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martedì 13 agosto 2019

Neppure l'apologetica da sola riuscirà a convertire qualcuno, se la grazia non fluisce su di essa dalle mani dell'Immacolata.



Mugenzai no Sono, 2 VIII 1934

Caro Fratello, 
Grazie all'Immacolata perché tutti voi desiderate e avete la migliore disponibilità a servire Lei.
Le sezioni eresiologica e apologetica possono tendere con tutta libertà verso il loro fine, tenendo presente, tuttavia, che si tratta soltanto del fine specifico di una sezione del circolo, non quindi
dello scopo ultimo, ma unicamente di un mezzo per raggiungere il fine del circolo della M.I.1.

Lo scopo della M.I. è sempre la salvezza e la santificazione di tutti attraverso l'Immacolata.
Di conseguenza, se il fine della sezione tende al conseguimento di tale scopo, allora tutto è a posto.

L'Immacolata è la Mediatrice di tutte le grazie. Inoltre, è solamente attraverso la grazia che noi possiamo avvicinarci a Dio.
Nell'ordine soprannaturale, perciò, l'eresia non è niente altro che, in una forma o in un'altra, un allontanamento dalle grazie e quindi anche dalla Mediatrice delle grazie.

Un rimedio a questo è il riacquistare nuovamente la grazia e, perciò, un riavvicinamento alla Mediatrice delle grazie.
Se la sezione eresiologica riuscisse a scoprire nelle singole eresie quali furono i moventi che causarono il distacco dalla Mediatrice delle grazie, troverebbe con maggior facilità i rimedi pratici e
concreti per aiutare i poveri eretici a riacquistare nuovamente la grazia.

Neppure l'apologetica da sola riuscirà a convertire qualcuno, se la grazia non fluisce su di essa dalle mani dell'Immacolata.
Perciò, nello studio dell'apologetica pratica, questa sezione deve porre l'accento sulla necessità di ricorrere all'Immacolata e di suscitare l'amore verso di Lei in colui con il quale si discute, piuttosto che porre la propria fiducia nell'efficacia delle dimostrazioni più evidenti. L'uomo, infatti, possiede la
libera volontà ed è necessaria la grazia per sottometterla, affinché essa permetta all'intelletto di lasciarsi convincere e di seguire la verità.

Coloro che lavorano in queste sezioni si renderanno certamente conto del fatto che il profitto del loro lavoro è determinato solo dalla volontà dell'Immacolata. Infatti, qualora essi confidassero
nelle proprie forze, otterrebbero più perdita che guadagno.
Di conseguenza, cerchiamo solo di appartenere sempre più a Lei, lavoriamo sempre per Lei e con Lei, quali strumenti Suoi, e allora riusciremo a non porre barriere e limitazioni a nessuna attività.

Chiediamo con insistenza una preghiera per noi e per tutti i poveri pagani.
fr. Massimiliano M. Kolbe

sabato 11 marzo 2017

I nemici lo sapevano: la..., il... ecc... hanno sempre fatto l'occhiolino ai teologi modernisti e li hanno utilizzati per annullare la Chiesa.


PRIMA IL CRISTIANESIMO: L'AUTORITA' E IL POTERE.
Editoriale di "Radicati nella fede" - Anno X n° 3 - Marzo 2017

 Un Cristianesimo debole, che ha dimenticato la Rivelazione Divina nella sua interezza, o che parla di Rivelazione in maniera generale ma non crede più fermamente nei contenuti puntuali della rivelazione, finisce con l'essere attento solo all'aspetto di potere presente nella Chiesa.

 Una Chiesa che dice a parole che Dio si è rivelato, ma, nello stesso tempo, pensa di fatto che Dio sia ancora così nascosto, da puntare tutto solo sulla ricerca umana; da pensare che Dio debba essere rincorso in una estenuante ricerca dell'uomo, poi deve appoggiarsi completamente sull'uomo, e per non esplodere nella completa confusione e anarchia, deve fondarsi sul potere. E questo potere ha la funzione di regolamentare questa ricerca umana, con il quasi esclusivo criterio di fermare, arginare, stigmatizzare chi - obbedendo cattolicamente al contenuto della rivelazione - pensa che si debba obbedire a Dio che ha parlato e non cercarlo come se non si fosse rivelato.

 È il potere interno a una neo-chiesa che, caduta nel puro naturalismo, punta tutta sull'uomo in ricerca ed è strutturalmente nemica della Rivelazione Divina.

 Questo neo-potere della neo-chiesa non ha autorità.

 Sì, perché il potere non è esattamente l'autorità.

 L'autorità è serva della verità, il potere è servo di se stesso.

 L'autorità è di Dio da cui tutto deriva, ed è partecipata da Dio a coloro che sono posti a custodire l'opera di Dio, naturale e soprannaturale.

 Padre e madre sono autorità per i figli; Dio ha suggellato nel quarto comandamento questo rapporto autorevole; ha legato all'onore dato al padre e alla madre la benedizione o la maledizione; ma anche quest'autorità, così naturale, viene da Dio che ha fatto la vita e non potrà mai essere esercitata sui figli in contrasto con la legge di Dio: se tuo padre e tua madre ti comandassero qualcosa contro la legge di Dio, contro la sua rivelazione, tu obbedirai a Dio e non al comando ingiusto e falso dei tuoi genitori.

 Deriva da Dio anche l'autorità dei reggitori del mondo. Re e Capi di Stato hanno un'autorità voluta da Dio, anche quando non sono cristiani, ma pagani o atei. San Pietro raccomanda questo riconoscimento di autorità: “State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio...” (1 Pt 2,13 e ss.).

 Questa è la dottrina cattolica, quella non inventata dagli uomini ma frutto della rivelazione divina: Dio creatore e governatore del mondo, ha disposto che l'umano consorzio, composto di essere ragionevoli e sociali, avesse un ordinamento fondamentale idoneo a loro; e tale “ordinamento di Dio” consiste radicalmente nell'autorità e nella fratellanza. (…) (Il potere di queste autorità) non deriva da qualche loro privilegio e superiorità naturale, ma proviene da Dio, vero ed unico padrone di tutto e di tutti, il quale per il bene della società ha posto il principio di autorità. - Onde chi resiste a questa, resiste all'ordinamento di Dio (Umberto Benigni, Storia sociale della Chiesa, ed. 2016, vol. I, pg. 58).

 Ma va aggiunto subito che quest'autorità non può essere esercitata contro Dio e la sua volontà: Siccome tutta la base dell'autorità e del suo potere sociale sta nell'ordinamento divino, quell'autorità che comanda cose contrarie alla legge del Signore, perde la propria base; ed il suo comando è nullo. Donde consegue che, nel bivio di disobbedire a Dio o agli uomini, non vi può essere dubbio di scelta (Umberto Benigni, Storia Sociale della Chiesa, ed. 2016, vol. I, pg. 59).

 Se questo riferimento a Dio è essenziale per le autorità naturali, cosa si dovrà dire di quelle che sono preposte alla vita della Chiesa, che è vita soprannaturale, vita di grazia? L'autorità nella Chiesa e il potere che ne è emanazione sono totalmente relative all'opera di Dio, alla salvezza delle anime. Staccare in qualche modo, nella Chiesa, l'autorità da Dio è pura assurdità, questo lo capiscono tutti!

 Ma c'è un modo discreto e tremendo di staccare l'autorità ecclesiastica dal suo fondamento che è Dio, ed è quello di non dare contenuto preciso alla rivelazione.

 Le autorità civili si sono separate da Dio dichiarando lo stato aconfessionale, agnostico o ateo; si sono separate da Dio inventando la loro autonomia nel libera Chiesa in libero Stato; e fondandosi su se stesse, e non su Dio, sono diventate troppe volte incivili.
 Le autorità ecclesiastiche, invece, si sono emancipate da Dio relativizzando la rivelazione: ciò che Dio ha detto è stato storicizzato, reinterpretato, riformulato, ammodernato e alla fine relativizzato. Tutto ciò ha dato il via libera ad una autorità che pensa di fare un cristianesimo nuovo in ogni stagione del mondo, senza vincoli con il deposito della fede. La conseguenza è che questa autorità diventa dispotica, perché resta la sola capace di giudicare se tu sei cattolico o no. Non è più la Rivelazione che ti giudica attraverso l'autorità, ma è l'autorità sola, vedova di una rivelazione relativizzata.

 Questa operazione alla fine distruggerà l'autorità, anzi lo sta già facendo da tempo.
 Gli uomini prima rigetteranno un'autorità senza riferimenti vincolanti, che cambia le verità a piacimento; poi abbandonerà una chiesa terribilmente vuota, senza contenuto divino.

 Solo nell'autorità della Rivelazione, nell'interezza delle fonti – Scrittura e Tradizione – si può salvare l'autorità della Chiesa e nella Chiesa.

 Ecco perché il richiamo alla Tradizione non è mai contro l'autorità, ma fonda l'autorità, la salva.
  Senza la Scrittura e la Tradizione non c'è autorità possibile.

  L'insistenza sull'autorità sganciata dalla Tradizione, ma legata all'innovazione ha posto mano all'opera anarchica nella Chiesa. L'autorità per l’aggiornamento e non per la custodia del deposito divino è la cosa più assurda che sia mai capitata nella storia della Chiesa.

 I nemici lo sapevano: la massoneria, il comunismo ecc... hanno sempre fatto l'occhiolino ai teologi modernisti e li hanno utilizzati per annullare la Chiesa.
 I preti, la maggior parte, non l'hanno capito... così come i clericali: a furia di sottolineare l'autorità piuttosto che la verità, hanno dimenticato quest'ultima per strada.

 I semplici lo intuirono e continuarono in un cristianesimo umile, lasciando blaterare le nuove guide ecclesiastiche.
 Per questo crediamo fermamente che il migliore servizio alla Chiesa sia la fedeltà alla Messa di sempre, sintesi della Rivelazione, unica salvaguardia possibile dell'autorità nella Chiesa e nella società.

 I semplici l'hanno capito; un giorno, dopo l'ubriacatura, anche l'autorità ci ringrazierà.

AVE MARIA PURISSIMA!

mercoledì 2 novembre 2016

PERCHE' fino a questo punto?

Vescovi: Galantino e la CEI alla marcia dei radicali
 Mons. Galantino manda la CEI alla marcia dei radicali: offesa non solo per i cattolici, ma per tutti gli italiani.
Galantino vada a casa subito, senza "se" e senza "ma".

Perché la CEI alla marcia dei radicali?

di Costanza Miriano

Non è rabbia, non è delusione. È un dolore lancinante, quello che provo, nel leggere che la CEI dà la sua convinta adesione alla marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Libertà intitolata a Marco Pannella e Papa Francesco organizzata per il 6 novembre a Roma dal Partito Radicale Transnazionale Nonviolento e Transpartito in occasione del Giubileo dei carcerati.
È un dolore perché amo di un amore filiale la Chiesa, sposa di Cristo, la amo come la mia vera famiglia, le sono riconoscente e le devo tutto, cioè il battesimo, i sacramenti che solo attraverso le sue mani ricevo, il catechismo, cioè la verità su me stessa.
Ma che sta succedendo? I nostri pastori? I nostri padri nella fede? Quelli che hanno il dovere di confermarci? Quelli che hanno il compito altissimo di annunciare Gesù Cristo crocifisso e risorto agli uomini?
Perché marciano con il partito che più di tutti ha contribuito con le sue battaglie di morte a cambiare la mentalità profonda dell’uomo contemporaneo, sempre più lontano da Dio?
Il compito della Chiesa è prima di tutto annunciare, con amore, all’uomo la verità su se stesso, non difendere i diritti umani: se non partono da Dio i diritti umani sono opinabili, relativi.
Perché un carcerato, che sia colpevole o innocente, va difeso (e io dico che va difeso!) e un bambino, sicuramente innocente, nella pancia della mamma, no?
Lo sanno, i radicali, che il Giubileo annuncia la remissione delle colpe per la salvezza eterna, e non il miglioramento della qualità della vita nelle carceri? Che c’entrano con il Giubileo persone, rispettabilissime, che non credono però nella vita eterna?
È ovvio che la CEI e  i cristiani tutti siano a favore della dignità dei carcerati. Io direi che ogni uomo che sia degno di questo nome lo è. Chi è a favore di detenzioni disumane? Chi desidera che i carcerati, già dolorosamente provati della loro libertà, stiano male (se non altro perché poi escono più arrabbiati e pericolosi di prima)? Chi è per la violenza? Chi è per la guerra? Chi è per la fame? Questi sono valori umani minimi, impossibile non condividerli.
Ma perché marciare con i radicali, quelli che si vantano di aver maciullato con le loro mani (e le pompe di bicicletta) migliaia di feti, di bambini nelle pance delle donne?
Ricordiamo che con il loro partito transnazionale, grazie a finanziamenti mondiali, i radicali hanno contribuito a rendere possibile il fatto che oggi abbiamo una candidata alla presidenza dell’impero che si è detta favorevole all’aborto al nono mese con schiacciamento della testa del bambino mentre esce dall’utero, tecnicamente un omicidio in piena regola.
Perché la Chiesa continua a non essere originale?
Non ha senso che per cercare di attirare i cuori dei ragazzi – che desiderano l’Assoluto – facciamo i concerti per i ggiovani (con due g) invitando artisti, spesso di mezza tacca, nella speranza che per sentire le loro canzoni i ragazzi si bevano anche qualche predica. Io agli eventi organizzati dalla sposa di Cristo voglio sentir parlare dello Sposo, se voglio ascoltare il cantante x – spesso non credente – vado al suo concerto.
Perché scimmiottiamo il mondo?
La risposta secondo me è semplice: non ci crediamo più neanche noi, che essere cristiani è tutta un’altra cosa. E’ entrare nella vita del battesimo, o almeno desiderarlo ardentemente, e quindi tutto il resto impallidisce al confronto, e lo spettacolino magari è pure bello, ma è un’altra cosa.
Se qualcuno dovesse ritirar fuori la vecchia roba dei muri e dei ponti: non sto dicendo che se una PERSONA che ha idee radicali dovesse avere bisogno di qualcosa non si debba essere pronti persino a dare la vita per lei.
Sto dicendo che le IDEE radicali sono irrevocabilmente, strutturalmente, irrimediabilmente, profondamente e totalmente contro Dio, che è il Dio della vita, che è il Dio che ci chiede di ascoltare la sua voce di Padre che ama e che sa qual è il meglio per noi, mentre l’uomo disegnato dai radicali è un uomo che sa solo lui cosa è bene per sé, che decide della vita sua e di quella dei più deboli, i feti, i malati che è meglio far morire di fame e di sete.
Noi dobbiamo amare le persone radicali, ma dobbiamo odiare le loro idee.
Le dobbiamo odiare proprio per amor loro.
Perché queste idee, che mettono l’uomo al centro del suo mondo, impediscono di mettere al centro del cuore Cristo, e quindi impediscono la felicità. (E le persone radicali che ho conosciuto erano infelici).
Proprio perché amiamo le persone radicali dobbiamo sperare che siano in grado di “comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza,  l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza”.
Ero indecisa se scrivere queste parole, ma oggi alla messa, oltre alla lettera agli Efesini appena citata, che era la prima lettura, ci si è messo pure il Vangelo, e mi ha convinta. È quello in cui Gesù dice di essere venuto a portare divisione sulla terra.Fuoco. Il battesimo! Se in una famiglia ci sono cinque persone “saranno divisi tre contro due e due contro tre” dice Gesù.
Alza muri anche Gesù? Ovviamente no.
Sta parlando della divisione che c’è tra chi cerca di vivere secondo il battesimo e chi no. Non è divisione nel senso di rancore, cattiveria, odio, ovviamente. E’ che si entra in un’altra dinamica di vita e quindi si può vivere vicini, condividere tante cose, compreso l’impegno per i carcerati, per l’ambiente, contro la fame, contro la guerra, ma non si condivide l’intimo respiro che sta dentro ogni cosa.
Scrive don Giussani in “Il cammino al vero è un’esperienza” – che provvidenzialmente, parlando di tutt’altro, un amico mi ha spedito stamane – “Un cristianesimo filtrato dalla nostra saggezza, ridotto a noi, porta all’equivoco e non alla testimonianza, genera compromesso con gli avversari e non vittoria della nostra fede. Non si può annacquare il vino di Dio con l’acqua dei suoi avversari. Non si afferma il cristianesimo sottacendo gli aspetti della sua verità. Amare gli altri non è dimenticare ciò che ci distingue da loro per cercare punti d’accordo. Non ameremo gli altri se innanzitutto noi non portiamo loro la Realtà per cui non siamo come gli altri, la Realtà cioè che viene da Cristo”
E, se non sono presuntuosa nel chiosare Giussani, gli avversari non sono mai le persone, ma le bugie di cui loro sono ostaggio. Volere il loro vero bene significa annunciare la verità, quella che la Chiesa col suo deposito ci garantisce non essere una proiezione delle nostre fantasie.
È vero, il Papa parla di “piccoli passi” per non essere violenti nei confronti di chi non ha il dono della Fede, e probabilmente la decisione di dare la convinta adesione alla marcia radicale viene dal desiderio di obbedire al Papa.
Mi chiedo solo se sia stato correttamente interpretato. Un conto è non essere violenti – che so, fare una contro manifestazione in opposizione a quella radicale – un conto è aderire convintamente a quella marcia.
Per me la più grande violenza che si possa fare a qualcuno è di lasciarlo nel suo buio, nella sua bugia, nel suo errore.
È non fargli la carità.
La carità del pane (delle ciabatte i pennarelli i bagnoschiuma le penne i calzini che Padre Maurizio raccoglie da noi tutte le settimane per i detenuti, per esempio), ma anche, insieme, la carità della verità.
Dice il Papa che dobbiamo far interrogare l’altro con la nostra bontà, e solo se e quando ce lo chiederà, potremo rispondere in nome di Chi compiamo certi gesti.
È vero, non dobbiamo mettere la Verità davanti a noi, come uno stendardo, un gonfalone che ci ingombra e ci impedisce di guardare l’altro negli occhi.
Ma non possiamo neanche seguire il gonfalone degli altri, se, e sottolineo se, davvero crediamo che quello stendardo porta alla morte.
Sensibilizziamo dunque l’opinione pubblica sul tema delle carceri, e tanti amici cristiani si danno da fare concretamente per loro, ma non dimentichiamo che ci stiamo a fare su questa terra.
Non a combattere per un mondo migliore, ma a cercare Dio. E se non lo annuncia più la Chiesa, chi lo farà?
Se il sale perde sapore, con che saleremo?
Lo dico quindi, con rispetto filiale, con il dolore di una figlia grande che vede i genitori sbagliare: pastori, siate uomini, e tornate a fare i padri.
Se non dovete fare i vescovi pilota, e non lo avete fatto anche quando era il vostro popolo, il popolo della vita, le famiglie, i padri e le madri, i bambini, a chiedervelo supplicante, non fatelo neanche quando a chiedervelo è il popolo della morte.
https://costanzamiriano.com/2016/10/20/perche-la-cei-alla-marcia-dei-radicali/

giovedì 25 agosto 2016

Ecco la parola chiave: “apologetica”.



So bene cosa sia il dolore...guardate la Mia Croce
e meditate su quel Sangue che ho versato per voi tutti

Patì sotto Ponzio Pilato


di Pietro Cantoni

Il “corpo” è oggi un tema d’importanza difficilmente sottovalutabile. Non è un caso che si diffondano contemporaneamente concezioni che riducono il corpo a elemento intercambiabile dell’essere dell’uomo, come nel caso della reincarnazione, e a semplice “teatro” del suo agire, senza che ciò comporti una responsabilità essenziale, come in certe dottrine teologico-morali. Ma il corpo può anche venire semplicemente considerato campo di sperimentazione illimitata, come nel caso dell’ingegneria genetica che vuole sottrarsi a qualunque controllo etico.
Ora, anche la fede cristiana ha un “corpo”, perché è fede in Dio che si è fatto “carne”, cioè uomo completo con —anche— un corpo. Secondo la fede cristiana cioè, Dio è entrato nella storia degli uomini, facendosi uomo fra gli uomini. Questo significa necessariamente che è apparso in un momento preciso della storia, legato a determinate coordinate spazio-temporali e “misurabile” attraverso testimonianze e documenti come tutti gli eventi importanti di questa stessa storia. L’evento di Dio fatto uomo entra nell’insieme degli eventi che costituiscono propriamente la “storia”, quindi può entrare nella “storiografia”, cioè nel racconto che gli uomini possono fare di questi eventi significativi.
Il “corpo” della fede cristiana sarà dunque —prima di tutto— lo spessore storico verificabile del suo fondamento, cioè della persona di Gesù di Nazareth e degli eventi terreni di cui è stato protagonista, primi fra tutti la sua morte e la sua risurrezione.
Secondo un’analogia profonda ma essenziale, corpo della fede sono anche gli eventi costitutivi della fede di ogni singolo cristiano: battesimo, eucaristia, Chiesa… Vi è un legame fra gli eventi della storia delle origini, gli eventi che fondano la storia del popolo di Dio che è la Chiesa e gli eventi che fondano l’esistenza del singolo cristiano.
Contro questa visione delle cose si erge una concezione della fede completamente sganciata dai fatti, siano essi eventi storici o eventi misterici, cioè sacramenti. Si tratta di una concezione che ha i suoi inizi con la Riforma protestante e una delle sue espressioni più conseguenti nella teologia dell’esegeta luterano tedesco Rudolf Bultmann, nato nell’ultimo quarto del secolo XIX e scomparso nel 1976.
E proprio Rudolf Bultmann è un “protagonista” dell’opera di Vittorio Messori Patì sotto Ponzio Pilato? Un’indagine sulla passione e morte di Gesù. Infatti, il teologo ed esegeta luterano viene citato spesso come fondatore, con altri, del metodo della Formgeschichte, la “storia delle forme”, e come ideatore del programma teologico della “demitizzazione”. Non che Vittorio Messori voglia addentrarsi in difficili problematiche attinenti alla storia della teologia contemporanea, ma vuole certamente mettere a fuoco le ragioni di un disagio avvertito da molti relativamente ai metodi dell’esegesi storico-critica, soprattutto applicata ai Vangeli, e in un’ottica apologetica.
Ecco la parola chiave: “apologetica”. Perché è certo che Vittorio Messori vuol fare —scandalosamente!— della buona apologetica. Si tratta di una parola ormai carica di un’eco emotiva sfavorevole. La teologia cattolica, negli ultimi decenni, ha cercato di sbarazzarsene ricorrendo al termine più generico —ma anche più ambiguo— di “teologia fondamentale”, termine ambiguo perché può riguardare due oggetti assai differenti: i princìpi intrinseci della fede e le ragioni del credere. Infatti, è certamente compito indiscusso della teologia fondamentale occuparsi dei princìpi della fede, cioè di che cosa significa “fede”, di quali sono le sue “fonti” —Scrittura, Tradizione e Magistero— e del metodo di quella scienza della fede che è la teologia. La teologia fondamentale dovrebbe occuparsi però anche di qualcosa d’altro: delle ragioni di credibilità, che costituiscono il presupposto o l’anima razionale della fede, presupposto o anima la cui mancanza ridurrebbe la fede a sentimento o istinto. L’ambiguità del termine ha favorito l’ambiguità dei metodi e ha fornito copertura all’imbarazzo di fronte a una fede che pretende di avere anche delle ragioni. La scomparsa del termine “apologetica” ha significato in moltissimi casi la scomparsa della cosa stessa.
Vittorio Messori nasce a Sassuolo, in provincia di Modena, nel 1941; studia a Torino, dove si laurea in scienze politiche, quindi —giornalista professionista— lavora ai quotidiani del gruppo de La Stampa; passa poi a Milano come collaboratore fisso del mensile Jesus e del quotidiano Avvenire, acquisendo grande notorietà soprattutto grazie alla seguitissima rubrica Vivaio, pubblicata appunto su Avvenire. Dalla fine degli anni Ottanta vive a Desenzano del Garda, in provincia di Brescia, dedicandosi soprattutto alla pubblicazione di volumi. È autore di opere di apologetica biblica e storica, agiografo nonché abile e acuto intervistatore di significativi protagonisti della vita contemporanea, ecclesiastici e laici. Nella prima categoria di scritti si situano Ipotesi su Gesù (1a ed., Società Editrice Internazionale, Torino 1976) e Scommessa sulla morte (1a ed., Società Editrice Internazionale, Torino 1982) nonché Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana (Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1992) e La sfida della fede. Fuori e dentro la Chiesa: la cronaca in una prospettiva cristiana (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 1993); nella seconda Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno (Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1990; cfr. la recensione di Enzo Peserico, in Cristianità, anno XIX, n. 193-194, maggio-giugno 1991) e Opus Dei. Un’indagine (Mondadori, Milano 1994; cfr. la recensione e l’integrazione di Massimo Introvigne, L’Opus Dei e il movimento anti-sette, in Cristianità, anno XXII, n. 229, maggio 1994); nella terza Rapporto sulla fede. A colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger (1a ed. Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1985; cfr. recensione di Giovanni Cantoni, in Cristianità, anno XIII, n. 122-123, giugno-luglio 1985), Inchiesta sul cristianesimo (1a ed. Società Editrice Internazionale, Torino 1987) e dello straordinario — in più sensi — Varcare la soglia della speranza (Mondadori, Milano 1994), in cui è interlocutore apprezzato di Papa Giovanni Paolo II.
Dunque, l’interesse per l’apologetica caratterizza l’opera di Vittorio Messori da lungo tempo e Patì sotto Ponzio Pilato? Un’indagine sulla passione e morte di Gesù si ricollega esplicitamente a Ipotesi su Gesù, di cui vuol essere l’inizio di una rielaborazione.
Con la consueta abilità letteraria, sui toni di un’appassionante inchiesta, l’autore ripercorre i principali episodi del racconto evangelico della passione, nel tentativo costante di illuminare il rapporto che le pagine evangeliche intrattengono con la storia. E il taglio, l’impostazione impressa all’opera deve sempre essere presente al lettore che non ne voglia fraintendere il significato. Il Vangelo, così come tutta la parola di Dio, assomma in sé una tale gamma e “quantità” di significati che sarebbe vano pretendere di esaurirli. Vittorio Messori ha ben chiaro che i Vangeli non sono “libri di storia”, nel senso corrente del termine, cioè non si esauriscono nel raccontare una storia; ma il loro messaggio è proprio quello di un Dio che entra nella storia, per cui il loro valore storico non è estraneo al loro significato religioso. Questo è il punto centrale.
Se un’inchiesta svolta nel 1993 ha posto i volumi di Vittorio Messori in testa alle letture religiose degli italiani, la ragione sta certamente nel fatto che essi rispondono con vigore e con piacevolezza a una domanda autentica, quella delle ragioni della fede e, quindi, della fondatezza della storia di Gesù.
L’autore non segue un ordine sistematico, ma si addentra nella materia con un metodo simile a quello utilizzato dai geologi nell’esame della composizione di un terreno, cioè mediante “carotaggi”, approfondimenti puntuali che permettono al racconto di non diluirsi troppo e di garantire piacevolezza di lettura senza scadere nella superficialità. In altri termini, Vittorio Messori costruisce un ottimo libro di divulgazione, ma di una divulgazione che non scade in volgarizzazione: anche il non specialista si accorge agevolmente che dietro il tono giornalistico sta uno studio condotto con serietà, in cui l’autore sa destreggiarsi nei meandri della sterminata bibliografia sulla materia, sa scegliere il meglio della produzione scientifica e non perde mai il contatto con gli specialisti.
Dopo alcune considerazioni introduttive, in cui chiarisce l’intento della ricerca, che non è affatto quello di difendere una posizione di stampo fondamentalista — Ragionando sui vangeli (pp. 3-9) —, Vittorio Messori conduce una critica pungente di certa critica biblica — Ipotesi su (certa) critica biblica (pp. 10-21) — rifiutando, in sostanza, la falsa alternativa “metodo storico-critico oppure fondamentalismo”: “Per le Scritture giudeo-cristiane, il credente sa che l’ispirazione è divina ma che la redazione è affidata agli uomini, i quali vi hanno lasciato le loro tracce che tocca allo specialista (e anche in questo senso il suo lavoro è prezioso) identificare, pur nell’attento rispetto del mistero.
“Seppure ben lontano, dunque, da ogni ingenuo letteralismo “fondamentalista” o “coranico”, non ho però potuto impedirmi di andare a vedere che possa succedere quando — scevri da ogni pregiudizio, anche “scientifico” o presunto tale — si provi a ragionare davvero su quei versetti greci, passandoli al vaglio di tutto ciò che sappiamo” (p. 8).
L’indagine si snoda poi in altri trentacinque capitoli, come un romanzo giallo, dal sinistro episodio dell’impiccagione di Giuda, nel campo detto Akeldamà, attraverso le vicende del processo di Gesù, della profezia del Tempio, del rinnegamento di Pietro, della crocifissione, per tornare alle ricerche esegetiche, scandagliate però qui nei loro aspetti innovatori rispetto alla corrente maestra del metodo storico-critico. Così un capitolo — La scuola di rabbì Gesù (pp. 285-293) — è dedicato alla proposta della cosiddetta scuola svedese — rappresentata da H. Riesenfeld e da B. Gerhardsson —, che sottolinea l’importanza della memoria e dei metodi di memorizzazione nell’insegnamento rabbinico, che hanno certamente caratterizzato sia l’insegnamento di Gesù sia la sua trasmissione. Questo non significa che la trasmissione si sia realizzata in modo “magnetofonico”, perché si sa che una trasmissione fedele non è necessariamente una trasmissione “letterale”; anzi, spesso si fa esperienza del contrario. Tuttavia, si viene certamente aiutati a comprendere come la fedeltà alla parola del maestro fosse una preoccupazione assolutamente centrale in quel contesto culturale. Se nel contesto del Nuovo Testamento si può parlare di “teologie” — teologia di Marco, di Luca, di Matteo, di Giovanni, di Paolo —, però si deve fare attenzione a non intendere il termine “teologia” — e quello collegato di “teologo” — nel senso che ha attualmente. Si commetterebbe lo stesso errore di intendere i Vangeli alla stregua di “biografie”, sempre nel senso moderno, di Gesù. Il noto esegeta Claus Westermann fa una osservazione assolutamente pertinente a proposito delle “teologie” attribuite ai diversi autori e ai diversi — ipotetici — documenti nell’ambito dell’Antico Testamento: “Essi sono, senza eccezione, in primo luogo dei trasmettitori: formulano quello che i loro padri hanno detto. La formulazione di quanto hanno ricevuto può essere loro propria in modo anche rilevante, ma non sono mai soltanto persone che danno, bensì sempre insieme persone che ricevono” (Biblischer Kommentar Altes Testament. I/1 Genesis [Commento biblico del Vecchio Testamento. I/1 Genesi], 3ª ed., Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1983, p. 775).
Finalmente, due capitoli sono dedicati alle ipotesi di Jean Carmignac e di altri studiosi sull’originaria composizione ebraica dei Vangeli —Una storia tutta ebraica: anche nella lingua? (pp. 294-302) — e sull’identificazione e la datazione del frammento ritrovato nelle grotte di Qumràn e classificato con il nome 7Q5, Qumràn, grotta 7: venti lettere per un mistero (pp. 353-368).
Com’era per altro prevedibile, alla ricerca di Vittorio Messori non sono mancate le critiche provenienti dal mondo degli studiosi di professione. Per esempio Vittorio Fusco, ordinario di Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, a Napoli, ne ha fatto un’analisi serrata e impietosa, accusando Vittorio Messori di “concordismo” (cfr. Note di lettura sull’ultimo libro di V. Messori. Le trombe del concordismo, in il regno-attualità, anno XXXVIII, n. 703, 15-4-1993, pp. 249-253). Alcune affermazioni di Vittorio Fusco sono state vivacemente contestate dai due eminenti papirologi José O’Callaghan e Carsten Peter Thiede (cfr. Lucio Brunelli, Un indizio di storia, in 30 Giorni nella Chiesa e nel mondo, anno XII, n. 7/8, luglio-agosto 1994, pp. 72-75). La papirologia è una scienza fortemente “positiva” rispetto all’interpretazione letteraria, per cui troviamo qui proprio la conferma di un’osservazione di Vittorio Messori, secondo cui in una “certa” esegesi si assiste a una prevaricazione della teoria sui fatti, del pensiero sull’essere… Se i fatti mi danno ragione bene, altrimenti “tanto peggio per i fatti”! Si tratta, peraltro, di una tendenza non nuova, perché la critica cattolica la rimproverava da tempo all’esegesi razionalista. Dunque Vittorio Fusco accusa Vittorio Messori di praticare il concordismo, cioè quel metodo esegetico preoccupato solo di assicurare a qualunque costo l’aderenza del testo biblico alla “storia”, senza curarsi del fatto che l’attenzione principale degli agiografi non è rivolta alla storiografia come si è abituati a concepirla attualmente.
In realtà, mi pare che questa critica non tenga conto di almeno due elementi.
1. In primo luogo, del “genere letterario” in cui l’opera è stata volutamente realizzata. Pretendere che, in un testo di divulgazione, ci si soffermi a valutare le teorie più nuove e più “contestatrici” esponendo anche, con la stessa cura, le critiche che esse hanno ricevuto, è eccessivo. È sufficiente avvertire il lettore — cosa che Vittorio Messori fa puntualmente — che si tratta di ipotesi. Questo avviene sia per la teoria della scuola svedese sull’importanza della trasmissione mnemonica nel mondo ebraico dell’epoca, sia per l’identificazione del frammento 7Q5 con un versetto del vangelo di Marco, come pure circa l’ipotesi avanzata da Jean Carmignac sulla lingua dei Vangeli. Vittorio Messori ne dà notizia, senza nascondere le sue simpatie, ma senza neppure maggiorare il grado di probabilità scientifica che simili proposte hanno nell’attuale dibattito scientifico. Certamente non mancano spunti polemici sul modo con cui il mondo scientifico ha accolto teorie che rischiano di mettere in discussione certe impostazioni accolte dalla maggior parte dei cultori della materia. Ma Vittorio Messori non è affatto il solo a osservare questa mancanza di obiettività nel valutare tutto quanto mette in discussione i presupposti del metodo della Formgeschichte. Si ha da più parti la netta impressione che questi presupposti siano trasformati surrettiziamente in dogmi. Un teologo di fama come Louis Bouyer non esita a usare toni ben più forti di quelli che si permette Vittorio Messori: “Bisogna […] sottolineare che la critica e l’esegesi bibliche restano ancora troppo spesso paralizzate sotto il peso di teorie più o meno a priori, sviluppatesi in genere nella euforia ingenua di un certo secolo XIX, che si considerava, quanto ad atteggiamento intellettuale, preludio alla età d’oro, e che è stato piuttosto l’inizio di una generale disintegrazione.
“Tali sono: la tesi di Graf e Wellhausen sui “documenti” del Pentateuco (chiamati rispettivamente Javista, Elohista, Deuteronomista, Sacerdotale) — la concezione, sviluppata particolarmente da Bernard Duhm, di quello che è stato definito il “profetismo biblico”, profondamente antisacerdotale e individualista — la certezza della priorità del vangelo di Marco e della sua storicità più “pura” — la ipotesi dei “logia”, ossia di una raccolta scritta delle parole di Gesù che sarebbe esistita prima dei nostri vangeli — il carattere tardivo ed ellenico degli scritti giovannei, specialmente del quarto vangelo — l’eterogeneità più o meno radicale delle lettere attribuite a san Paolo e dette “della prigionia”, nei confronti del gruppo Romani-Galati-Corinzi. A questo va aggiunto il quadro storico prospettato da Bultmann (su cui si basa il suo progetto di demitizzazione), che schematizza in quattro fasi corrispondenti a quattro generazioni successive, lo sviluppo dei testi neotestamentari: ciò che può essere contemporaneo all’ambiente giudaico palestinese in cui Gesù è vissuto e ha predicato, ciò che può esserlo di una prima missione nello stesso ambiente dopo la scomparsa di Gesù, ciò che trova il suo posto nella prima missione cristiana tra i giudei ellenizzati e ciò che risale alla fondazione della Chiesa in un ambiente di convertiti dall’ellenismo.
“Bisogna constatare che nel protestantesimo, anche il più “liberale”, non vi è nessuno di questi presupposti che non sia diventato oggetto di un dubbio più o meno sviluppato e generalizzato […] mentre nella maggioranza degli ambienti cattolici che si definiscono biblici questi sono dogmi intangibili e basta metterli in dubbio per sentir gridare: “Non ci toccate la nostra scienza!”” (Gnosis. La conoscenza di Dio nella Scrittura, trad. it., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, pp. 168-169).
Di fatto, Vittorio Messori mette a fuoco un dato di grande rilievo, e cioè che quella che oggi si presenta come la esegesi storico-critica è in realtà soltanto un metodo di esegesi; e un metodo per cui è giunto — in verità ormai da tempo — il momento di presentare le sue credenziali davanti al tribunale della fede e della ragione, cioè della teologia e della filosofia, che hanno il compito di verificare i suoi presupposti metodologici saggiandone la consistenza e l’adeguatezza rispetto all’oggetto che pretende di indagare. Il numero di quanti richiedono un riesame metodologico dell’esegesi storico-critica cresce e in esso si pongono, per esempio, Gerhard Maier (Das Ende der historisch-kritischen Methode [La fine del metodo storico-critico], 2ª ed., Theologischer Verlag Rolf Brockhaus, Wuppertal 1975), Paul Toinet (Pour une théologie de l’exégèse, con prefazione di Ignace de la Potterie, Fac-éditions, Parigi 1983), René Laurentin (Comment réconcilier l’exégèse et la foi, O.E.I.L., Parigi 1984), nonché alcuni autori — per esempio lo stesso Ignace de la Potterie e Joseph Ratzinger —, i cui contributi sono raccolti nell’opera collettiva L’esegesi cristiana oggi (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1991). E una serrata e documentata critica al metodo della Formgeschichte ha svolto nel 1994 Hans-Joachim Schulz (Die apostolische Herkunft der Evangelien [L’origine apostolica dei Vangeli], con una prefazione di Rudolf Schnackenburg, Herder, Friburgo-Basilea-Vienna 1994).
2. In secondo luogo, vi è un problema di linguaggio, di comunicazione, in cui il giornalista Vittorio Messori è indubbiamente il competente rispetto all’esegeta. Qui si rovesciano le posizioni rispetto all’”esperto” nell’esegesi. Infatti, l’esperto corre spesso il rischio — chiuso com’è nella torre d’avorio della sua università o del suo istituto di ricerca, abituato al dialogo ristretto all’interno della cerchia, o “casta”, degli specialisti — di perdere il contatto con il linguaggio della gente e con le sue reali domande. Da questo punto di vista dovrebbe porsi in un atteggiamento più umile e recettivo nei confronti di chi invece intrattiene un dialogo vivace con il cosiddetto “uomo della strada”, dialogo suffragato dalle tirature lusinghiere dei suoi libri.
L’uomo della strada si pone l’”ingenua” domanda: “Ma è successo veramente”? Per visioni del mondo altre rispetto al cristianesimo si tratta di una domanda oziosa: infatti, poco importa che Krishna sia veramente esistito, che Buddha abbia fatto tutto quanto gli viene attribuito, che Karl Marx abbia veramente assunto questa o quella posizione; conta piuttosto la via che hanno tracciato. Ma il discorso è radicalmente diverso per Colui che ha osato affermare “Io sono la via”.
L’opera di Vittorio Messori aiuta a ritrovare questa “via” nella storia, perché possa diventare storia anche della nostra vita.
© Cristianità

sabato 19 luglio 2014

I santi Martiri di Gorcum

I santi Martiri di Gorcum, testimoni della Presenza Reale di Cristo nell'Eucaristia e dell'Autorità della Chiesa di Roma

Il 9 luglio la Chiesa commemora i 19 Martiri, sacerdoti e religiosi, martirizzati in questo giorno nell'anno 1572 dagli eretici calvinisti in odio alla fede nell'Eucaristia ed alla Chiesa di Roma, canonizzati dal Beato Pio IX nel 1867.

Anthonius Brouwer, Gli ultimi momenti dei martiri di Gorkum, 1879 circa, Biblioteca Nazionale dei Paesi Bassi



Cesare Fracassini, Martiri di Gorcum, 1858, Musei Vaticani, Città del Vaticano, Roma


J. Zier Neels, Martiri di Gorcum, 1675

Abraham van Diepenbeeck - Jacob Neefs, Martiri di Gorcum, 1620-60, Biblioteca Nazionale dei Paesi Bassi

Johan Zierneels, Apoteosi dei martiri di Gorcum, 1675, Rijksmuseum Amsterdam



Luis Berrueco, Martiri di Gorcum, 1731, Puebla, Messico

Cardinal Giuseppe Siri e il "progressismo", "sociologismo", ecc.



Viviamo in un'epoca che ha paura di parlare chiaro

«Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole! […] Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. […] Si ha vergogna di Dio».

***

Viviamo nell’epoca delle «parole». Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica, che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si coniano parole.
Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati, capiti, eventualmente smascherati.

Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele bene, per evitare una sorte ingloriosa.
Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio operato: «progressismo».
Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un termine alla esatta funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non bisogna ricusare quel merito.
Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno specchio perché ognuno ci si guardi.

1. Essere indipendenti dalla logica teologica

Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le conclusioni a poi.
Che è questo «disimpegno totale dalla logica teologica»?
Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione.
Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della «logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica interpretazione sia della Scrittura che della divina tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra gli uomini. Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due.

La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione filosofie torbide, il contrario, il contraddittorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia.

La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio.
Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane.
Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del magistero ecclesiastico!

Il magistero ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia... purché siano consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa. Tale approvazione rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico, potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro. Col che il campo resta spazzato.

Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del magistero ecclesiastico costituiscono con lo stesso la «logica» della Teologia.
Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare che sono espressamente condannati nella enciclica Pascendi di s. Pio X nonché nel suo Decreto Lamentabili; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultmann, sentono con indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo.

Naturalmente trattati senza freno i princìpi, si ha quel che si vuole della morale e della disciplina ecclesiastica.

Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto.

Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non si lascia più nulla, neppure delle sue speranze!
Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa — questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si fanatizzano.

In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere.
Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di vane lingue, dei quali fu pieno l’aere e che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono.

Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di Teologia, il tedesco padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre e con ragione: «Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti!».

2. Il «sociologismo»

Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non sanno che cosa sia.
Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo mondo.
La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza.
Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perché il sociologismo non si cura della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno.
Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale sia sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi, forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole!

Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano.
Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via brevissima per stare al passo coi tempi!
Ma si sa dove vanno i tempi?
Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono arrivate, dove si sono fermate? E proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per portare benessere ai nostri simili? E proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe, distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili?
Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza eterna?

3. La nuova storiografia

Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero san Pier Damiani. Tutto qui!
Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi «cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo.

La parte maggiore della produzione - ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni - pare obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni:

— la società ecclesiastica è la prima causa dei guai che hanno colpito i popoli;
— la Chiesa - detta per l’occasione postcostantiniana - avrebbe fatto con continui voltafaccia alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità;
— le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati dalla Storia, non si sa con quale motivazione;
— tutta la storia ecclesiastica fino al 1962 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di Cristo. Questa conclusione - tutti lo vedono - costituisce il fondamento per distruggere il più possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro, martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero;

le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti;

il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli hanno sempre una causa che le ha generate.
Si potrebbe continuare.

Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi galantuomini... qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, che ha imposto ai renitenti la disciplina ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla!

Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe, come se queste non potessero mai essere chiuse.
È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!

4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti

Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia del progressismo ecclesiastico moderno.

Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della divina tradizione ed avessero spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo.

Quei due interventi, consci o no di portare l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli Imprimatur. La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata comune. 
Eccone i punti.

— La filologia, l’archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum delphini), ma soprattutto le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia.
Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata.

— Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può essere, in cosa tanto grave, vera garanzia.

— La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture, comparata con le Scritture e con la divina tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal Magistero.
Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama «progresso», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio. Niente di più logico e di più ovvio.

Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò. La materia biblica non è in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole «sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero!
Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome di «progressismo».

5. Le allegre «teologie»

Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila.
Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro, dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione... Quasi tutte queste voci sono decorate di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci.

Queste sono vere «teologie», anzitutto?
È «teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle fonti teologiche. Quando le affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente proprio.

In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste teologie o sedicenti teologie. Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni.

— Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto oggettivo e permanente.

— Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo, derivando da un principio messo dal “cristianissimo” e “devoto” Mounier, di fatto si ispira al marxismo, del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi più o meno stanchi assertori.

Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere - con altre cose - una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale apparteneva quella magnifica voce. Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie teologie delle quali abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al tutto insoddisfatti.

Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e ben più importante.
C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962.
E questo è grave. Infatti.

La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro.
Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della rivelazione divina e, senza forzature o deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti. Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi principî del buon senso umano, nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite.

Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni» estranee al metodo.
Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia».

La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che possono dare ansa al genio di molti santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria!
La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire al numero seguente.

6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie

Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista». Un principio decantato in tutti i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a quello il messaggio cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della rivelazione divina.

Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale nessuna persona colta crederà più.

Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, sì da permettere sempre una tempestiva ritirata strategica.

Guardiamo bene in faccia questa faccenda.
— Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i placita di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade nel nostro tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono, comunque, morti.
— Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste.

La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialità è tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.
Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto. Non eresia, ma anche apostasia!

Con tutto questo non si esclude affatto che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi.
La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela troppo vergognosa per gloriarsene.

7. Il rifiuto della apologetica

Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.
Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente.

Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa (Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione di Cristo... Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare degli elementi di prova.
Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna, quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più.

Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa onesta capacità che il Vangelo di Matteo - come gli altri - ha di farsi precedere dalla più rigorosa documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica»; ora abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo sapeva.

Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del modernismo latente sotto la cenere.

Il silenzio in fatto di apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi ritiene sempre necessaria la apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti.

Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della apologetica ne è la manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?

8. La riabilitazione degli eretici

Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo.
Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge dalle ceneri con l’aria di dire «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati abitualmente al posto di sant’Agostino e di san Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate.

Ma, è normale tutto questo?
I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri».
Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini che la conducono fa al tutto difetto.
Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del magistero ecclesiastico, per colpire il magistero ecclesiastico; si magnificano i distruttori della disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina. Agli eretici ed ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici, e infatti essi non si sono minimamente schiodati dalle loro posizioni

Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane.

Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri comodi. I peggiori!
Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso spirituale, vorrebbero fermarne le cause.
Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.


9. L’antigiuridicismo

Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista.
Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano e non vogliono rendersi conto che la legge è l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza.

La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone perbene abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze.

Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano. La ragione? Il numero diluisce e fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici.
Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile. Sì, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice variazione lessicale.

Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si scarica sulla «base».

Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una debolezza.
Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo, anche violento, a fare i «tiranni».
La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita sociale solo in due modi: «la violenza o la legge». Ricordiamo che la paura è un riflesso della violenza.
Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza?
E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive?

Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una «Legge». Si preferivano dei predicozzi.
La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina» libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»!
Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio catechismo dalle idee chiare e precise!

10. La crociata antitrionfalistica

Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista.
È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani.
La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio.
Vediamo questo fascio.

L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento. Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del suo dovere, fa del trionfalismo.

La Fede, i Sacramenti, il divin sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi. Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la maestà di Dio, la infinita importanza del santo sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare.

Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione sempre!
Se si porta rispetto al Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta.

Chi ha pronunciato per primo la disgraziata parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa.
Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di gusti.

Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel conformismo col quale si accettano e osservanonon le leggi liturgiche emesse dalla legittima Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia.
Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le bande dei suonatori.

11. La indisciplina endemica

Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo sbarazzino ha diritto al titolo.
Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno preciso ed intelligente.
In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A ragione!
In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano.

A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine ecclesiastica del clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative culturali innumerevoli.

Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Cielo, della rivoluzione permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore ormai confinato nelle nebbie.

Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito. 
Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da Gesù Cristo.

Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli stati intermedi, altri hanno di pari passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è buono e al quale pensa Dio evidentemente. 

Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si irride o la si tratta come se fosse risibile la santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è progresso!

12. La bassa quota

Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente, perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale.

Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo quello che piace al «progressismo». Ed ecco.

Nel clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi porta la talare sta fuori del progresso. Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo momento il pericolo più grave per il clero è quello di scomparire. Sta scomparendo, perché tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse che non è indicativo il Referendum sul divorzio? 

Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno mano a tutto questo.

Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha costituita, costituisce benemerenza progressista.

Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei più grandi equivoci religiosi del secolo.
Animare gruppi detti magari «di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a movendo, tamquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti.

Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma praticata
Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia. 
Quanto si parla della santissima Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate ha reagito.

Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari ammannendo discussioni sul sesso.

Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché, orribile a dirsi, si ha vergogna di Dio.
Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe.
Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza. La via dell’inferno.

Conclusione

Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi, quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche che rinnovano l’organismo, ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di vita degli spiriti migliori.
Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno.

 
Cardinal Giuseppe Siri, «Rivista Diocesana Genovese», gennaio 1975
“Ecco, Io sto con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo”
(Mt., XXVIII, 20).