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martedì 3 marzo 2015

La lingua della celebrazione liturgica


La lingua della celebrazione liturgica

di Uwe Michael Lang, C.O.*
La lingua non è soltanto uno strumento che serve per comunicare fatti, e deve farlo nel modo più semplice ed efficiente, ma è anche il mezzo per esprimere la nostra mens in un modo che coinvolga tutta la persona. Di conseguenza, la lingua è anche il mezzo in cui si esprimono i pensieri e le esperienze religiosi.
La lingua adoperata nel culto divino, ovvero la “lingua sacra” non si spinge fino alla glossolalia (cf 1Cor 14) o al mistico silenzio, escludendo completamente la comunicazione umana, o almeno tentando di farlo. Tuttavia, si riduce l’elemento della comprensibilità a favore di altri elementi, in particolare quello espressivo. Christine Mohrmann, la grande storica del latino dei cristiani, afferma che la lingua sacra è un modo specifico di “organizzare” l’esperienza religiosa. Infatti, la Mohrmann sostiene che ogni forma di credere nella realtà soprannaturale, nell’esistenza di un essere trascendente, conduce necessariamente all’adozione di una forma di lingua sacra nel culto, mentre un laicismo radicale porta a respingere ogni forma di essa. In tal senso, il Cardinale Albert Malcolm Ranjith ha ricordato in un’intervista: «L’uso di una lingua sacra è tradizione in tutto il mondo. Nell’Induismo la lingua di preghiera è il sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi solo i monaci buddisti studiano. Nell’Islam si impiega l’arabo del Corano. L’uso di una lingua sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell’al-di-là» (La Repubblica, 31 luglio 2008, p. 42).
L’uso di una lingua sacra nella celebrazione liturgica fa parte di ciò che san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae chiama la solemnitas. Il Dottore Angelico insegna: «Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono» (Summa Theologiae III, 64, 2; cf. 83, 4).
La lingua sacra, essendo il mezzo di espressione non solo degli individui, ma di una comunità che segue le sue tradizioni, è conservatrice: mantiene le forme linguistiche arcaiche con tenacia. Inoltre, vengono introdotti in essa elementi esterni, in quanto associazioni ad un’antica tradizione religiosa. Un caso paradigmatico è il vocabolario biblico ebraico nel latino usato dai cristiani (amen, alleluiaosanna ecc.), come ha osservato già sant’Agostino (cf. De doctrina christiana II, 34-35 [11,16]).
Lungo la storia, si è adoperata un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali, come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico; il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti occidentali. In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre, lo sviluppo dellalatinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente.
La distanza fra il latino liturgico e la lingua del popolo divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. Questa situazione non favoriva la partecipazione dei fedeli nella liturgia e perciò il Concilio Vaticano II volle estendere l’uso del vernacolo, già introdotto in una certa misura nei decenni precedenti, nella celebrazione dei sacramenti (Costituzione sulla Sacra LiturgiaSacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2). Allo stesso tempo, il Concilio ha sottolineato che «l’uso della lingua latina […] sia conservato nei riti latini» (ibid., art. 36, n. 1; cf. anche art. 54). Comunque, i Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata totalmente sostituita dal vernacolo. La frammentazione linguistica del culto cattolico si è spinta così oltre, che molti fedeli oggi possono a stento recitare unPater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma e altrove. In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Senz’altro il latino contribuisce al carattere sacro e stabile «che attrae molti all’antico uso», come scrive il Santo Padre Benedetto XVI nella sua Lettera ai Vescovi, in occasione della pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007). Con l’uso più ampio della lingua latina, scelta del tutto legittima, ma poco usata, «nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità» (ibid.).
Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacolare, come fa notare con esemplare chiarezza l’Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti sulla traduzione dei libri liturgici Liturgiam authenticam del 2001. Un frutto notevole di questa istruzione è la nuova traduzione inglese del Missale Romanum che verrà introdotta in molti paesi anglofoni nel corso di quest’anno.
ROMA, mercoledì, 9 febbraio 2011 (ZENIT.org).- 
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*Padre Uwe Michael Lang è Officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

mercoledì 19 novembre 2014

lunedì 17 novembre 2014

Binomio inscindibile

Molto opportunamente offriamo ai lettori la sintesi della relazione del prof. De Mattei su Il latino,la lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità, tenuta a Roma in occasione del Convegno "Summorum Pontificum" del 14-15 maggio 2011 



De Mattei: latino e Chiesa cattolica, binomio inscindibile.

Il prof. de Mattei ha affrontato un argomento che, potremmo dire, è coessenziale al nome stesso del nostro blog [http://blog.messainlatino.it/]Il latino, lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità.

La tesi dello storico, sostenuta con dovizia di riferimenti documentali  che qui, ovviamente, non possiamo riportare, è che la lingua latina sia costitutiva della stessa liturgia cristiana: non, quindi, elemento accidentale che può essere tranquillamente abrogato o modificato.

E' vero che la prima liturgia cristiana fu espressa nel greco dellakoiné, ma fin dai primi secoli a Roma l'utilizzo del latino si diffonde, secondo quanto possiamo ricostruire dai resti epigrafici.

Papa San Damaso, nel IV secolo, benché spagnolo di nascita, rafforzò la romanità, nelle sue due articolazioni: da un lato lapetrinitas, cioè il primato del romano pontefice, dall'altro lalatinitas, ossia la romanità della Chiesa . A lui si deve l'adozione della lingua latina come lingua universale della Chiesa, che esprime una rinnovata Weltanschauung della Chiesa.

Quando Teodosio il Grande vinse la battaglia del Frigido contro i pagani barbari, si saldò definitivamente l'unione tra il romano impero e la Fede cristiana. Fino alla riforma liturgica, si continuò quindi a pregare per il romanus imperator, anche se il Sacro Romano Impero era stato dissolto nel 1806 e la stessa casa di Asburgo, che aveva per secoli cinto il serto imperiale, era decaduta nel 1918.

La liturgia della Chiesa non nasce nel IV-V secolo, ma in quel tempo essa fu codificata in stretta aderenza al traditum: in un rescritto del 416 Innocenzo I attesta come la Liturgia romana rappresentava l'antico costume fedelmente conservato. E' la tradizione di sempre, però romanamente sfrondata delle ampollosità che in Oriente ebbero tanto successo.

Il latino arrivò con la fede là dove le legioni romane non misero mai piede, come in Irlanda: ecco la risposta migliore contro chi crede che la Fede si sia inculturata nella latinità, e non viceversa. Le genti irlandesi non parlavano affatto il latino, e l'evangelizzazione avvenne in gaelico, ma accolsero la liturgia nella sua pura forma latina, la fecero propria e la difesero nei secoli contro le più dure persecuzioni.

Lungi dall'inculturarsi nella (inesistente) latinità irlandese, la Fede trapiantò la latinità nell'Irlanda e da là, grazie ai 40 benedettini irlandesi, si diffuse alla Scozia e pure in Inghilterra a sud del Vallo di Adriano, dove era quasi estinto perfino il ricordo dell'Impero romano. Da lì, ulteriormente, in Germania, altro territorio ove le legioni erano state fermate nella selva di Teutoburgo e la latinità romana non era prima pervenuta.

Il greco ambì a divenire come il latino lingua universale, a causa del nazionalismo del patriarcato di Costantinopoli. Il patriarca ambiva a soppiantare il Papa, sul rilievo del primato politico della Seconda Roma (Costantinopoli) rispetto alla decaduta Roma che non aveva più imperatori. Ma in Oriente il Patriarca era soggetto al cesaropapismo imperiale e non valeva molto di un funzionario imperiale. Il greco scomparve gradualmente, poi, per effetto delle invasioni musulmane.

Quando l'Impero romano rinacque con Carlo Magno, la latinitasriassunse anche un ruolo politico di unificazione; e quando nel Basso Medioevo iniziarono a diffondersi le lingue nazionali, l'uso del latino non declinò, e restò la lingua internazionale fino al XVIII secolo, la lingua della Chiesa, della scienza, della diplomazia.

Vi è una necessità, sia pure storia e non metafisica, di relazione tra il cattolicesimo e la lingua latina. Quel binomio che il padre Chénu, alla vigilia del Concilio, si proponeva di spezzare eliminando il latino dalla vita della Chiesa. Il movimento liturgico pure auspicava un rinnovamento in tal senso in nome di una maggior partecipazione dei fedeli alla liturgia. Ma a questi aneliti rispondeva Giovanni XXIII con la Veterum Sapientia, promulgata con la massima solennità (il giorno della Cattedra di Pietro, in San Pietro, davanti a numerosi cardinali e vescovi), che alla vigilia del Concilio, e come ad orientarne gli esiti, chiedeva non solo di conservare l'uso del latino, ma di incrementarne e restaurarne l'utilizzo. Il documento riconosce che la Chiesa ha necessità di una sua lingua propria, non nazionale ma universale, sacra e non ordinaria e volgare, e dal significato univoco e non mutevole nel tempo, per trasmettere la medesima dottrina: unica, per il suo governo, e sacra, per il suo rito. La Chiesa, ontologicamente immutabile, non può affidare alla fluttuazione linguistica la trasmissione delle sue Verità.

E' significativo che anche il codice canonico per le chiese orientali sia sempre stato in lingua latina.

Nessun'altra lingua al mondo possiede del latino le caratteristiche di universalità e, al tempo stesso, di essere aliena ai nazionalismi. La massoneria internazionale da sempre ricerca una società perfetta che parli un'unica lingua ed ha escogitato l'esperanto, però miseramente fallito; mai ha pensato di utilizzare allo stesso fine il latino, per odio alla Chiesa.

L'uso della lingua volgare è una caratteristica di tutte le eresie di questo millennio, a cominciare da quella catara.


L'intervento del prof. de Mattei è stato interrotto a questo punto dall'arrivo dal card. Castrillòn Hoyos, che è stato accolto da un calorosissimo applauso.

Ricorda la Genesi che la divisione delle lingue è conseguenza del peccato degli uomini. Gli Apostoli necessariamente evangelizzarono in tutte le lingue, ma il giorno di Pentecoste lo Spirito riportò tutti alla compresione unitaria delle lingue: logico quindi che la Chiesa di Dio si serva di un'unica lingua per tutti. La lingua latina, ricordava Giovanni XXIII, fu scelta dalla Provvidenza come lingua della Chiesa, portata ovunque dalle antiche vie consolari. L'unità linguistica resta un modello e un ideale; e se nella predicazione è giocoforza utilizzare la lingua vernacola, il rito e la liturgia richiedono l'unica lingua sacra. Fu un grave errore del postconcilio che la Chiesa si facesse immanente al mondo rinunziando alla sua lingua, proprio quando l'incipiente mondializzazione avrebbe richiesto un gesto in senso esattamente contrario.

Oggi la Chiesa dovrebbe riaffermare la sua romanitas latinitas; e in esse trova pieno spazio il rito romano antico riportato alla Chiesa dal motu proprio Summorum Pontificum. Ricordando che Pio XII scriveva che il sacerdote che misconoscesse il latino era afflitto da una "deplorevole miseria intellettuale".

Lunga standing ovation finale.
Enrico

"San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia contro le insidie e la malvagità del demonio e sii nostro aiuto.

Te lo chiediamo supplici che il Signore lo comandi.

E tu, principe della milizia celeste, con la potenza che ti viene da Dio, ricaccia nell'inferno Satana e gli altri spiriti maligni, che si aggirano per il mondo a perdizione della anime. Amen."

lunedì 15 settembre 2014

Sacramentum Caritatis, di papa Benedetto XVI


61. L'Assemblea sinodale si è soffermata a considerare la qualità della partecipazione nelle grandi celebrazioni che avvengono in circostanze particolari, in cui vi sono, oltre ad un grande numero di fedeli, anche molti sacerdoti concelebranti.(181) Da una parte, è facile riconoscere il valore di questi momenti, specialmente quando presiede il Vescovo attorniato dal suo presbiterio e dai diaconi. Dall'altra, in tali circostanze possono verificarsi problemi quanto all'espressione sensibile dell'unità del presbiterio, specialmente nella preghiera eucaristica, e quanto alla distribuzione della santa Comunione. Si deve evitare che tali grandi concelebrazioni creino dispersione. A ciò si provveda con strumenti adeguati di coordinamento e sistemando il luogo di culto in modo da consentire ai presbiteri e ai fedeli la piena e reale partecipazione. Comunque, occorre tener presente che si tratta di concelebrazioni d'indole eccezionale e limitate a situazioni straordinarie.



62. Quanto affermato non deve, tuttavia, mettere in ombra il valore di queste grandi liturgie. Penso in questo momento, in particolare, alle celebrazioni che avvengono durante incontri internazionali, oggi sempre più frequenti. Esse devono essere giustamente valorizzate. Per meglio esprimere l'unità e l'universalità della Chiesa, vorrei raccomandare quanto suggerito dal Sinodo dei Vescovi, in sintonia con le direttive del Concilio Vaticano II: (182) eccettuate le letture, l'omelia e la preghiera dei fedeli, è bene che tali celebrazioni siano in lingua latina; così pure siano recitate in latino le preghiere più note(183) della tradizione della Chiesa ed eventualmente eseguiti brani in canto gregoriano. Più in generale, chiedo che i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia.(184)


Celebrazioni eucaristiche in piccoli gruppi
63. Una situazione assai diversa è quella che si viene a creare in alcune circostanze pastorali in cui, proprio per una partecipazione più consapevole, attiva e fruttuosa, si favoriscono le celebrazioni in piccoli gruppi. Pur riconoscendo la valenza formativa sottesa a queste scelte, è necessario precisare che esse devono essere armonizzate con l'insieme della proposta pastorale della Diocesi. Infatti, tali esperienze perderebbero il loro carattere pedagogico, se fossero sentite in antagonismo o in parallelo rispetto alla vita della Chiesa particolare. A tale proposito, il Sinodo ha evidenziato alcuni criteri ai quali attenersi: i piccoli gruppi devono servire a unificare la comunità, non a frammentarla; ciò deve trovare convalida nella prassi concreta; questi gruppi devono favorire la partecipazione fruttuosa dell'intera assemblea e preservare, per quanto possibile, l'unità della vita liturgica delle singole famiglie.(185)

Mater Boni Consilii, ora pro nobis.

venerdì 26 aprile 2013

Oggi la Chiesa dovrebbe riaffermare la sua romanitas e latinitas.



De Mattei: latino e Chiesa cattolica, binomio inscindibile.

Il prof. de Mattei ha affrontato l'argomento molto caro al nostro blog: Il latino, lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità.

La tesi dello storico, sostenuta con dovizia di riferimenti documentali  che qui, ovviamente, non possiamo riportare, è che la lingua latina sia costitutiva della stessa liturgia cristiana: non, quindi, elemento accidentale che può essere tranquillamente abrogato o modificato.

E' vero che la prima liturgia cristiana fu espressa nel greco della koiné, ma fin dai primi secoli a Roma l'utilizzo del latino si diffonde, secondo quanto possiamo ricostruire dai resti epigrafici.

Papa San Damaso, nel IV secolo, benché spagnolo di nascita, rafforzò la romanità, nelle sue due articolazioni: da un lato la petrinitas, cioè il primato del romano pontefice, dall'altro la latinitas, ossia la romanità della Chiesa . A lui si deve l'adozione della lingua latina come lingua universale della Chiesa, che esprime una rinnovata Weltanschauung della Chiesa.

Quando Teodosio il Grande vinse la battaglia del Frigido contro i pagani barbari, si saldò definitivamente l'unione tra il romano impero e la Fede cristiana. Fino alla riforma liturgica, si continuò quindi a pregare per il romanus imperator, anche se il Sacro Romano Impero era stato dissolto nel 1806 e la stessa casa di Asburgo, che aveva per secoli cinto il serto imperiale, era decaduta nel 1918.

La liturgia della Chiesa non nasce nel IV-V secolo, ma in quel tempo essa fu codificata in stretta aderenza al traditum: in un rescritto del 416 Innocenzo I attesta come la Liturgia romana rappresentava l'antico costume fedelmente conservato. E' la tradizione di sempre, però romanamente sfrondata delle ampollosità che in Oriente ebbero tanto successo.

Il latino arrivò con la fede là dove le legioni romane non misero mai piede, come in Irlanda: ecco la risposta migliore contro chi crede che la Fede si sia inculturata nella latinità, e non viceversa. Le genti irlandesi non parlavano affatto il latino, e l'evangelizzazione avvenne in gaelico, ma accolsero la liturgia nella sua pura forma latina, la fecero propria e la difesero nei secoli contro le più dure persecuzioni.

Lungi dall'inculturarsi nella (inesistente) latinità irlandese, la Fede trapiantò la latinità nell'Irlanda e da là, grazie ai 40 benedettini irlandesi, si diffuse alla Scozia e pure in Inghilterra a sud del Vallo di Adriano, dove era quasi estinto perfino il ricordo dell'Impero romano. Da lì, ulteriormente, in Germania, altro territorio ove le legioni erano state fermate nella selva di Teutoburgo e la latinità romana non era prima pervenuta.

Il greco ambì a divenire come il latino lingua universale, a causa del nazionalismo del patriarcato di Costantinopoli. Il patriarca ambiva a soppiantare il Papa, sul rilievo del primato politico della Seconda Roma (Costantinopoli) rispetto alla decaduta Roma che non aveva più imperatori. Ma in Oriente il Patriarca era soggetto al cesaropapismo imperiale e non valeva molto di un funzionario imperiale. Il greco scomparve gradualmente, poi, per effetto delle invasioni musulmane.

Quando l'Impero romano rinacque con Carlo Magno, la latinitas riassunse anche un ruolo politico di unificazione; e quando nel Basso Medioevo iniziarono a diffondersi le lingue nazionali, l'uso del latino non declinò, e restò la lingua internazionale fino al XVIII secolo, la lingua della Chiesa, della scienza, della diplomazia.

Vi è una necessità, sia pure storia e non metafisica, di relazione tra il cattolicesimo e la lingua latina. Quel binomio che il padre Chénu, alla vigilia del Concilio, si proponeva di spezzare eliminando il latino dalla vita della Chiesa. Il movimento liturgico pure auspicava un rinnovamento in tal senso in nome di una maggior partecipazione dei fedeli alla liturgia. Ma a questi aneliti rispondeva Giovanni XXIII con la Veterum Sapientia, promulgata con la massima solennità (il giorno della Cattedra di Pietro, in San Pietro, davanti a numerosi cardinali e vescovi), che alla vigilia del Concilio, e come ad orientarne gli esiti, chiedeva non solo di conservare l'uso del latino, ma di incrementarne e restaurarne l'utilizzo. Il documento riconosce che la Chiesa ha necessità di una sua lingua propria, non nazionale ma universale, sacra e non ordinaria e volgare, e dal significato univoco e non mutevole nel tempo, per trasmettere la medesima dottrina: unica, per il suo governo, e sacra, per il suo rito. La Chiesa, ontologicamente immutabile, non può affidare alla fluttuazione linguistica la trasmissione delle sue Verità.

E' significativo che anche il codice canonico per le chiese orientali sia sempre stato in lingua latina.

Nessun'altra lingua al mondo possiede del latino le caratteristiche di universalità e, al tempo stesso, di essere aliena ai nazionalismi. La massoneria internazionale da sempre ricerca una società perfetta che parli un'unica lingua ed ha escogitato l'esperanto, però miseramente fallito; mai ha pensato di utilizzare allo stesso fine il latino, per odio alla Chiesa.

L'uso della lingua volgare è una caratteristica di tutte le eresie di questo millennio, a cominciare da quella catara.

L'intervento del prof. de Mattei è stato interrotto a questo punto dall'arrivo dal card. Castrillòn Hoyos, che è stato accolto da un calorosissimo applauso.

Ricorda la Genesi che la divisione delle lingue è conseguenza del peccato degli uomini. Gli Apostoli necessariamente evangelizzarono in tutte le lingue, ma il giorno di Pentecoste lo Spirito riportò tutti alla compresione unitaria delle lingue: logico quindi che la Chiesa di Dio si serva di un'unica lingua per tutti. La lingua latina, ricordava Giovanni XXIII, fu scelta dalla Provvidenza come lingua della Chiesa, portata ovunque dalle antiche vie consolari. L'unità linguistica resta un modello e un ideale; e se nella predicazione è giocoforza utilizzare la lingua vernacola, il rito e la liturgia richiedono l'unica lingua sacra. Fu un grave errore del postconcilio che la Chiesa si facesse immanente al mondo rinunziando alla sua lingua, proprio quando l'incipiente mondializzazione avrebbe richiesto un gesto in senso esattamente contrario.

Oggi la Chiesa dovrebbe riaffermare la sua romanitas latinitas; e in esse trova pieno spazio il rito romano antico riportato alla Chiesa dal motu proprio Summorum Pontificum. Ricordando che Pio XII scriveva che il sacerdote che misconoscesse il latino era afflitto da una "deplorevole miseria intellettuale".

Lunga standing ovation finale.
(da una conferenza del 14.5.2011 a Roma.Angelicum)

Enrico
AVE MARIA PURISSIMA

martedì 18 settembre 2012

Il cardinale Burke ha detto, secondo il Catholic News Service, che spera che la forma ordinaria della Messa venga davvero arricchita attraverso un maggiore uso del latino e del ripristino delle preghiere ai piedi dell'altare e dell'ultimo Vangelo (Gv 1, 1-14).


Il Card. Burke a Malta per il V anniversario del Summorum Pontificum


Nello scorso luglio 2012, in occasione del V anniversario del Summorum Pontificum il Card. Burke era a Malta. Grazie alla segnalazione di un lettore, proponiamo di seguito un articolo tratto dal sito tradizionale maltese Pro Tridentina (Malta), che riporta alcune frasi del porporato in difesa dell'applicazione del documento papale, e di critica verso le residue resistenze e verso le eccessive riforme post conciliari.
Roberto
*


Cinque anni fa (7 luglio 2007), Papa Benedetto XVI ha promulgato ilSummorum Pontificum, il suo motu proprio che permette ai sacerdoti di offrire la S. Messa nella forma straordinaria senza dover prima ottenere il permesso dai loro vescovi.
Il Cardinal Raymond Leo Burke ha lamentato ciò che lui chiama "resistenza a ciò che il Santo Padre ha chiesto.". La sua analisi è interessante, anche se triste: "Non c'è dubbio che ci rimane in alcuni luoghi una resistenza a ciò che il Santo Padre ha chiesto, e questo è triste."
"C'è a volte anche l'espressione di disaccordo con la disciplina del Santo Padre e questo è dannoso per la Chiesa."

Sui cambiamenti liturgici che seguirono il Concilio Vaticano II ha detto:
"C'è stata una spoliazione, un cambio della forma del rito, che a mio giudizio è stato eccessivo."
"Non ci si può impadronire di una realtà viva come il culto di Dio -così come Dio stesso ha voluto che Gli sia tributato-, e manometterlo senza fare violenza e senza in qualche modo danneggiare la fede del popolo."

Sul Novus Ordo Missae, il cardinale Burke ha detto, secondo i Catholic News Service. che spera che la forma ordinaria della Messa venga davvero arricchita attraverso un maggiore uso del latino e del ripristino delle preghiere ai piedi dell'altare e dell'ultimo Vangelo (Gv 1, 1-14).
da: Blog Messainlatino.it
Difendici, o Madre di Dio, 
con la tua protezione 
e solleva e conforta la nostra anima.

AMDG et DVM

lunedì 3 settembre 2012

Fascino del latino sui giovani sul Bollettino Salesiano. * In Vaticano traducono «indirizzo email» con «inscriptio cursus electronici»; mountain bike è “bírota montāna”, paracadute diventa “umbrella descensória”. ...


Nel 50° della Veterum Sapientia di Giovanni XXIII nascera una nuova 'Pontificia Academia Latinitatis' - Così Benedetto XVI vuole promuovere il latino

Così il Papa vuole promuovere il latino-
A lezione di latino - Benedetto XVI pubblicherà un motu proprio per istituire la «Pontificia Academia Latinitatis». E in Vaticano traducono «indirizzo email» con «inscriptio cursus electronici»di A. Tornielli, da Vatican Insider del 31.08.2012





Città del Vaticano
«Foveatur lingua latina». Papa Ratzinger vuole far crescere la conoscenza della lingua di Cicerone, di Agostino e di Erasmo da Rotterdam, nell’ambito della Chiesa ma anche della società civile e della scuola e sta per pubblicare un motu proprio che istituisce la nuova «Pontificia Academia Latinitatis». Fino ad oggi Oltretevere ad occuparsi di mantenere in vita l’antico idioma era stata una fondazione, «Latinitas» [qui anche il link alla pagina in latino del sito della Santa Sede, n.d.r.], rimasta sotto l’egida della Segreteria di Stato e ora destinata a scomparire: oltre a pubblicare l’omonima rivista e a organizzare il concorso internazionale «Certamen Vaticanum» di poesia e prosa latina negli anni si è occupata di tradurre in latino parole moderne.
L’imminente istituzione della nuova accademia pontificia che si affianca alle undici già esistenti – tra le quali ci sono le più note dedicate alle scienze e alla vita – è confermata in una lettera che il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della Cultura, ha inviato a don Romano Nicolini, un sacerdote riminese grande propugnatore del ritorno dell’ora di latino nella scuola media inferiore. Ravasi ha ricordato che l’iniziativa dell’Accademia è «voluta dal Santo Padre» ed è promossa dal dicastero vaticano della cultura [di cui il Card. Ravasi è presidente, n.d.r.]: vi faranno parte «eminenti studiosi di varie nazionalità, con finalità di promuovere l’uso e la conoscenza della lingua latina sia in ambito ecclesiale sia in ambito civile e quindi scolastico». Un modo per rispondere, conclude il cardinale nella lettera, «a numerose sollecitazioni che ci giungono da diverse parti del mondo».

Sono passati cinquant’anni da quando Giovanni XXIII, ormai alla vigilia del Concilio, promulgò la costituzione apostolica «Veterum sapientia» per definire il latino come lingua immutabile della Chiesa e ribadirne l’importanza, chiedendo alle scuole e università cattoliche di ripristinarlo nel caso fosse stato abbandonato o ridotto. Il Vaticano II stabilirà di mantenere il latino in alcune parti della messa, ma la riforma liturgica post-conciliare ne avrebbe abolito ogni traccia nell’uso comune. Così, mentre mezzo secolo fa prelati di ogni parte del mondo riuscivano a capirsi parlando l’idioma di Cesare e i fedeli mantenevano un contatto settimanale con esso, oggi nella Chiesa il latino non gode di buona salute. E sono altri ambiti, laici, interessati a promuoverla.

Oltretevere continuano comunque a lavorare studiosi che propongono neologismi per tradurre le encicliche papali e i documenti ufficiali. Un lavoro non facile è stato quello di tradurre in latino l’ultima enciclica di Benedetto XVI, «Caritas in veritate» (luglio 2009), dedicata alle emergenze sociali e alla crisi economico finanziaria. Alcune scelte dei latinisti della Santa Sede sono state criticate da «La Civiltà Cattolica», l’autorevole rivista dei gesuiti, che ha ritenuto discutibile la scelta dei termini «delocalizatio», «anticonceptio» e «sterilizatio», approvando invece le scelte di «plenior libertas» per liberalizzazione, e di «fanaticus furor» per fanatismo». Tra le curiosità, l’espressione «fontes alterius generis» per tradurre le fonti alternative e «fontes energiae qui non renovantur» per le risorse energetiche non rinnovabili.

L’iniziativa del Papa di istituire una nuova Pontificia Accademia è un segnale significativo, di rinnovata attenzione. «Il latino educa ad avere stima delle cose belle – spiega don Nicolini, che ha diffuso nelle scuole medie diecimila copie di un opuscolo gratuito introduttivo alla lingua latina e sta diffondendo l’appello per farla tornare tra le materie curricolari – e ci educa anche a dare importanza alle nostre radici».

Tra coloro che si occupano di rinnovare il lessico latino per poter comunicare ancora oggi nella lingua ciceroniana c’è don Roberto Spataro, 47 anni, [qui un'intervista a padre Spataro a cura di S. Cernuzio, Zenit, e qui un'altra sua intervista sul fascino del latino sui giovani uscita proprio sul Bollettino Salesiano; n.d.r.] è docente di Letteratura cristiana antica e segretario del Pontificium Institutum Altioris latinitatis, voluto da Paolo VI presso l’attuale Università Pontificia Salesiana di Roma. [presso cui lo scorso febbraio è stato organizzato un convegno di alto profilo proprio in occasione del 50° della Costituzione Veterum sapientia; si veda anche qui, un altro nostro post sulla ricorrenza, n.d.r.]. «Come tradurrei “corvo”? Mi aspettavo questa domanda… Ecco, direi: “Domesticus delator” o “Intestinus proditor”», risponde il sacerdote. E spiega come nascono i neologismi latini: «Esistono due scuole di pensiero. La prima, che potremmo definire anglosassone, ritiene che prima di creare un neologismo per tradurre parole moderne bisogna passare al setaccio tutto ciò che è stato scritto in latino lungo i secoli, non soltanto il latino classico. L’altra scuola, che per comodità definirei latina, ritiene che si possa essere più liberi nel creare una circonlocuzione che renda bene l’idea e il significato della parola moderna, mantenendo però il sapore del latino classico, ciceroniano».
Spataro appartiene alla seconda scuola e invita «a sfogliare l’ultima edizione del “Lexicon recentis latinitatis”, curato da don Cleto Pavanetto, eccellente latinista salesiano, e pubblicato nel 2003, con ben 15.000 vocaboli moderni resi in lingua latina». [edito Libreria Editrice Vaticana, QUI sul sito della Santa Sede l'elenco dei termini "recenti" tradotti in latino, n.d.r.]. Ad esempio, fotocopia si traduce “exemplar luce expressum”, banconota diventa “charta nummária”, basket-ball “follis canistrīque ludus”, best seller è “liber máxime divénditus”, i blue-jeans sono “bracae línteae caerúleae”, mentre goal è “retis violátio”. Gli hot pants diventano “brevíssimae bracae femíneae”, l’IVA si traduce “fiscāle prétii additamentum”, mountain bike è “bírota montāna”, paracadute diventa “umbrella descensória”. Nel Lexicon mancano però i riferimenti al web. «In effetti non ci sono – spiega don Spataro – ma negli ultimi nove anni tra chi scrive e parla in latino si sono coniate nuove espressioni. Così internet è “inter rete”, e l’indirizzo email “inscriptio cursus electronici”».


VAS AUREUM, 
OMNI LAPIDE PRETIOSO ORNATUM!

domenica 29 aprile 2012

Il sale della terra: “... Una comunità mette in questione se stessa, quando considera improvvisamente proibito quello che fino a poco tempo prima le appariva sacro e quando ne fa sentire riprovevole il desiderio. Perché le si dovrebbe credere ancora? Non vieterà forse domani, ciò che oggi prescrive?...” ***“... la scomparsa della lingua latina e l'altare orientato verso il popolo. Chi legge i testi conciliari potrà constatare con stupore che né l'una né l'altra cosa si trovano in essi...”



J. RATZINGER SULLA LITURGIA



 Prefazione a K. GamberLa réforme liturgique en question, ed. S.te Madelaine du Barroux, 1992.
 “...Il risultato [della riforma liturgica] non è stata una rianimazione ma una devastazione. Da un canto, abbiamo una liturgia degenerata in “show”, nella quale     si cerca di rendere la religione interessante con l’aiuto di idiozie alla moda...”

Dio e il Mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio
“... è importante che venga meno l'atteggiamento di sufficienza per la forma liturgica in vigore fino al 1970...”

...in generale, ritengo che la riforma liturgica non sia stata applicata bene...”

La mia vita: ricordi, 1927-1977
“... una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche...”

“... Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso...”

“... l’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica...”

“...lo posso dire con sicurezza, basata sulla mia conoscenza dei dibattiti conciliari e sulla reiterata lettura dei discorsi fatti dai padri conciliari, che ciò non corrispose alle intenzioni del Concilio Vaticano II...”

Prefazione al libro di U.M. LANGConversi ad Dominum
“... la scomparsa della lingua latina e l'altare orientato verso il popolo. Chi legge i testi conciliari potrà constatare con stupore che né l'una né l'altra cosa si trovano in essi...”

“...l'aspetto "pastorale" è divenuto il varco per l'irruzione della "creatività", la quale dissolve l'unità della liturgia e ci mette spesso di fronte a una deplorevole banalità...”

“... Una comunità mette in questione se stessa, quando considera improvvisamente proibito quello che fino a poco tempo prima le appariva sacro e quando ne fa sentire riprovevole il desiderio. Perché le si dovrebbe credere ancora? Non vieterà forse domani, ciò che oggi prescrive?...”

“...Lei mi chiede di attivarmi per una più ampia disponibilità del rito romano antico. In effetti, lei sa da sé che non sono sordo a tale richiesta. Nel contempo, il mio lavoro a favore di questa causa è ben noto...”

“... ci si deve opporre, più decisamente di quanto sia stato fatto finora, all’appiattimento razionalistico, ai discorsi approssimativi, all’infantilismo pastorale che degradano la liturgia cattolica al rango di circolo di villaggio e la vogliono abbassare a un livello fumettistico...”

“... ma i brividi che incute la liturgia postconciliare, fattasi opaca, o semplicemente la noia che essa provoca con il suo gusto per il banale e con la sua mediocrità artistica...”

Le sottolineature nelle citazioni sono, ovviamente, nostre.

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“Vieni, Spirito Santo, vieni
per mezzo della potente intercessione
del Cuore Immacolato di Maria ,
tua amatissima Sposa”

giovedì 9 febbraio 2012

IL LATINO!!! la lingua in cui hanno scritto Seneca, Sant’Agostino, Tommaso d’Aquino e generazioni di scienziati...



Il latino è ancora vivo!


Un convegno celebra il 50° anniversario della "Veterum Sapientia"

di Salvatore Cernuzio

ROMA, lunedì, 6 febbraio 2012 (ZENIT.org) - Il 22 febbraio 1962 Giovanni XXIII firmò la Costituzione apostolica Veterum Sapientia sullo studio e l’uso del latino, in cui auspicava, tra l’altro, la creazione di un Academicum Latinitatis Institutum.

Quest'ultimo verrà, poi, istituito da Paolo VI con la Lettera apostolica Studia Latinitatis del 22 febbraio 1964, affidando alla Società Salesiana il compito di «promuoverne la prosperità».
Dopo mezzo secolo, il Pontificium Institutum Altioris Latinitatis vuole ripercorrere, quindi, con il convegno del 23 febbraio, 50° Veterum Sapientia – Storia, cultura e attualità, alcuni elementi significativi di tale storia, per rispondere alle sfide di impegno culturale che oggi lo studio delle lingue classiche pone.

Don Roberto Spataro, docente presso la Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche dell’Università Pontificia Salesiana, intervistato da ZENIT, ne approfondisce i contenuti.

Prof. Spataro da cosa nasce l’idea di questo convegno e quali obiettivi si pone?
Don Spataro: Il convegno nasce dal 50° anniversario della promulgazione di un documento solenne, la Veterum Sapientia, purtroppo presto ingiustamente dimenticata.
Intendiamo rileggere quel documento e mostrare come sia ancora molto attuale nel proporre la necessità che nella Chiesa, soprattutto tra i sacerdoti, siano conosciuti i grandi valori etici, spirituali, religiosi che il mondo antico elaborò e il Cristianesimo perfezionò, costruendo così le basi della civiltà contemporanea.
La Veterum Sapientia dice, infatti, ciò che ci insegna Benedetto XVI: la ragione che ispirò gli autori classici antichi e gli umanisti moderni, oltre alla fede dei Padri e Dottori della Chiesa che hanno scritto e pensato in latino, sono “amiche e alleate per il bene dell’uomo”.

Molti sostengono che il latino sia una “lingua morta”. Qual è la sua opinione in proposito?
Don Spataro: Questa è un’espressione veramente infelice. Mi chiedo come possa definirsi morta la lingua in cui hanno scritto Seneca, Sant’Agostino, Tommaso d’Aquino e generazioni di scienziati, da Galvani, inventore dell’elettricità, a Gauss, il “principe dei matematici”…
Come può ritenersi “morta” una lingua che, se studiata come è studiata oggi da tante persone, alimenta pensieri alti e nobili? Senza dimenticare che è la lingua sovranazionale della Santa Sede; che circoli di umanisti l’adoperano come strumento di comunicazione orale e che la liturgia in lingua latina raccoglie, in numero sempre crescente, fedeli, per la maggior parte giovani.

Negli ultimi tempi, invece, sembrava che la lingua latina si stesse estinguendo: i seminaristi non la studiavano più e non veniva usata in liturgia. Cosa sta facendo il vostro Istituto per questa situazione?
Don Spataro: Negli ultimi anni all’interno della Chiesa cattolica, si sono registrati timidi segnali di ripresa per l’interesse e lo studio del latino. Tra questi: la nascita di comunità religiose e movimenti laicali che hanno compreso bene come alla Tradizione, alla vita stessa della Chiesa, appartenga un patrimonio preziosissimo di espressioni liturgiche, canoniche, magisteriali, teologiche, il cui contenuto è comprensibile solo nella sua forma linguistica, cioè il latino. Il nostro Istituto desidera, perciò, formare sempre più ecclesiastici e laici in grado di apprezzare e attualizzare questo patrimonio, in modo che ogni Chiesa possa avvalersi di persone che amano il vero e il bello armoniosamente coniugati in questa lingua.

In molte parti del mondo, sembra che stia rinascendo un grande interesse per il latino. E' vero?
Don Spataro: È vero! Tempo fa, un illustre professore universitario tedesco mi disse che in Germania sono più di 800.000 gli studenti delle scuole superiore e degli istituti universitari che si occupano di latino. Nel nostro istituto, ad esempio, accogliamo studenti della Cina, inviati dalle loro università, perché sentono il bisogno di conoscere la civiltà europea e le sue radici culturali espresse in lingua latina.

Quali sono le ragioni di questo rinnovato interesse?
Don Spataro: Parlando con professori e studenti provenienti da tutto il mondo, ho maturato questa convinzione: si sente il bisogno di studiare il latino per accedere a un mondo, una res publica litterarum, di elevatissimo livello spirituale. La crisi economica e finanziaria attuale non è più grave di quella etica ed antropologica. I giovani che in tante parti del mondo studiano le opere scritte in latino, da Cicerone a Cipriano a Erasmo da Rotterdam, sono stanchi e delusi dai “cattivi maestri” dell’epoca contemporanea e vogliono riappropriarsi di un pensiero puro, vero. Lo studio del latino consente di riacquistare questa ‘innocenza spirituale’.

Anche nelle scuole media italiane c'è un ritorno dello studio del latino…
Don Spataro: Il latino è una lingua molto piacevole da apprendere, ad una condizione: che si abbandoni il metodo che grava morbosamente nelle scuole, imposto dal filologismo tedesco a partire dal secolo XIX. Se insegnato, invece, con i metodi dei grandi umanisti - ad esempio quello praticato per secoli nelle scuole dei Gesuiti, ovvero il ‘metodo-natura’ appreso in 150 ore - uno studente, senza eccessive fatiche e soprattutto senza noia, è in grado di leggere già i classici. C’è bisogno di una nuova generazione d’insegnanti che conoscano questo metodo e lo adottino con entusiasmo perché fa miracoli!

Ci sono esempi del successo di questo metodo?
Don Spataro: Certamente! Un esempio è l’Accademia Vivarium Novum, un’istituzione con la quale la nostra Facoltà collabora da tempo e che opera a Roma. Giovani provenienti da tutto il mondo si fermano lì, uno o due anni, per studiare latino e greco. Arrivano senza conoscere una parola della lingua di Cesare e di Platone e dopo pochi mesi sono in grado di parlare fluentemente in latino, acquisendo, alla fine del percorso, una vera conoscenza della civiltà umanistica, cioè degli autentici valori dell’uomo che vengono dalla Veterum Sapientia.

AVE MARIA!
Laudetur Iesus Christus! 
Laudetur cum Maria! Semper laudentur