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giovedì 28 luglio 2022

JOSEPH RATZINGER : B16 e G.GÄNSWEIN

 

BENEDETTO XVI: LA LITURGIA NON È UNO SHOW…

Benedettoxvi

Lug 28

…Uno spettacolo che abbisogni di registi geniali e di attori di talento. La liturgia non vive di sorprese " simpatiche ", di trovate " accattivanti ", ma di ripetizioni solenni. Non deve esprimere l'attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro. Molti hanno pensato e detto che la liturgia debba essere "fatta" da tutta la comunità, per essere davvero sua. È una visione che ha condotto a misurarne il " successo " in termini di efficacia spettacolare, di intrattenimento. In questo modo è andato però disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è lo assolutamente Altro che, attraverso la comunità (che non ne è dunque padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a noi….Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte stessa della sua identità: anche per questo deve essere " predeterminata ", " imperturbabile ", perché attraverso il rito si manifesta la Santità di Dio. Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata " la vecchia rigidità rubricistica ", accusata di togliere " creatività ", ha coinvolto anche la liturgia nel vortice del " fai-da-te ", banalizzandola perché l'ha resa conforme alla nostra mediocre misura….
Il Concilio ci ha giustamente ricordato che liturgia significa anche actio, azione, e ha chiesto che ai fedeli sia assicurata una actuosa participatio, una partecipazione attiva… Certo, è un concetto sacrosanto che però, nelle interpretazioni postconciliari, ha subìto una restrizione fatale. Sorse cioè l'impressione che si avesse una " partecipazione attiva " solo dove ci fosse un'attività esteriore, verificabile: discorsi, parole, canti, omelie, letture, stringer di mani… Ma si è dimenticato che il Concilio mette nella actuosa participatio anche il silenzio, che permette una partecipazione davvero profonda, personale, concedendoci l'ascolto interiore della Parola del Signore. Ora, di questo silenzio non è restata traccia in certi riti.

da "Rapporto sulla fede", Joseph Ratzinger, 1985

AMDG et DVM

sabato 6 novembre 2021

IL VALORE DEL MESSALE ANTICO - Papa Benedetto XVI e la liturgia.

 


Papa Benedetto XVI e la liturgia.

8 Giugno 2008Messa, Ore Liturgiche...

Del prof. Davide Ventura. Da: L\’eco dell\’eremo della Beata Vergine del Soccorso – Minucciano. Il valore del messale antico e il “Motu proprio” Summorum Pontificum. L’abbandono della bellezza. “Actuosa participatio”. Il problema della lingua liturgica. Versus orientem. Unità nella diversità.


L’abbandono della bellezza
Delineato a sufficienza il “trauma” ecclesiale determinato dalla abolizione forzata delle forme tradizionali, rimane da esaminare nel dettaglio i principali elementi che le parole del Papa chiamano “deformazioni arbitrarie della liturgia” intervenute in quegli anni.
Vi è in primo luogo il fattore estetico e artistico. È noto come nei secoli la Chiesa abbia tributato culto a Dio anche tramite l’impiego delle migliori e più magnifiche forme di espressione artistica, non accontentandosi delle esistenti, ma suscitando dal suo interno continuamente nuovi stili di espressione del bello e del sublime.
Durante l’ultimo mezzo secolo (con consistenti anticipi anteriori) si è invece manifestata all’interno della Chiesa l’opposta tendenza alla semplificazione delle forme estetiche, all’insegna della “povertà” del culto, nella presupposizione che il “trionfalismo” delle forme artistiche, figurative, architettoniche e sonore, non farebbe che ricoprire e falsare la vera natura della liturgia.


Ora, per Benedetto XVI “«l\’abbandono della bellezza» si è dimostrato, alla prova dei fatti, un motivo di sconfitta pastorale” (Rapporto sulla fede, p. 132). Il testo continua: “È divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza e ci si assoggetta solo all\’utile. L\’esperienza ha mostrato come il ripiegamento sull\’unica categoria del «comprensibile a tutti» non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più povere. Liturgia «semplice» non significa misera o a buon mercato: c\’è la semplicità che viene dal banale e quella che deriva dalla ricchezza spirituale, culturale, storica”.


Per quanto il Papa abbia dedicato pagine notevoli alla iconografia e alla architettura religiosa, è soprattutto la musica sacra che attira la sua attenzione come insostituibile veicolo di reale partecipazione liturgica. Il testo citato sopra continua: “Si è messa da parte la grande musica della Chiesa in nome della «partecipazione attiva»: ma questa «partecipazione» non può forse significare anche il percepire con lo spirito, con i sensi? Non c\’è proprio nulla di «attivo» nell\’ascoltare, nell\’intuire, nel commuoversi? Non c\’è qui un rimpicciolire l\’uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando sappiamo che ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto la punta di un iceberg rispetto a ciò che è la nostra totalità? 

Chiedersi questo non significa certo opporsi allo sforzo per far cantare tutto il popolo, opporsi alla «musica d\’uso»: significa opporsi a un esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né dalle necessità pastorali”. E ancora: “Una Chiesa che si riduca solo a fare della musica «corrente» cade nell\’inetto e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere anche «città della gloria», luogo dove sono raccolte e portate all\’orecchio di Dio le voci più profonde dell\’umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano”.

Actuosa participatio”
Come ricordato in quest’ultimo testo, il concilio Vaticano II ha in più riprese richiesto una “actuosa participatio”, una “partecipazione attiva” dei fedeli al culto. Come si sa, questo è stato di solito interpretato nel senso di una condanna al preteso ruolo “passivo” a cui la liturgia tradizionale avrebbe relegato i fedeli. La frase sopra citata, “Non c\’è proprio nulla di «attivo» nell\’ascoltare, nell\’intuire, nel commuoversi?”, rivela chiaramente il pensiero del Papa in merito. Più notevoli ancora, e in parte sorprendenti, sono le righe che leggiamo in “Introduzione allo spirito della liturgia” a p. 167: “In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte”. Quale sarà dunque in realtà questa “actio”, questa azione a cui tutta l’assemblea è chiamata, ora come sempre, a partecipare? 

Come accenna il Papa, si sa che di solito si è dato a questa domanda la risposta pratica di moltiplicare e distribuire a quante più persone possibile i servizi paraliturgici durante la celebrazione: vi è chi accende le candele e chi le spegne, chi bada all’acqua e chi al vino, chi legge il profeta e chi l’epistola, chi canta il salmo e chi il Gloria; la preghiera dei fedeli deve vedersi alternare una persona diversa per ogni invocazione, e la processione dell’offertorio deve a volte somigliare a un corteo. Non così per il Papa. Continua il testo citato: “Con il termine «actio», riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. […] 

Questa oratio – la solenne preghiera eucaristica, il «canone» – è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del temine. In essa accade, infatti, che l’actio umana (così come è stata sinora esercitata dai sacerdoti nelle diverse religioni) passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio. […] Ma come possiamo noi avere parte a questa azione? […] noi dobbiamo pregare perché (il sacrificio del Logos) diventi il nostro sacrificio, perché noi stessi, come abbiamo detto, veniamo trasformati nel Logos e diveniamo così vero corpo di Cristo: è di questo che si tratta”. Qui, all’interno della fornace ardente che è il centro stesso della fede cristiana, siamo realmente a miglia di distanza dalle interpretazioni sociologiche banalizzanti di cui si diceva. E infatti prosegue il Papa: “La comparsa quasi teatrale di attori diversi, cui è dato oggi di assistere soprattutto nella preparazione delle offerte, passa molto semplicemente a lato dell’essenziale. Se le singole azioni esteriori (che di per sé non sono molte e che vengono artificiosamente accresciute di numero) diventano l’essenziale della liturgia e questa stessa viene degradata in un generico agire, allora viene misconosciuto il vero teodramma della liturgia, che viene anzi ridotto a parodia”.


Il problema della lingua liturgica
Chi abbia poco frequentato i testi (invero voluminosi) del concilio Vaticano II, è di solito persuaso che esso abbia decretato la soppressione della lingua latina nella Messa a favore di quella volgare. Si resta perciò colpiti nel leggere, all’inizio del punto 36 della costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium, la perentoria affermazione: “L\’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini (cioè salvo che nei riti orientali, N.d.R.)”. La medesima costituzione delimita con precisione il possibile ambito della lingua volgare: “Dato però che, sia nella Messa che nell\’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l\’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguentiIl successivo punto 54, dopo aver ripreso tali possibili concessioni, definisce che “si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell\’ordinario della messa che spettano ad essiÈ del tutto evidente che i Padri conciliari, nell’approvare questo testo, non avevano minimamente l’intenzione di provocare la totale o quasi scomparsa della lingua latina dalla liturgia, cosa che invece accadde ben presto.


Non valendo per i chierici, che si supponeva ovviamente istruiti nella antica lingua liturgica, il problema di comprensibilità dei riti, la medesima costituzione conciliare afferma perentoriamente al punto 101: “Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell\’ufficio divino la lingua latina”. Come è noto, anche questa richiesta del concilio è stata quasi immediatamente e totalmente disattesa.


Nella già menzionata intervista del 5 settembre 2003, l’allora cardinal Ratzinger chiarisce in merito il suo pensiero. “In generale”, dichiara, “io penso che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: «io sono nella stessa Chiesa». Perciò in generale, le lingue parlate sono una soluzione. Ma una qualche presenza del latino potrebbe essere utile per avere una maggiore esperienza di universalità.


In “Dio e il mondo”, p. 381, dice: “Oggi il latino nella Messa ci pare quasi un peccato. Ma così ci si preclude anche la possibilità di comunicare tra parlanti di lingue diverse, che è così preziosa in territori misti”.
Oltre alla lingua latina, anche un’altra lingua liturgica comune è caduta, salvo qualche eccezione, sotto i colpi delle riforme postconciliari: la lingua del silenzio. Nella liturgia tradizionale, offertorio e canone eucaristico formavano grandi zone di silenzio sacro, in cui il sacerdote celebrava sottovoce di fronte all’altare, mentre il popolo accompagnava l’azione in silenzio orante. Come si è visto, sotto i colpi della interpretazione sociologica della “actuosa participatio” questo sacro silenzio si è ridotto a una breve pausa durante l’elevazione.
Nel più volte citato e fondamentale “Introduzione allo spirito della liturgia”, a p. 210-211, l’allora cardinale scrive: “Con disgusto di molti liturgisti nel 1978 avevo sostenuto che non è affatto detto che tutto il canone deve essere pronunciato a voce alta. Dopo averci riflettuto, vorrei ripeterlo ancora una volta con forza, nella speranza che dopo vent’anni questa tesi possa trovare un po’ di comprensione. […] Non è affatto vero che la recitazione ad alta voce, ininterrotta, della preghiera eucaristica sia la condizione per la partecipazione di tutti a questo atto centrale della celebrazione eucaristica. La mia proposta di allora era: da una parte l’educazione liturgica deve far sì che i fedeli conoscano il significato essenziale e l’indirizzo fondamentale del canone; dall’altra, le prime parole delle singole preghiere dovrebbero essere pronunciate a voce alta come un invito a tutta la comunità, così che, poi, la preghiera silenziosa di ciascuno faccia propria l’intonazione e possa portare la dimensione personale in quella comunitaria, quella comunitaria nella dimensione personale. Chi ha personalmente vissuto l’unità della Chiesa nel silenzio della preghiera eucaristica ha sperimentato che cos’è il silenzio davvero pieno, che rappresenta insieme un forte e penetrante grido rivolto a Dio, una preghiera colma di spirito”.

Versus orientem
L’attuale Papa ha sempre sostenuto, con numerosi interventi orali e scritti, il carattere arbitrario, contrario a una tradizione risalente ai tempi apostolici e pastoralmente poco produttivo, dell’orientamento verso il popolo del celebrante. Fino all’antichità cristiana più remota risale invece il fatto liturgico del comune orientamento di assemblea e celebrante, orientamento che – secondo la stessa etimologia del termine – era rivolto ad oriente, verso la direzione del sole nascente, simbolo del Cristo e della sua futura, definitiva venuta.
Nella citata intervista del 5 settembre 2003 l’allora cardinale Ratzinger afferma: “«Versus orientem», direi che potrebbe essere un aiuto, perché si tratta realmente di una tradizione dei tempi apostolici. Non è solo una norma, ma è anche l’espressione della dimensione cosmica e della dimensione storica della liturgia. Noi celebriamo con il cosmo, con il mondo. È la direzione del futuro del mondo, della nostra storia rappresentata dal sole e dalle realtà cosmiche. Io penso che oggi questa nuova scoperta del nostro rapporto con il mondo creato può essere capita anche dalla gente, forse meglio di 20 anni fa. E ancora, si tratta di una direzione comune – prete e popolo orientati insieme verso il Signore. Per questo penso che potrebbe essere un aiuto. Da sempre, i gesti esteriori non sono semplicemente un rimedio in se stessi, ma possono essere un aiuto, perché si tratta della classica interpretazione di cos’è la direzione nella liturgia”.
Un intero capitolo di “Introduzione allo spirito della liturgia” è dedicato a questo problema. Vi si legge ad esempio: “Al di là di tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità, fino al secondo millennio avanzato: la preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di attaccamento alla unicità della storia della salvezza e di cammino verso il Signore che viene” (p. 70-71).
Si dà di solito una duplice motivazione dell’innovazione consistente nell’orientamento del sacerdote verso il popolo: in primo luogo, egli rappresenterebbe Cristo nell’ultima cena seduto a tavola dirimpetto agli Apostoli; in secondo luogo, le grandi basiliche romane, e in primis San Pietro, sono rivolte verso occidente: il celebrante, se voleva volgersi a oriente durante la preghiera, doveva perciò guardare verso l’ingresso, e quindi verso il popolo. 

Nel testo sopra citato, il cardinal Ratzinger rivolge queste osservazioni a tali tesi, citando a sua volta e facendo proprio il testo di L. Bouyer “Architettura e liturgia”: “È evidente che in questo modo si è frainteso il senso della basilica romana e della disposizione dell’altare al suo interno. […] Cito in proposito, ancora una volta Bouyer: «Prima di quella data (cioè prima del secolo XVI) non abbiamo mai e da nessuna parte la benché minima indicazione che si sia attribuita qualche importanza o solo anche qualche attenzione al fatto che il presbitero celebrasse con il popolo davanti a sé oppure dietro a sé. Come ha dimostrato Cyrille Vogel, l’unica cosa su cui si sia veramente insistito e di cui sia fatta menzione è che egli doveva dire la preghiera eucaristica, al pari di tutte le altre preghiere, rivolto verso oriente … Anche quando l’orientamento della Chiesa permetteva al celebrante di pregare rivolto verso il popolo allorché era all’altare, non era solo il presbitero a doversi volgere verso oriente: era l’assemblea intera che lo faceva insieme a lui”.


Quanto all’Ultima Cena, si legge: “In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, o distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma. Da nessuna parte, dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta venire l’idea di mettersi di fronte al popolo per presiedere un pasto. Anzi, il carattere comunitario del pasto era messo in risalto proprio dalla disposizione contraria, cioè dal fatto che tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato della tavola”.
In ogni caso, l’autore si prende immediatamente cura di segnalare che secondo la dottrina cattolica l’immagine del “pasto” e del “banchetto” è totalmente insufficiente a determinare la natura della celebrazione eucaristica. Per l’allora cardinale “il Signore ha indubbiamente istituito la novità del culto cristiano nell’ambito di un banchetto pasquale ebraico, ma ci ha comandato di ripeter questa novità, non il banchetto come tale”.


All’atto pratico, l’effetto più notevole della modifica apportata è di aver reso il sacerdote (e non più Dio) il centro della celebrazione. “Tutto termina su di lui. È lui cui bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione […]. L’attenzione è sempre meno rivolta a Dio ed è sempre più importante quello che fanno le persone […]. Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era «celebrazione verso la parete», non significava che il sacerdote «volgeva le spalle al popolo»: egli non era poi considerato così importante” (p. 76 del testo cit.). Insomma “si è così introdotta una clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza” – in stridente contrasto con i fini dichiarati della riforma.


Vale la pena di sottolineare che le righe citate poco sopra, in cui l’attuale Papa disapprova la riduzione della celebrazione eucaristica a memoria di una cena, vanno a toccare tutto l’argomento della svalutazione dell’aspetto sacrificale proprio dell’eucaristia, svalutazione portata avanti da molti ambienti nel postconcilio. 

Nel citato libro-intervista “Rapporto sulla fede” leggiamo: “La Messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti per commemorare l\’ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane. La messa è il sacrificio comune della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi e a noi si partecipa. È la rinnovazione sacramentale del sacrificio di Cristo”. La presenza reale del Signore nelle specie consacrate genera poi del tutto legittimamente forme di culto eucaristico anche esterne al rito della Messa: “Si è dimenticato che l\’adorazione è un approfondimento della comunione. Non si tratta di una devozione «individualistica» ma della prosecuzione o della preparazione del momento comunitario. Bisogna poi continuare in quella pratica, così cara al popolo (a Monaco di Baviera, quando la guidavo, vi partecipavano decine di migliaia di persone) della processione del Corpus Domini. Anche su questa gli «archeologi» della liturgia hanno da ridire, ricordando che quella processione non c\’era nella Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui quanto già dissi: al sensus fidei del popolo cattolico deve essere riconosciuta la possibilità di approfondire, di portare alla luce, secolo dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che gli è affidato”.

Unità nella diversità
Abbiamo seguito i dettagli di una riforma liturgica che, secondo papa Benedetto XVI, non ha rispettato al meglio le richieste del concilio Vaticano II. Nelle parole del Papa che abbiamo riportato sono emerse varie proposte concrete di revisione della riforma: reintroduzione della celebrazione verso oriente, valorizzazione del sacro silenzio nel canone eucaristico, maggior spazio alla lingua liturgica universale e al canto gregoriano – e si tratta sempre di punti che vanno nella direzione di una maggiore aderenza all’ultimo concilio, nello spirito da più parti richiamato di una “riforma della riforma”. Un altro punto caldeggiato nei suoi scritti precedenti l’elezione papale, cioè la liberalizzazione dell’antica liturgia, è oggi in via di compimento per impulso del suo motu proprio Summorum Pontificum. Quale dovrebbe essere dunque l’evoluzione della riforma liturgica secondo il Papa? I due filoni menzionati sono infatti ben distinti: Benedetto XVI mira a una restaurazione dell’antica liturgia, ovvero punta a rettificare la liturgia esistente? Il Papa stesso non ha mancato di accennare una risposta a questa fondamentale questione. 

Ne “Il sale della terra”, p. 200, in replica a una domanda sulla opportunità di restaurare il rito tradizionale, il futuro Benedetto XVI risponde: “Da sola, questa non è una soluzione. […] un semplice ritorno all\’antico non è una soluzione. La nostra cultura si è così trasformata negli ultimi trent\’anni che una liturgia celebrata esclusivamente in latino comporterebbe un\’esperienza di estraniamento insuperabile per molte persone. Quello di cui abbiamo bisogno è una nuova educazione liturgica, soprattutto dei sacerdoti. […] I luoghi dove la liturgia viene celebrata senza fronzoli e in modo riverente esercitano notevole forza di attrazione, anche se non si capisce ogni suo singolo elemento. Abbiamo bisogno di luoghi come questi, capaci di offrire dei modelli”. Indietro non si torna. Piaccia o meno, l’atteggiamento che prevede la pura e semplice restaurazione del passato non è in sintonia con l’intenzione del Papa. I motivi allegati sono stringenti: un conto è non piegarsi a concessioni eccessive e gratuite all’attualità, un altro è il non accorgersi dei devastanti mutamenti culturali sopraggiunti dagli anni dell’ultimo concilio in poi. In un altro luogo Papa Benedetto XVI rammenta come, da professore in Germania, poteva ancora permettersi di citare passi in latino all’uditorio studentesco certo di essere compreso; adesso non più.

Si tratta dunque di prendere in esame la liturgia riformata, espungerne gli abusi mano a mano introdotti, e ricondurla nell’alveo delle intenzioni espresse a chiare lettere dal concilio Vaticano II. Qual è in tale progetto il ruolo della restituzione all’uso della liturgia tradizionale? 

Lo stesso Pontefice lo spiega nella lettera di accompagnamento al motu proprio Summorum Pontificum scritta ai vescovi: “Le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione «Ecclesia Dei» in contatto con i diversi enti dedicati all’«usus antiquior» studierà le possibilità pratiche. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale”. 

La evoluzione “organica” delle due forme del rito romano deve dunque, per il Papa, riprendere di nuovo. Ed esse possono influenzarsi a vicenda: la forma tradizionale dovrà compiere gli aggiornamenti minimali (ad esempio circa il calendario liturgico) richiesti dal suo essere rimasta cristallizzata per quarantacinque anni. E soprattutto la forma riformata potrà e dovrà riconoscere nella forma antica un polo di attrazione, una norma a cui ispirarsi per tornare gradualmente nell’alveo della medesima evoluzione organica da cui gli anni della sperimentazione estrema l’avevano fatta uscire.


Le due forme potranno poi in futuro confluire in una – il Papa lascia aperta questa eventualità. Ma se anche non dovessero farlo, molte dichiarazioni passate e presenti dello stesso Pontefice lasciano capire che un certo pluralismo liturgico – pur nell’unità di fondo del rito – non sarebbe un male. Anzi, tale situazione di pluralismo si è sempre data all’interno del rito latino, senza minimamente danneggiare il culto: “Prima di Trento, la Chiesa ammetteva nel suo seno una diversità di riti e di liturgie. I Padri tridentini imposero a tutta la Chiesa la liturgia della città di Roma, salvaguardando, tra le liturgie occidentali, solo quelle che avessero più di due secoli di vita. È il caso, ad esempio, del rito ambrosiano della diocesi di Milano. Se potesse servire a nutrire la religiosità di qualche credente, a rispettare la pietas di certi settori cattolici, sarei personalmente favorevole al ritorno alla situazione antica, cioè a un certo pluralismo liturgico” (Rapporto sulla fede, cap. 9).


Nel già citato discorso tenuto a Roma, presso l\’Hotel Ergife il 24 ottobre 1998, in occasione delle celebrazioni per i dieci anni del Motu proprio "Ecclesia Dei", il futuro Papa Benedetto pronuncia le seguenti parole, che citiamo per esteso a conclusione di queste pagine: “C\’è una pericolosa tendenza a minimizzare il carattere sacrificale della Messa e ad indurre alla sparizione del mistero e del sacro con il pretesto – un pretesto asserito imperativo – che in questo modo ci si fa comprendere meglio. Infine si percepisce la tendenza a frammentare la liturgia, mettendo arbitrariamente in rilievo il suo carattere comunitario e conferendo all\’assemblea il potere di decidere riguardo alla celebrazione.


Esiste anche, fortunatamente, una certa avversione per un razionalismo pieno di banalità e per un pragmatismo di certi liturgisti, siano essi dei teorici o dei pratici, e si constata un ritorno al mistero, all\’adorazione, al sacro e al carattere cosmico ed escatologico della liturgia, come sottolineato dalla "Oxford Declaration on the Liturgy" del 1996. Occorre riconoscere, d\’altra parte, che la celebrazione della vecchia liturgia aveva perduto molto, rifugiandosi nell\’individualismo e nel privato, e che la comunione fra sacerdote e popolo era insufficiente. Ho grande rispetto per i nostri vecchi che durante la Messa bassa recitavano le orazioni contenute nei loro libri di preghiere, ma non si può certo considerare questo come l\’ideale di una celebrazione liturgica. Forse, queste riduzioni delle forme celebrative sono la vera ragione per cui in molti paesi la scomparsa dei vecchi libri liturgici non ha avuto peso e la loro perdita non ha causato dolore. Non c\’era mai stato, infatti, un contatto con la liturgia in sé. D\’altra parte, là dove il Movimento liturgico aveva suscitato un certo amore per la liturgia e aveva anticipato le idee essenziali del Concilio – come, ad esempio, la partecipazione di tutti nella preghiera all\’azione liturgica — proprio lì è stato maggiore il dolore, di fronte ad una riforma intrapresa troppo frettolosamente e spesso limitata all\’esteriorità. Là dove, invece, il Movimento liturgico non è mai esistito la riforma non ha sollevato, in un primo tempo, dei problemi. Questi sono sorti solo sporadicamente là dove il mistero sacro ha ceduto il posto ad una creatività selvaggia.


Per questo è molto importante osservare i principi essenziali della «Costituzione sulla sacra liturgia», che ho ricordati sopra, anche quando si celebra con il vecchio Messale. Nel momento in cui questa liturgia tocca profondamente i fedeli con la sua bellezza e ricchezza, allora essa sarà amata e non la si porrà più in contrapposizione inconciliabile con la nuova liturgia, purché i criteri siano fedelmente applicati secondo i desideri del Concilio.
Continueranno ad esistere, certamente, accenti spirituali e teologici differenti: non saranno due modi opposti di essere cristiani ma, al contrario, patrimonio della stessa ed unica fede.
Quando, pochi anni fa, qualcuno ha proposto «un nuovo movimento liturgico» per evitare che le due forme liturgiche si distanziassero troppo fra loro e per portare a frutto la loro intima convergenza, alcuni amici della vecchia liturgia hanno espresso il timore che questo fosse solo uno stratagemma o un trucco per ottenere finalmente la completa eliminazione della vecchia liturgia. Queste preoccupazioni e queste paure debbono finire! Se l\’unità della fede e l\’unicità del mistero appaiono chiaramente in entrambe le forme di celebrazione, ciò può essere solo motivo di rallegrarsi e ringraziare Dio. Quanto più noi tutti crediamo, viviamo e agiamo con tale motivazione, tanto più saremo capaci di persuadere i vescovi che la presenza dell\’antica liturgia non turba né rompe l\’unità delle loro diocesi, ma è invece un dono destinato a rafforzare il Corpo di Cristo, del quale siamo tutti i servitori.
Così, miei cari amici, vorrei esortarvi a non perdere la pazienza, a continuare ad essere fiduciosi e ad attingere dalla liturgia la forza per rendere testimonianza al Signore in questo nostro tempo.
Prof. Davide Ventura
novizio oblato
Bibliografia

Riportiamo una bibliografia essenziale dei libri pubblicati dall’attuale Pontefice, dandone l’edizione italiana consultata. Le citazioni nel testo, per quanto estese, non fanno ovviamente giustizia a un pensiero vasto e articolato, in cui il tema liturgico ricorre di frequente, a volte anche intrecciato insieme ad altri argomenti. Laddove possibile, un accesso diretto a tali opere è quindi insostituibile.

La festa della fede – Jaca Book – 1984
Rapporto sulla fede – Edizioni Paoline – 1985
Il sale della terra – San Paolo – 1997
Introduzione allo spirito della liturgia – San Paolo – 2001
Il Dio vicino – San Paolo – 2003
La comunione nella Chiesa – 2004
La fraternità cristiana – Queriniana – 2005
Fede, verità e tolleranza – Cantagalli – 2005
L’Europa di Benedetto – Cantagalli – 2005
Ragione e fede in dialogo – Marsilio – 2005
(prefazione a) Uwe Michael Lang – Rivolti al Signore – Cantagalli – 2006


AMDG et DVM

lunedì 30 agosto 2021

La liturgia non vive di sorprese ” simpatiche “, di trovate ” accattivanti “, ma di ripetizioni solenni.

 


SHOW… PER IL CATTOLICO, LA LITURGIA È LA PATRIA COMUNE…

“La liturgia non è uno show, uno spettacolo che abbisogni di registi geniali e di attori di talento. La liturgia non vive di sorprese ” simpatiche “, di trovate ” accattivanti “, ma di ripetizioni solenni. Non deve esprimere l’attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro. Molti hanno pensato e detto che la liturgia debba essere “fatta” da tutta la comunità, per essere davvero sua. È una visione che ha condotto a misurarne il ” successo ” in termini di efficacia spettacolare, di intrattenimento. In questo modo è andato però disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è lo assolutamente Altro che, attraverso la comunità (che non ne è dunque padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a noi”. “Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte stessa della sua identità: anche per questo deve essere ” predeterminata “, ” imperturbabile “, perché attraverso il rito si manifesta la Santità di Dio. Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata ” la vecchia rigidità rubricistica “, accusata di togliere ” creatività “, ha coinvolto anche la liturgia nel vortice del ” fai-da-te “, banalizzandola perché l’ha resa conforme alla nostra mediocre misura”

Joseph Ratzinger – Rapporto sulla Fede, 1985

AMDG et DVM

mercoledì 26 maggio 2021

giovedì 9 agosto 2018

QUESITI

Un sacerdote risponde

Altari e riforma della liturgia

      Quesito 

      Mi è capitato di partecipare alla Santa Messa in una Chiesa in cui c'è ancora il vecchio altare, quello che si usava prima della riforma, quando il sacerdote celebrava volgendo le spalle ai fedeli.
      Mossa da curiosità ho fatto chiedere al parroco come mai, è stato risposto che si è in attesa di costruire l'altare nuovo.
      E' necessaria una dispensa particolare per celebrare Messa cosi'? O la questione rientra nella diatriba sulla validità o meno del vecchio rito? ( cosa peraltro che mi è poco chiara, anzi se Padre Angelo fosse cosi' gentile da aprire un topic sull'argomento mi farebbe felice:) )
      Maria

      Ulteriore quesito 

      Ringrazio Maria perché ha preceduto la mia intenzione di intervenire su questo argomento.  Sarei oltremodo lieto che, per amore della verità, Padre Angelo facesse chiarezza su alcuni dubbi:
    
      La S. Messa celebrata secondo il rito introdotto dal papa S. Pio V è ancora valida? D'altro canto il nuovo rito introdotto da papa Paolo VI sostituisce l'antico rito oppure i due riti possono convivere liberamente? E ancora, il nuovo rito è valido?
    
      Per celebrare la S. Messa secondo il rito antico occorre una dispensa particolare oppure no? Perché tante volte viene negata la celebrazione secondo questo rito e nello stesso tempo vengono tollerati abusi durante la celebrazione eucaristica in chiaro contrasto con il Concilio stesso?
    
      I due riti sono espressione dell'Unica Chiesa Cattolica Apostolica Romana oppure solo uno dei due ne è il degno rappresentante?
    
      I seminari che formano sacerdoti in base alla Tradizione bimillenaria cattolica -penso ad es. all'Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote- sono riconosciuti dalla Santa Sede oppure no? I sacerdoti formati in questi istituti hanno "diritto di cittadinanza"? 

      Veritatem facientes in charitate


      Risposta del sacerdote 

      Carissimi Maria e "Veritatem facientes in charitate" 
      
      Le questioni sollevate sono molte. 
      Vedo di risolverle per punti. 
      
      1. La S. Messa celebrata secondo il rito introdotto dal papa S. Pio V è ancora valida? 
      Un conto è la validità e un altro è la liceità. 
      Perché la Messa sia valida è sufficiente che sia celebrata da un ministro ordinato (il presbitero) che abbia l’intenzione di celebrare e che pronunzi le parole consacratorie. 
      Per questo è valida anche la Messa celebrata da un prete apostata, scismatico, eretico, sospeso a divinis
      Perché sia lecita è necessario che il prete non abbia impedimenti canonici e che celebri secondo il rito approvato dalla Chiesa. 
      Ebbene, anche dopo la Riforma liturgica fu concesso ad alcuni preti anziani o infermi di celebrare secondo il vecchio rito, rivisto da Giovanni XXIII nel 1962 (p. Pio da Pietrelcina era tra questi). 
      Oggi, a certe condizioni, è concesso anche ad altri sacerdoti, secondo due indulti concessi da Giovanni Paolo II. 

[Ma la storia continua. In verità dopo il 14.settembre.2007 - per La Lettera Apostolica di sua Santità Benedetto XVI <MOTU PROPRIO DATA> "SUMMORUM PONTIFICUM"  del 7 luglio 2007 - "nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia religioso, può usare o il Messale Romano edito dal beato Papa Giovanni XXIII del 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione secondo l'uno o l'altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario" (art.2). Occorrerà leggere tutti e 12 gli Articoli finali della  suddetta Lettera Apostolica di Papa Benedetto XVI.]
    
      2. Perchè tante volte viene negata la celebrazione secondo questo rito?
      Talvolta è stato negato il permesso di celebrare secondo il vecchio rito perché coloro che ne facevano la domanda erano portati a mettere in discussione il valore del magistero della Chiesa (quello del Concilio e quello del post Concilio).
      Ora il Magistero della Chiesa, lo sappiamo bene, ha avuto garanzie da parte di Gesù Cristo e pertanto non va mai messo in discussione.
      Sappiamo a priori che il Magistero non può sbagliare, mentre i singoli si possono sbagliare. Pertanto, quando uno trova il proprio pensiero discordante con quello della Chiesa, il minimo che si possa fare è di dubitare della propria opinione e di aderire fedelmente a quanto insegna la Chiesa.
    
      3. e nello stesso tempo vengono tollerati abusi durante la celebrazione eucaristica in chiaro contrasto con il Concilio stesso?
      La Chiesa è sempre intervenuta circa gli abusi. Anche di recente Giovanni Paolo II ha richiamato circa alcuni abusi con l’istruzione Redemptionis Sacramentum. Ma se i soggetti non vogliono emendarsi, che cosa si può fare?
      Coloro che commettono abusi, sbagliano e non possono essere approvati. Ma non mettono in discussione l’autorità del Magistero.
    
      4. I due riti sono espressione dell'Unica Chiesa Cattolica Apostolica Romana oppure solo uno dei due ne è il degno rappresentante? 
      La risposta è chiara: tutti e due sono espressione dell'Unica Chiesa Cattolica Apostolica Romana. La Chiesa ha celebrato con il primo rito dal 1500 ad oggi. E con il secondo dal 1965 in qua.
      Nella storia della Chiesa l’Eucaristia è stata celebrata e viene ancora oggi celebrata secondo una molteplicità di riti.
      Ma chi decide sulla liceità dei riti non è il singolo, ma l’Autorità della Chiesa.
      Con la nuova riforma liturgica la Chiesa aveva proibito di celebrare secondo il rito precedente, a meno che uno non chiedesse l’indulto. E il motivo era facile da capire: era necessaria una certa uniformità. Bisognava evitare che un prete dicesse: “io prendo il nuovo rito” e un altro facesse il contrario. Ne sarebbe venuta fuori una grande confusione tra i fedeli.
      La Chiesa ha optato per il nuovo rito perché lo ha trovato più espressivo del precedente. Non bisogna dimenticare che i sacramenti sono segni sacri. E i segni devono essere leggibili, comprensibili.
    
      5. I seminari che formano sacerdoti in base alla Tradizione bimillenaria cattolica -penso ad es. all'Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote- sono riconosciuti dalla Santa Sede oppure no? I sacerdoti formati in questi istituti hanno "diritto di cittadinanza"?
      Accuso l’ignoranza: non so nulla dell’Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote e non so, di conseguenza, se sia riconosciuto dalla Santa Sede.
      San Domenico, quando ha fondato il suo Ordine, si è preoccupato per bene di avere al più presto l’approvazione della Santa Sede.
      Se l’Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote è riconosciuto, ha certamente diritto di cittadinanza, evidentemente secondo le condizioni sancite dalla Chiesa.
    
      6. Mi è capitato di partecipare alla Santa Messa in una Chiesa in cui c'è ancora il vecchio altare, quello che si usava prima della riforma, quando il sacerdote celebrava volgendo le spalle ai fedeli. Mossa da curiosità ho fatto chiedere al parroco come mai, è stato risposto che si è in attesa di costruire l'altare nuovo. E' necessaria una dispensa particolare per celebrare Messa cosi'?
    
      Non è necessario avere una dispensa per celebrare la Messa con l’altare fissato nel modo tradizionale. In tante chiese non è possibile voltare l’altare verso i fedeli: o perché non lo concedono le belle arti o per la ristrettezza del luogo o per altri mille motivi.
    
      7. O la questione rientra nella diatriba sulla validità o meno del vecchio rito? (cosa peraltro che mi è poco chiara, anzi se Padre Angelo fosse così gentile da aprire un topic sull'argomento mi farebbe felice).
    
      Non è necessario vedere dispute teologiche o liturgiche dappertutto. Il più delle volte l’altare non è stato girato per i motivi che ho esposto.
      Nella Basilica di San Domenico a Bologna, nella Cappella che custodisce i resti mortali di San Domenico, l’altare è un tutt’uno con l’Arca. Non si può girare e sarebbe un insulto al buon gusto girarlo. La stessa cosa per l’altare che forma un tutt’uno con il sarcofago che custodisce i resti di sant’Antonio a Padova o quelli di Sant’Agostino nella Chiesa in Ciel d’oro a Pavia.
    
      Con questa risposta mi auguro di aver reso felice la nostra Maria e sinceramente convinto anche colui che si è firmato Veritatem facientes in charitate.
      Vi accompagno con la mia preghiera e vi benedico. 

      Padre Angelo

      Ulteriore intervento 

      Ringrazio Padre Angelo per le risposte alle domande poste. Personalmente non ho mai messo in discussione il magistero della Chìesa o il Concilio Vaticano II, però ho voluto porre queste questioni per amore della chiarezza e della verità. Non capisco soltanto perché a gruppi che pure sono in comunione con la S. Sede ai quali l'amato Giovanni Paolo II aveva concesso l'indulto, di fatto i Vescovi delle singole diocesi molto spesso negano la possibilità di celebrare la S. Messsa in base al Messale del 1962; considerarato il fatto che nella promulgazione del Novus Ordo papa Paolo VI non ha mai abolito l'antico rito. Di recente, infatti, il Cardinale Medina Estèvez ha dichiarato che quando celebra la S.Messa secondo l'antico rito non chiede il permesso a nessuno in quanto questo rito non potrà mai essere abolito per ragioni giuridiche.Se non sbaglio con la promulgazione del Messale S. Pio V voleva fermare le spinte protestanti, scegliendo il rito romano tradizionale: la Messa quale era celebrata sostanzialmente uguale a Roma fin dai tempi apostolici. Mi sembra che l’antico rito sia più attento all'universalità,al cristocentrismo, a una certa definizione dei ruoli, a una maggiore compostezza, alla tradizione e progresso nella liturgia, al sacrificio della croce che non è una mera ripetizione simbolica. Questi sono pareri di un misero studente, quale sono io, che per quanto possibile si sente in dovere di difendere un patrimonio di fede e spiritualità in obbedienza alla S. Sede.
      _________________
      Veritatem facientes in charitate

      Risposta del sacerdote 

      Carissimo Veritatem facientes in caritate,
      i valori che hai sottolineato, e che emergevano dall’antico rito, sono valori della massima importanza. E la chiesa di oggi è ben consapevole che devono essere sempre tenuti vivi. La discussione dei Vescovi nell’Ultimo Sinodo sull’Eucaristia ne dà testimonianza.
      Sono certo che il documento che il papa consegnerà alla Chiesa probabilmente già nel prossimo anno li presenterà con nuova forza.
      Tra i valori che tu hai indicato io ne sottolineo due.
    
 *  Il primo valore riguarda quella realtà che tu chiami compostezza, e che io chiamerei “gravità” o “grandezza misteriosa” della celebrazione. C’è il pericolo, e non solo il pericolo, che le nostre liturgie eucaristiche siano buttate giù, nelle quali né il celebrante né i fedeli danno l’impressione di penetrare nel mistero.
      Il Concilio di Trento afferma che non vi è azione più sublime e più santa che celebrare l’Eucaristia: “Nullum aliud opus adeo sanctum a Christi fidelibus tractari posse quam hoc tremendum mysterium” (sessione 22).
      La compostezza o gravità nel partecipare all’Eucaristia non si improvvisa, ma va preparata. 

      Qui il discorso diventerebbe quanto mai ampio, perché c’è una preparazione remota e una preparazione prossima da compiere.
      Circa la preparazione remota mi limito ad osservare che il Concilio Vaticano II ha affermato in diversi punti che l’Eucaristia è la fonte e il culmine di tutta la vita cristiana. Tutta la nostra vita dunque dovrebbe essere orientata all’eucaristia da celebrare e dovrebbe essere un proseguimento dell’Eucaristia celebrata. 

      Inoltre c’è la preparazione prossima. Giovanni Paolo II, di santa memoria, si preparava all’Eucaristia stando per mezz’ora prostrato per terra. Dopo l’attentato stava seduto. Ma c’era mezz’ora di preparazione.
      E i nostri sacerdoti? E i nostri fedeli? 
      Il Codice di Diritto canonico ricorda ai sacerdoti la necessità “di prepararsi diligentemente con la preghiera alla celebrazione del Sacrificio eucaristico, e, dopo averlo terminato, di rendere grazie a Dio” (can. 909).
      La stessa cosa va detta per i fedeli.
    
   *   Il secondo valore, che tocca l’essenza stessa dell’Eucaristia, riguarda la perpetuazione del sacrificio della Croce sui nostri altari.
      Istituendo l’Eucaristia, Cristo ha inteso rendere contemporaneo a noi il sacrificio della croce
      San Paolo dice: “Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1 Cor 11,26).
      Penso a tanti santi che durante la celebrazione dell’eucaristia si commuovono fino alle lacrime.
      Fu chiesto un giorno a p. Pio da Pietrelcina come mai ci mettesse così tanto tempo per celebrare la Santa Messa. Rispose: “E vi par poco vedere Gesù che muore?”.
      Secondo me è sempre valida la risposta data dal medesimo p. Pio a chi gli chiedeva che cosa fosse per lui la Messa. P. Pio disse: “La Messa è un appuntamento sul Calvario”.
      E a chi gli chiedeva con quali sentimenti si dovesse partecipare all’Eucaristia, rispondeva: “Con i sentimenti della Madonna e di San Giovanni ai piedi della croce”.
      Molto dipende dal celebrante. Secondo l’Istruzione del Messale Romano egli deve celebrare in modo da scomparire e da lasciare in tutti la netta sensazione che in mezzo a loro Cristo perpetua il suo sacrificio per mezzo del sacerdote. Ecco le precise parole: il celebrante “nel modo di comportarsi e di pronunciare le parole divine deve far sentire ai fedeli la presenza viva di Gesù” (n. 93).
      E il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Tutti si riuniscono. I cristiani accorrono in uno stesso luogo per l’assemblea eucaristica. Li precede Cristo stesso, che è il protagonista principale dell’Eucaristia. E’ il grande sacerdote della Nuova Alleanza. E’ lui stesso che presiede in modo invisibile ogni celebrazione eucaristica. Proprio in quanto lo rappresenta, il vescovo o il presbitero (agendo « in persona Christi capitis » - nella persona di Cristo Capo) presiede l’assemblea, prende la parola dopo le letture, riceve le offerte e proclama la preghiera eucaristica” (CCC 1348).
      San Giovanni Crisostomo: “Nessuno partecipi a quegli inni sacri e mistici con un fervore rilassato. Ma ciascuno, sradicando dal proprio spirito tutto ciò che appartiene alla terra e trasferendosi tutto in cielo, come se si trovasse accanto al trono stesso della gloria e volasse insieme ai serafini, offra in questo modo l’inno santissimo al Dio della gloria e della magnificenza” (S. GIOVANNI CRISOSTOMO, De incomprehensibilitate Dei, 4,5)
    
      Invito tutti a partecipare all’Eucaristia tenendo sempre fisso lo sguardo su Gesù.
      Ringrazio Fabio per l’informazione data sull’Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote.
    
      Seguo tutti con la mia preghiera e con un ricordo particolare per tutti i nostri amici e visitatori nella celebrazione della S. Messa.
      Vi benedico.
      Padre Angelo

      Ulteriore intervento 

      Posso confermare che l'istituto di Cristo Re, di cui si chiedeva nel post precedente, é in piena comunione con Roma. Esso ha un seminario a Griciliano in provincia di Firenze, avvallendosi dell'indulto concesso nel 1988 dal Santo Padre celebra tutte le liturgie coi libri liturgici antecedenti il 1962. Quest'anno sono entrati in seminario ben 18 nuovi seminaristi!!
      questo é il sito dell'istituto www.icrsp.com
      Consiglio a tutti gli amanti della bella liturgia di partecipare, almeno una volta, ad una Messa presso il seminario di Griciliano....
    
      cordialmente Fabio

Pubblicato 05.01.2006
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AMDG et DVM

martedì 10 ottobre 2017

La potenza della sacra Liturgia

Un regalo da Oriente. Che cosa mi sta insegnando un monaco ortodosso

     
Per una circostanza che ritengo altamente provvidenziale in questi giorni mi è stato messo a disposizione l’insegnamento di un monaco ortodosso che mi sta fornendo una serie di osservazioni sulla vita di preghiera e di fede. È un’esperienza bellissima, sorprendente e stimolante, sotto diversi aspetti.
Ammetto di aver sempre avuto un debole per la spiritualità orientale, per molteplici motivi. Forse perché sono ambrosiano e dunque figlio di quell’Ambrogio che è santo anche per le Chiese d’Oriente e ha permesso di conservare nel rito che porta il suo nome influssi provenienti dall’universo bizantino. Forse perché gli orientali non hanno perso per strada, o l’hanno persa meno di noi cattolici, quella dimensione contemplativa che mi sembra così importante e che noi cristiani occidentali rischiamo spesso di considerare invece un po’ secondaria rispetto a quella operativa. Forse perché i riti orientali sono impregnati di una sacralità e di un senso del mistero (e di conseguenza di una bellezza) che fra i cattolici sono andati stemperandosi.
Sia come sia, sto vivendo questa opportunità di confrontarmi con un religioso ortodosso come un autentico dono del Cielo. Ed ecco che cosa mi ha colpito di più, finora.
Prima di tutto il fatto che, per loro, la divina liturgia (la nostra santa messa) è davvero azione sacra, per cui non va presa alla leggera, come semplice rappresentazione. Lì, in quel momento, non si mette in scena qualcosa, non va in onda qualcosa, non si fa una rievocazione, ma si celebra un mistero, la cui sacralità è massima. Ecco perché non è opportuno che alla divina liturgia prenda parte chi ha un altro credo.  Non è un’esclusione: è rispetto del mistero sacro in atto.  Certo, nessun uomo è in grado di vedere nel cuore di un altro uomo, per cui non ci sono, né potrebbero esserci, divieti. Il punto riguarda la considerazione che si ha per la liturgia.
È evidente che qui siamo dinnanzi a un’idea di sacro che da noi si è largamente persa o quanto meno appannata. Da noi la messa più che mistero sacro è diventata assemblea e incontro, e la chiesa, più che luogo reso sacro dalla presenza reale di Cristo e dal mistero eucaristico che lì si rinnova realmente, è diventata appunto il luogo dell’assemblea e dell’incontro. Ecco perché sentirmi dire che la divina liturgia merita il rispetto che si attribuisce alle cose più sacre mi ha lasciato dapprima stupito ma in un secondo tempo ammirato. Rispetto vuol dire anche cura dei dettagli. Vuol dire preservare quello spazio e quel tempo dalle brutture tipiche del mondo: la superficialità, il lasciar correre, il protagonismo, la maleducazione.
Sento già l’obiezione: ma questo è formalismo e, alla fine, fondamentalismo. Non lo so. A me sembra coerenza. Mi sembra giusta considerazione per il sacro e il mistero. Ma da noi è così difficile parlare di sacro e di mistero. Da noi, per esempio, nella liturgia tutto deve essere mostrato, spiegato, illustrato, compreso, digerito. Ma che cos’è l’azione liturgica senza mistero? A che cosa si riduce il sacro se tutto lo sforzo è didascalico? Il sacro non è in larga parte indicibile?
Sento già l’altra obiezione: ma questi sono discorsi preconciliari! Non lo so. A me sembra che da questo fratello d’Oriente mi stia arrivando una lezione salutare, sulla quale sto meditando seriamente.
In secondo luogo mi ha colpito il costante riferimento al giudizio del Signore. In una spiritualità come la nostra, ormai dominata dall’idea di misericordia come vaga consolazione, sentir parlare di nuovo del giudizio divino, e dunque del timor di Dio, è qualcosa che fa pensare. Da noi certe espressioni sono andate quasi perdute, perché la nostra spiritualità è impregnata di sentimentalismo: la fede come una terapia a scopo riabilitativo, il rito come un’esperienza emotiva, la preghiera, quando c’è, come esercizio utile al benessere psicofisico. Per cui l’idea di giudizio, così scomoda perché può anche inquietare e, sì, spaventare, è meglio emarginarla, offuscarla, lasciarla un po’ sullo sfondo, come il residuo di un passato dal quale ci si è finalmente liberati. E invece questo monaco ortodosso l’ha costantemente al centro della sua vita spirituale: tutto si fa in un certo modo, tutto si vive in un certo modo, tutto si pensa e si dice in un  certo modo perché si è giudicati già ora e perché saremo giudicati in via insindacabile e definitiva nell’aldilà. È spaventoso? Non lo so. A me sembra che sia grandioso. Che renda l’uomo grande e importante.
In terzo luogo mi ha colpito la richiesta di non restare sempre fanciulli nella fede. E anche qui il contrasto con la nostra spiritualità è forte. Da noi man mano che si è persa la dimensione del giudizio si è parallelamente incrementata quella della giustificazione, intesa come scusante, come discolpa, come difesa. Per ogni comportamento non in linea con la dottrina, morale o di altro tipo, ecco la scappatoia, ecco il tentativo di comprendere e, appunto, giustificare. Proprio come si fa (ma non si dovrebbe esagerare nemmeno con loro) quando si tratta con i bambini piccoli. Anzi, la dottrina stessa è piegata a questo fine: è bene che sia più flessibile, così da non impensierire nessuno, così da non turbare i nostri equilibri tanto fragili. Ma nella vita di fede non si può restare sempre piccoli nel senso di non sviluppati, di inconsapevoli, di incoscienti. Occorre crescere, proprio come nella vita fisica e affettiva. E per crescere ci vuole l’impegno, ci vuole lo studio, ci vuole l’applicazione, ci vuole la volontà. Altrimenti si resta fermi al sentimentalismo, altrimenti ci si costruisce una fede vaga, a propria misura.
E qui vengo all’ultimo punto: Dio come fine e misura, Gesù come via per la salvezza. Il monaco dice: concentra tutta la tua attenzione sul sacro nome di Cristo, perché è Lui la strada che porta a Dio e alla salvezza. Quindi ripeti spesso: Signore, abbi pietà di me, peccatore. Anche qui la misericordia divina è ben presente, ma non come gentile concessione che raggiunge, a pioggia, un po’ tutti, come elargizione vaga, benevola e comprensiva, bensì come dono, per la precisione dono di salvezza (il più grande, il più decisivo), per chi invoca pietà in quanto si riconosce peccatore! Il monaco suggerisce di esclamarlo a voce alta: Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore. Ripeterlo non farà mai male.
In poche parole, mi sto confrontando con una spiritualità al cui centro c’è Dio, non l’uomo. E c’è l’anima, non lo stato psicofisico. Giusto? Sbagliato? Ognuno può fare le proprie valutazioni.
Per quanto mi riguarda, è come riscoprire un tesoro rimasto a lungo velato, in un angolo. Sapevo della sua esistenza, sapevo che da qualche parte qualcuno l’aveva conservato. Ed ecco che ora, attraverso una via d’Oriente, inaspettatamente e immeritatamente, con semplicità e umiltà, ricevo una parola che mi aiuta a svelarlo. Un miracolo. Nel senso etimologico del termine: qualcosa di cui  meravigliarsi. E quindi qualcosa per cui ringraziare.
Aldo Maria Valli
AMDG et BVM

domenica 30 aprile 2017

UN MAGNIFICO TESTO di Papa BENEDETTO XVI


UN RARO TESTO INEDITO DI BENEDETTO XVI, DOPO LA RINUNCIA….”La causa più profonda della crisi che ha sconvolto la Chiesa risiede nell’oscuramento della priorità di Dio nella liturgia”



Nihil Operi Dei praeponatur — Nulla si anteponga al Culto divino. Con queste parole San Benedetto, nella sua Regola (43,3), ha stabilito la priorità assoluta del Culto divino rispetto a ogni altro compito della vita monastica. Questo, anche nella vita monastica, non risultava immediatamente scontato perché per i monaci era compito essenziale anche il lavoro nell’agricoltura e nella scienza.
Sia nell’agricoltura come anche nell’artigianato e nel lavoro di formazione potevano certo esserci delle urgenze temporali che potevano apparire più importanti della liturgia. Di fronte a tutto questo Benedetto, con la priorità assegnata alla liturgia, mette inequivocabilmente in rilievo la priorità di Dio stesso nella nostra vita: «All’ora dell’Ufficio divino, appena si sente il segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima sollecitudine» (43,1).
Nella coscienza degli uomini di oggi le cose di Dio e con ciò la liturgia non appaiono affatto urgenti. C’è urgenza per ogni cosa possibile. La cosa di Dio non sembra mai essere urgente. Ora, si potrebbe affermare che la vita monastica è in ogni caso qualcosa di diverso dalla vita degli uomini nel mondo, e questo è senz’altro giusto. E tuttavia la priorità di Dio che abbiamo dimenticato vale per tutti. Se Dio non è più importante, si spostano i criteri per stabilire quel che è importante. L’uomo, nell’accantonare Dio, sottomette se stesso a delle costrizioni che lo rendono schiavo di forze materiali e che così sono opposte alla sua dignità.
Negli anni successivi al Concilio Vaticano II sono nuovamente divenuto consapevole della priorità di Dio e della liturgia divina. Il malinteso della riforma liturgica che si è ampiamente diffuso nella Chiesa cattolica portò al mettere sempre più in primo piano l’aspetto dell’istruzione e della propria attività e creatività. Il fare degli uomini fece quasi dimenticare la presenza di Dio. In una tale situazione divenne sempre più chiaro che l’esistenza della Chiesa vive della giusta celebrazione della liturgia e che la Chiesa è in pericolo quando il primato di Dio non appare più nella liturgia e così nella vita. La causa più profonda della crisi che ha sconvolto la Chiesa risiede nell’oscuramento della priorità di Dio nella liturgia. Tutto questo mi portò a dedicarmi al tema della liturgia più ampiamente che in passato perché sapevo che il vero rinnovamento della liturgia è una condizione fondamentale per il rinnovamento della Chiesa. Sulla base di questa convinzione sono nati gli studi che sono raccolti nel presente volume 11 della Opera omnia. Ma al fondo, pur con tutte le differenze, l’essenza della liturgia in Oriente e Occidente è unica e la medesima. E così spero che questo libro possa aiutare anche i cristiani di Russia a comprendere in modo nuovo e meglio il grande regalo che ci è donato nella Santa Liturgia.
Benedetto XVI
Città del Vaticano, nella Festa di San Benedetto,
11 luglio 2015

Il testo che pubblichiamo è stato scritto dal papa emerito Benedetto XVI nel monastero Mater Ecclesiae. E questo è già di per sé un evento eccezionale, come l’ occasione che lo ha motivato. Joseph Ratzinger compie novant’ anni, proprio nel giorno di Pasqua.
Per una combinazione assai rara, quest’ anno la data della Pasqua è la stessa per cattolici e ortodossi. Come regalo speciale, al Papa emerito sarà donata una copia del volume XI della sua opera omnia, Teologia della liturgia , tradotto e pubblicato in russo a cura del Patriarcato di Mosca. Un’ iniziativa preparata da tempo – per la traduzione, curata da Olga Aspisova, ci sono voluti quasi tre anni – che proseguirà con la pubblicazione in russo della trilogia su Gesù di Nazaret. Il tutto grazie alla cooperazione scientifica ed editoriale tra la casa editrice del Patriarcato di Mosca, la Libreria editrice vaticana, la Fondazione Ratzinger e l’ Accademia internazionale «Sapientia et Scientia», fondata e presieduta dalla professoressa Giuseppina Cardillo Azzaro e che riunisce personalità della cultura e della scienza «dell’ Oriente e dell’ Occidente d’ Europa» ed esponenti della Chiesa cattolica e di quella ortodossa. Il valore ecumenico dell’ iniziativa è evidente. Un’ occasione così importante da convincere il Papa emerito a scrivere la prefazione all’ edizione russa.

Il testo porta, non a caso, la data dell’ 11 luglio 2015: il giorno di San Benedetto, patrono d’ Europa. In uno degli interventi centrali del suo pontificato, il discorso memorabile al Collège des Bernardins di Parigi, il 12 settembre 2008, Joseph Ratzinger aveva spiegato come il monachesimo di San Benedetto avesse salvato il patrimonio del pensiero antico e formato la cultura europea grazie a quei monaci che avevano come obiettivo « quaerere Deum », cercare Dio. In uno dei suoi libri più celebri, l’ Introduzione al cristianesimo ( Einführung in das Christentum , 1967), riportava l’ apologo del clown e del villaggio in fiamme narrato da Søren Kierkegaard: il circo che s’ incendia, il clown mandato a chiamare aiuto al villaggio vicino, la gente che «ride fino alle lacrime» davanti alle sue grida, villaggio e circo distrutti dal fuoco. Così, nel testo scritto dal Papa emerito per l’ edizione russa del volume sulla liturgia, si vede la coerenza profonda del suo pensiero: la preoccupazione per un mondo nel quale «la cosa di Dio non sembra mai essere urgente», per la Chiesa che «è in pericolo quando il primato di Dio non appare più nella liturgia e così nella vita». Per questo si comincia dal volume sulla liturgia. «Ho fatto leggere questa prefazione ad amici ortodossi: “È fortissima”, mi hanno detto quasi commossi, “si vede che siamo in profonda sintonia”» racconta il professor Pierluca Azzaro, curatore e traduttore dell’ edizione italiana dell’ Opera omnia e presidente vicario della Accademia «Sapientia et Scientia»: «Il preziosissimo ponte che Joseph Ratzinger getta tra Oriente e Occidente riguarda la liturgia: e indica la strada non vaga e utopica, ma concreta e viva per un vero cammino di rinascita che veda mano nella mano cattolici e ortodossi».

BARTOLOMEO 4
dal Corriere della Sera – 15 aprile 2017, Gian Guido Vecchi
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