nella cattedrale a pregare con l'arcivescovo Stefano Pendinelli. Gedik Ahmet Pascià ordinò loro di rinnegare la fede cristiana, ma ricevendone un netto rifiuto, irruppe con i suoi uomini nella cattedrale e li catturò. Furono quindi tutti uccisi, mentre la chiesa, in segno di spregio, fu ridotta a stalla per i cavalli.
Particolarmente barbara fu l’uccisione dell'anziano arcivescovo Stefano Pendinelli, il quale incitò i superstiti a rivolgersi a Dio in punto di morte. Fu infatti sciabolato e fatto a pezzi con le scimitarre, mentre il suo capo mozzato fu infilzato su una picca e portato per le vie della città.
Il comandante della guarnigione Francesco Largo venne invece segato vivo.
Castello di Otranto
A capo degli Otrantini - che il 12 agosto si erano opposti alla conversione all'Islam - era anche il vecchio sarto Antonio Pezzulla, detto Il Primaldo.
Il 14 agosto Gedik Ahmet Pascià fece legare i superstiti e li fece trascinare sul vicino colle della Minerva, dove ne fece decapitare almeno 800, costringendo i parenti ad assistere alle esecuzioni. Il primo a essere decapitato fu Antonio Primaldo. La tradizione tramanda che il suo corpo, dopo la decapitazione, restò ritto in piedi, a dispetto degli sforzi dei carnefici per abbatterlo, sin quando l'ultimo degli Otrantini non fu martirizzato.
Durante quel massacro le cronache raccontano che un turco, tal Bersabei, si convertì nel vedere il modo in cui gli otrantini morivano per la loro fede e subì anche lui il martirio, impalato dai suoi stessi compagni d'arme.
Tra gli 800 martiri d'Otranto, si ricorda per l'eroica morte, in testimonianza della fede, la figura di Macario Nachira, colto monaco basiliano, appartenente ad antica e nobile famiglia di Viggiano (oggi Uggiano la Chiesa).
Dopo tredici mesi Otranto venne riconquistata dagli Aragonesi, guidati da Alfonso d'Aragona, figlio del Re di Napoli.

Reliquie 

Il 13 ottobre 1481 i corpi degli Otrantini trucidati furono trovati incorrotti e vennero successivamente traslati nella Cattedrale di Otranto.
A partire dal 1485, una parte dei resti di quei martiri furono trasferiti a Napoli e riposano nella chiesa di Santa Caterina a Formiello, dove furono collocati sotto l'altare della Madonna del Rosario (che ricorda la vittoria definitiva delle truppe cristiane sugli Ottomani nella famosa battaglia di Lepanto); successivamente furono collocati nella cappella delle reliquie, consacrata da papa Orsini, e solo dal 1901 deposte sotto l'altare in cui si trovano oggi. Una recognitio canonica, effettuata tra il 2002 e il 2003, ne ha ribadito l'autenticità.
Nel 1930 monsignor Cornelio Sebastiano Cuccarollo, vescovo di Bovino dal 1923, fu nominato arcivescovo di Otranto e, in segno di affetto e riconoscimento verso la sua ex diocesi, donò parte delle reliquie al Santuario di Santa Maria di Valleverde in Bovino, dove attualmente si trovano nella cripta della nuova basilica.
Reliquie dei beati martiri sono venerate in molti luoghi della Puglia, in particolare nel Salento, e a Napoli, a Venezia e in Spagna.

Culto 

Un processo canonico iniziato nel 1539 terminò il 14 dicembre 1771, allorché papa Clemente XIV dichiarò beati gli 800 trucidati sul colle della Minerva, autorizzandone il culto; da allora essi sono protettori di Otranto.
In vista di una possibile canonizzazione, su richiesta dell'arcidiocesi di Otranto, il processo è stato recentemente riaperto, confermando in pieno le conclusioni del precedente. Papa Benedetto XVI, il 6 luglio 2007, ha emanato un decreto in cui riconosce il martirio di Antonio Primaldo e dei suoi concittadini uccisi "in odio alla fede".
Il 20 dicembre 2012 Benedetto XVI nell'udienza privata con il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha autorizzato la Congregazione a promulgare il Decreto riguardante il miracolo della guarigione della suora Francesca Levote, attribuito all'intercessione dei beati Antonio Primaldo e compagni martiri.[3]. È prevista la loro canonizzazione il 12 maggio 2013.
Subito dopo l'annuncio, effettuato l'11 febbraio 2013 nel corso di un apposito Concistoro, Benedetto XVI ha comunicato in latino la sua ferma e meditata intenzione di rinunciare alla guida della Chiesa di Roma a partire dalle ore 20 del 28 febbraio, a causa delle sue precarie energie, aggravate dall'età avanzata.

Note 

  1. ^ Il Sole 24 Ore
  2. ^ Paolo Ricciardi, Gli eroi della patria e i martiri della fede: Otranto 1480-1481, Vol. 1, Editrice Salentina, 2009
  3. ^ Promulgazione di decreti della Congregazione delle Cause dei Santi

Bibliografia 

  • Paolo Ricciardi, Gli eroi della patria e i martiri della fede: Otranto 1480-1481, Vol. 1, Editrice Salentina, 2009
  • Grazio Gianfreda, I beati 800 martiri di Otranto, Edizioni del Grifo, 2007

Voci correlate 

Collegamenti esterni 

AVE MARIA VIRGO POTENS!