venerdì 30 ottobre 2015

AMMONIZIONI DEL SERAFICO PADRE SAN FRANCESCO

AMMONIZIONI (seconda e ultima parte)

di San Francesco d’Assisi



XIII. La pazienza.

Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio.

Il servo di Dio non può conoscere quanta pazienza e umiltà abbia in sé finché gli si dà soddisfazione. Quando invece verrà il tempo in cui quelli che gli dovrebbero dare soddisfazione gli si mettono contro, quanta pazienza e umiltà ha in questo caso, tanta ne ha e non più.

XIV. La povertà di spirito.

Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli.

Ci sono molti che, applicandosi insistentemente a preghiere e occupazioni, fanno molte astinenze e mortificazioni corporali, ma per una sola parola che sembri ingiuria verso la loro persona, o per qualche cosa che venga loro tolta, scandalizzati, tosto si irritano. Questi non sono poveri di spirito, poiché chi è veramente povero d ispirito odia se stesso e ama quelli che lo percuotono nella guancia.

XV. I pacifici.

Beati i pacifici, poiché saranno chiamati figli di Dio.

Sono veri pacifici coloro che in tutte le contrarietà che sopportano in questo mondo, per l’amore del Signore nostro Gesù Cristo, conservano la pace nell’anima e nel corpo.

XVI. La purezza di cuore.

Beati i puri di cuore, poiché essi vedranno Dio.

Veramente puri di cuore sono coloro che disdegnano le cose terrene e cercano le cose celesti, e non cessano mai di adorare e vedere il Signore Dio, vivo e vero, con cuore e animo puro.

XVII. L’umile servo di Dio.

Beato quel servo il quale non si inorgoglisce per il bene che il Signore dice e opera per mezzo di lui, più che per il bene che dice e opera per mezzo di un altro. Pecca l’uomo che vuol ricevere dal suo prossimo più di quanto non vuole dare di sé al Signore Dio.

XVIII. La compassione per il prossimo.

Beato l’uomo che offre un sostegno al suo prossimo per la sua fragilità, in quelle cose in cui vorrebbe essere sostenuto da lui, se si trovasse in un caso simile.

Beato il servo che restituisce tutti i suoi beni al Signore Iddio, perché chi riterrà qualche cosa per sé, nasconde dentro di sé il denaro del Signore suo Dio, e gli sarà tolto ciò che credeva di possedere.

XIX. L’umile servo di Dio.

Beato il servo, che non si ritiene migliore, quando viene lodato ed esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole, poiché quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più. Guai a quel religioso, che è posto dagli altri in alto e per sua volontà non vuol discendere. E beato quel servo, che non viene posto in alto di sua volontà e sempre desidera mettersi sotto i piedi degli altri.

XX. Il buon religioso e il religioso vano.

Beato quel religioso che non ha giocondità e letizia se non nelle santissime parole e opere del Signore e, mediante queste, conduce gli uomini all’amore di Dio con gaudio e letizia. Guai a quel religioso che si diletta in parole oziose e frivole e con esse conduce gli uomini al riso.

XXI. Il religioso leggero e loquace.

Beato il servo che, quando parla, non manifesta tutte le sue cose, con la speranza di una mercede, e non è veloce a parlare, ma sapientemente pondera di che parlare e come rispondere. Guai a quel religioso che non custodisce nel suo cuore i beni che il Signore gli mostra e non li manifesta agli altri nelle opere, ma piuttosto, con la speranza di una mercede, brama manifestarli agli uomini a parole. Questi riceve già la sua mercede e chi ascolta ne riporta poco frutto.

XXII. Della correzione fraterna.

Beato il servo che è disposto a sopportare così pazientemente da un altro la correzione, l’accusa e il rimprovero, come se li facesse a sé. Beato il servo che, rimproverato, di buon animo accetta, si sottomette con modestia, umilmente confessa e volentieri ripara. Beato il servo che non è veloce a scusarsi e umilmente sopporta la vergogna e la riprensione per un peccato, sebbene non abbia commesso colpa.

XXIII. La vera umiltà.

Beato il servo che viene trovato così umile tra i suoi sudditi come quando fosse tra i suoi padroni. Beato il servo che si mantiene sempre sotto la verga della correzione. E’ servo fedele e prudente colui che di tutti i suoi peccati non tarda a punirsi, interiormente per mezzo della contrizione ed esteriormente con la confessione e con opere di riparazione.

XXIV. La vera dilezione.

Beato il servo che tanto è disposto ad amare il suo fratello quando è infermo, e perciò non può ricambiargli il servizio, quanto l’ama quando è sano, e può ricambiarglielo.

XXV. Ancora della vera dilezione.

Beato il servo che tanto amerebbe e temerebbe un suo fratello quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui, e non direbbe dietro le sue spalle niente che con carità non possa dire in sua presenza.

XXVI. Che i servi di Dio onorino i chierici.

Beato il servo che ha fede nei chierici che vivono rettamente secondo le norme della Chiesa romana. E guai a coloro che li disprezzano. Quand’anche infatti siano peccatori , tuttavia nessuno li deve giudicare, poiché il Signore esplicitamente ha riservato solo a se stesso il diritto di giudicarli.

Invero, quanto più grande è il ministero che essi svolgono del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo che proprio essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri, tanto maggiore peccato commettono coloro che peccano contro di essi, che se peccassero contro tutti gli altri uomini di questo mondo.

XXVII. Come le virtù allontanano i vizi.

Dove è amore e sapienza,
ivi non è timore né ignoranza.
Dove è pazienza e umiltà,
ivi non è ira né turbamento.
Dove è povertà con letizia,
ivi non è cupidigia né avarizia.
Dove è quiete e meditazione,
ivi non è affanno né dissipazione.
Dove è il timore del Signore a custodire la sua casa,
ivi il nemico non può trovare via d’entrata.
Dove è misericordia e discrezione,
ivi non è superfluità né durezza.

XXVIII. Il bene va nascosto perché non si perda.

Beato il servo che accumula nel tesoro del cielo i beni che il Signore gli mostra e non brama di manifestarli agli uomini con la speranza di averne compenso, poiché lo stesso Altissimo manifesterà le sue opere a chiunque gli piacerà. Beato il servo che conserva nel suo cuore i segreti del Signore.


http://www.monasterovirtuale.it/i-classici-della-spiritualita-cattolica/s.-francesco-dassisi-regola-bollata-e-testamento/ammonizioni.html



AVE MARIA!


LUCE NELLE TENEBRE

Ce ne vorrebbero...

L’arcivescovo di Louisville, mons. Joseph Kurtz (classe 1946), Presidente della Conferenza Episcopale Statunitense, in una foto, inginocchiato per strada, mentre recita il rosario dinanzi a una clinica abortista della sua città.

Benedetto XVI ai vescovi tedeschi sul "pro multis": "SIAMO MOLTI E RAPPRESENTIAMO TUTTI..."


Don Manfred Hauke. Versato per molti. Studio per una fedele traduzione del pro multis nelle parole della consacrazione

Potete leggere di seguito la recensione di Cristina Siccardi ad un recente libro del Professor Don Manfred Hauke : Versato per molti. Studio per una fedele traduzione del pro multis nelle parole della consacrazione, edito da Cantagalli. Vedi qui la Presentazione del testo.
Sul pro multis avevamo ricordato la Lettera di Benedetto XVI ai vescovi tedeschi [qui].

Il 17 ottobre 2006 la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti inviò ai presidenti delle Conferenze Episcopali la lettera [qui] sulla traduzione corretta delle parole latine pro multis nelle orazioni eucaristiche. Questa direttiva, a nome di Benedetto XVI, provocò un vivace dibattito fra pastori e teologi. «Si riconobbe, in generale, la correttezza linguistica dell’ammonimento, ma varie voci mettevano in dubbio il messaggio teologico e la portata pastorale del richiamo. Fra queste voci qualcuno pensò addirittura che tale cambiamento avrebbe messo in serio dubbio il ruolo salvifico di Cristo, Sommo Sacerdote della Nuova Alleanza» (p.5), così ha scritto nel 2008 il Cardinale Malcom Ranjith nella prefazione al libro, quando era ancora Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (oggi Arcivescovo di Colombo in Sri Lanka).

Don Hauke, professore di Patrologia e Dogmatica alla Facoltà Teologica di Lugano (Svizzera), ha raccolto in questo testo gli elementi fuoriusciti dalla discussione contemporanea. «L’opera presenta il fondamento biblico del tema, segue l’interpretazione delle parole sacre durante la storia, riporta gli appositi documenti del Magistero e dona una lettura sistematica della corretta traduzione, consapevole della teologia eucaristica» (p. 5), si legge ancora nella prefazione del Cardinale Ranjith.


Il breve saggio risulta di rilevante importanza poiché anche il non teologo può comprendere il perché sia necessario continuare, sulla linea della Tradizione della Chiesa, ad affermare che il divino Sangue di Cristo continua ad essere versato sugli altari del mondo non per tutti, ma per molti. Il “tutti” comporta quel modo di procedere del pensiero teologico ed ecclesiastico moderno, dove nessuno è escluso dal Paradiso, nonostante sia reo di colpa mortale e dove ogni membro di qualsiasi religione abbia un “lasciapassare” di misericordia divina e incondizionata a prescindere dalla Giustizia divina (contraddizione in termini). Con il pro multis il Cristianesimo non divenne una religione per tutti «bensì rimase staticamente una religione per molti e in realtà per sempre meno. Adesso la Chiesa cattolica trae le sue conclusioni e vuole cambiare i suoi Messali. […] La salvezza delle anime non ce la si può immaginare come un affare meccanicistico […]. Quello che Cristo ha guadagnato a tutti dev’essere tuttavia voluto singolarmente. In tal modo si ovvia all’immagine di essere, in confronto ad altre religioni, una religione inoffensiva e ancora capace di ammiccare all’ateismo. Il Cattolicesimo non è così innocuo come sembra, come esso spesso fa» (p. 98), fa da quando il Modernismo ha imbrigliato le attenzioni della corrente maggioritaria della Chiesa.

L’esatta traduzione delle Parole della Consacrazione evidenzia la serietà della vita cristiana, che non è una scelta di vita per amanti del folklore, del sincretismo o di coloro che costruiscono la religione sulle proprie fantasie o i propri desideri e/o istinti, ma una strada con precise regole, precisi percorsi spirituali e di ragione, precisi doveri privati e pubblici che, se non incarnati, non è possibile dichiararsi cattolici. «Per appartenere a coloro che Cristo ha eletto è necessaria una cura attiva per la salvezza personale. In un tempo, dove il concetto biblico dell’elezione è stato gettato in un limbo della dimenticanza, una tale sveglia è oltremodo adeguata» (pp. 98-99).

Tradurre pro multis con per tutti è un compromesso dannosissimo. L’addomesticamento al compromesso che la Chiesa, nella sulla linea di «aggiornamento» alla modernità, è andata sempre più auspicando e cercando da 50 anni a questa parte, l’ha allontanata sempre più dal suo spirito e dalla sua natura, dai suoi obiettivi e dalla sua missionarietà evangelica, togliendo quella sana fierezza di essere Chiesa autenticamente cattolica per diventare una sempre più inconsistente Chiesa del buonismo liquido, che ogni giorno di più viene inghiottita dal miasma del mondo.
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"Versato per molti". Studio per una fedele traduzione del pro multis nelle parole della consacrazione – di Don Manfred Hauke – ed. Cantagalli (pag. 112, € 13,80)
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Benedetto XVI ai vescovi tedeschi sul "pro multis":

"SIAMO MOLTI E RAPPRESENTIAMO TUTTI..."

Eccellenza!


Reverendo, caro arcivescovo!

In occasione della sua visita, il 15 marzo 2012, ella mi ha messo a conoscenza del fatto che, per quanto riguarda la traduzione delle parole "pro multis" nella preghiera del canone della santa messa, tra i vescovi dell'area di lingua tedesca tuttora non esiste consenso.


A quanto pare incombe il pericolo che, nella nuova edizione del "Gotteslob", la cui pubblicazione è attesa presto, alcune parti dell'area linguistica tedesca desiderino mantenere la traduzione "per tutti", sebbene la conferenza episcopale tedesca sia d'accordo nello scrivere "per molti", così come auspicato dalla Santa Sede.

Le ho promesso di pronunciarmi per iscritto in merito a tale importante questione, per prevenire una simile divisione nel luogo più intimo della nostra preghiera. Provvederò a fare inviare questa lettera, che attraverso di lei indirizzo a tutti i membri della conferenza episcopale tedesca, anche agli altri vescovi dell'area di lingua tedesca.

Permettetemi qualche breve parola su come è sorto il problema.

Negli anni Sessanta, quando il messale romano, sotto la responsabilità dei vescovi, dovette essere tradotto in lingua tedesca, esisteva un consenso esegetico sul fatto che il termine "i molti", "molti", in Isaia 53, 11 s., fosse una forma espressiva ebraica per indicare l'insieme, "tutti". La parola "molti" nei racconti dell'istituzione di Matteo e di Marco era pertanto considerata un semitismo e doveva essere tradotta con "tutti". Ciò venne esteso anche alla traduzione del testo latino, dove "pro multis", attraverso i racconti evangelici, rimandava a Isaia 53 e quindi doveva essere tradotto con "per tutti".

Tale consenso esegetico nel frattempo si è sgretolato; non esiste più. Nel racconto dell'ultima cena della traduzione unificata tedesca della Sacra Scrittura si legge: "Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza, versato per molti" (Mc 14, 24; cfr. Mt 26, 28). Ciò rende evidente una cosa molto importante: la traduzione di "pro multis" con "per tutti" non è stata una traduzione pura, bensì un'interpretazione, che era, e tuttora è, ben motivata, ma è una spiegazione e dunque qualcosa di più di una traduzione.

Questa fusione fra traduzione e interpretazione per certi versi fa parte dei principi che, subito dopo il Concilio, guidarono la traduzione dei testi liturgici nelle lingue moderne. Si era ben consapevoli di quanto la Bibbia e i testi liturgici fossero distanti dal mondo del linguaggio e del pensiero attuale della gente, per cui anche tradotti avrebbero continuato ad essere incomprensibili per quanti partecipavano alle funzioni. Un rischio nuovo era il fatto che, attraverso la traduzione, i testi sacri sarebbero stati aperti, lì, davanti a quanti partecipavano alla messa, e tuttavia sarebbero rimasti molto distanti dal loro mondo, ed anzi questa distanza sarebbe diventata più che mai visibile. Quindi non ci si sentì solo autorizzati, ma addirittura obbligati a immettere l'interpretazione nella traduzione, così da abbreviare il cammino verso le persone, i cui cuori e le cui menti dovevano essere raggiunti da quelle parole.

In una certa misura il principio di una traduzione contenutistica e non necessariamente letterale dei testi fondamentali continua ad essere giustificato. Poiché pronuncio spesso le preghiere liturgiche nelle varie lingue, noto che talvolta tra le diverse traduzioni quasi non si riscontrano somiglianze e che il testo comune sulle quali si basano spesso è solo lontanamente riconoscibile. Allo stesso tempo si sono verificate delle banalizzazioni che costituiscono vere perdite. Così, nel corso degli anni, io stesso ho compreso sempre più chiaramente che, come orientamento per la traduzione, il principio della corrispondenza non letterale, bensì strutturale, ha i suoi limiti.

Seguendo queste intuizioni, l'istruzione per i traduttori "Liturgiam authenticam", promulgata il 28 marzo 2001 dalla congregazione per il culto divino, ha messo nuovamente in primo piano il principio della corrispondenza letterale, senza naturalmente prescrivere un verbalismo unilaterale.

L'importante intuizione che sta alla base di questa istruzione è la distinzione, già citata all'inizio, fra traduzione e interpretazione. Essa è necessaria sia per le parole della Scrittura, sia per i testi liturgici. Da un lato, la sacra Parola deve emergere il più possibile per se stessa, anche con la sua estraneità e con le domande che reca in sé. Dall'altro, alla Chiesa è affidato il compito dell'interpretazione affinché – nei limiti della nostra rispettiva comprensione – ci giunga il messaggio che il Signore ci ha destinato.

Anche la traduzione più accurata non può sostituire l'interpretazione: fa parte della struttura della Rivelazione il fatto che la Parola di Dio venga letta nella comunità interpretante della Chiesa, che la fedeltà e l'attualizzazione si leghino tra loro. La Parola deve essere presente per se stessa, nella sua forma propria, a noi forse estranea; l'interpretazione deve essere misurata in base alla sua fedeltà alla Parola, ma al tempo stesso deve renderla accessibile a chi l'ascolta oggi.

In tale contesto, la Santa Sede ha deciso che nella nuova traduzione del messale l'espressione "pro multis" debba essere tradotta come tale, senza essere già interpretata. La traduzione interpretativa "per tutti" deve essere sostituita dalla semplice traduzione "per molti". Vorrei ricordare che sia in Matteo sia in Marco non c'è l'articolo, quindi non "per i molti", bensì "per molti".

Se dal punto di vista della correlazione fondamentale fra la traduzione e l'interpretazione questa scelta è, come spero, del tutto comprensibile, sono però consapevole che essa rappresenta una sfida immensa per tutti coloro ai quali è affidato il compito di spiegare la Parola di Dio nella Chiesa.

Per chi normalmente frequenta la messa, ciò appare quasi inevitabilmente come una frattura al centro stesso del rito sacro. Domanderà: ma Cristo non è morto per tutti? La Chiesa ha modificato la sua dottrina? Può farlo, le è permesso? È all'opera una reazione che vuole distruggere l'eredità del Concilio?

Grazie all'esperienza degli ultimi cinquant'anni, tutti noi sappiamo quanto profondamente la modifica delle forme e dei testi liturgici colpisca l'anima delle persone; e quindi quanto un cambiamento in un punto così centrale del testo debba inquietare le persone. Proprio per questo, quando davanti alla differenza fra traduzione e interpretazione si scelse la traduzione "molti", si stabilì anche che nelle diverse aree linguistiche la traduzione dovesse essere preceduta da una catechesi accurata, con la quale i vescovi dovevano spiegare concretamente ai loro sacerdoti, e tramite loro ai fedeli, di che cosa si trattava.

Questa catechesi previa è il presupposto essenziale per l'entrata in vigore della nuova traduzione. Per quanto mi risulta, nell'area di lingua tedesca una tale catechesi finora non c'è stata. La mia lettera intende essere una richiesta pressante a tutti voi, cari confratelli, a preparare ora una tale catechesi, per poi parlarne con i vostri sacerdoti e al contempo renderla accessibile ai fedeli.

In questa catechesi bisogna anzitutto chiarire brevemente perché nella traduzione del messale, dopo il concilio, la parola "molti" è stata resa con "tutti": per esprimere in modo inequivocabile, nel senso voluto da Gesù, l'universalità della salvezza che giunge da lui.

Allora, però, sorge subito la domanda: se Gesù è morto per tutti, perché nelle parole dell'ultima cena egli ha detto "per molti"? E perché allora insistiamo su queste parole di Gesù dell'istituzione?

Prima di tutto, a questo punto bisogna ancora precisare che secondo Matteo e Marco Gesù ha detto "per molti", mentre secondo Luca e Paolo ha detto "per voi". Ciò sembra stringere ancora di più il cerchio. Ma proprio a partire da qui ci si può avvicinare alla soluzione. I discepoli sanno che la missione di Gesù trascende loro e il loro gruppo; che egli è venuto per riunire insieme i figli di Dio di tutto il mondo che erano dispersi (Gv 11, 52). Le parole "per voi" rendono però la missione di Gesù molto concreta per i presenti. Essi non sono un qualche elemento anonimo di un insieme immenso, bensì ognuno di loro sa che il Signore è morto proprio per lui, per noi. "Per voi" si protende nel passato e nel futuro, si rivolge a me personalmente; noi, che siamo qui riuniti, siamo conosciuti e amati come tali da Gesù. Quindi questo "per voi" non è un restringimento, bensì una concretizzazione che vale per ogni comunità che celebra l'eucaristia, che la unisce in modo concreto all'amore di Gesù. Il canone romano ha unito tra loro le due espressioni bibliche nelle parole di consacrazione e quindi dice: "per voi e per molti". Questa formula, poi, con la riforma liturgica è stata adottata per tutte le preghiere eucaristiche.

Però di nuovo: perché "per molti"? Il Signore non è forse morto per tutti? Il fatto che Gesù Cristo, come Figlio di Dio fatto uomo, sia l'uomo per tutti gli uomini, il nuovo Adamo, è una delle certezze fondamentali della nostra fede. Vorrei a questo riguardo ricordare solo tre versi delle Scritture. Dio "ha dato per tutti noi" il proprio Figlio, dice Paolo nella lettera ai Romani (8, 32). "Uno è morto per tutti", afferma nella seconda lettera ai Corinzi a proposito della morte di Gesù (5, 14). Gesù "ha dato se stesso in riscatto per tutti", si legge nella prima lettera a Timoteo (2, 6).

Ma allora bisogna davvero domandare ancora una volta: se questo è tanto ovvio, perché la preghiera eucaristica dice "per molti"? Ora, la Chiesa ha tratto questa formulazione dai racconti dell'istituzione nel Nuovo Testamento. La usa per rispetto della parola di Dio, per essergli fedele fin nella parola. È il timore reverenziale dinanzi alla stessa parola di Gesù la ragione della formulazione della preghiera eucaristica. Allora, però, domandiamo: perché Gesù ha detto così? La ragione vera consiste nel fatto che Gesù in tal modo si è fatto riconoscere come il servo di Dio di Isaia 53, che egli si è rivelato come la figura annunciata dalla profezia. Il timore reverenziale della Chiesa davanti alla parola di Dio, la fedeltà di Gesù alle parole della "Scrittura": è questa doppia fedeltà il motivo concreto della formulazione "per molti". In questa catena di riverente fedeltà, noi ci inseriamo con la traduzione letterale delle parole della Scrittura.

Come prima abbiamo visto che il "per voi" della tradizione paolino-lucana non restringe ma rende concreto, così ora possiamo riconoscere che la dialettica tra "molti" e "tanti" ha una sua importanza. "Tutti" si muove sul piano ontologico: l'essere e l'agire di Gesù comprende l'intera umanità, il passato, il presente e il futuro. Ma di fatto, storicamente, nella comunità concreta di coloro che celebrano l'eucaristia egli giunge solo a "molti". Si può quindi riconoscere un triplice significato dell'attribuzione di "molti" e "tutti".

Anzitutto, per noi, che possiamo sedere alla sua mensa, deve significare sorpresa, gioia e gratitudine per essere stati chiamati, per poter stare con lui e per poterlo conoscere. "Siano rese grazie al Signore che, per la sua grazia, mi ha chiamato nella sua Chiesa...".

Poi, però, in secondo luogo ciò è anche una responsabilità. La forma in cui il Signore raggiunge gli altri – "tutti" – a modo suo, in fondo rimane un suo mistero. Tuttavia, è indubbiamente una responsabilità essere chiamati direttamente da lui alla sua mensa per poter sentire: per voi, per me egli ha sofferto. I molti hanno la responsabilità per tutti. La comunità dei molti deve essere luce sul candelabro, città sopra il monte, lievito per tutti. È questa una vocazione che riguarda ognuno in modo del tutto personale. I molti, che noi siamo, devono avere la responsabilità per l'insieme, nella consapevolezza della loro missione.

Infine può aggiungersi un terzo aspetto. Nella società attuale abbiamo la sensazione di non essere affatto "molti", bensì molto pochi, una piccola massa che continua a diminuire. E invece no, siamo "molti": "Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7, 9). Siamo molti e rappresentiamo tutti. Quindi le parole "molti" e "tutti" vanno insieme e fanno riferimento l'una all'altra nella responsabilità e nella promessa.

Eccellenza, caro confratello nell'episcopato! Con tutto questo ho voluto accennare le linee fondamentali della catechesi, con la quale sacerdoti e laici dovranno essere preparati al più presto alla nuova traduzione. Auspico che tutto ciò possa servire anche a una partecipazione più intensa alla celebrazione della sacra eucaristia, inserendosi in tal modo nel grande impegno che dovremo affrontare con l'"Anno della Fede". Posso sperare che la catechesi venga presto preparata e in tal modo diventi parte del rinnovamento liturgico, per il quale il Concilio ha lavorato sin dalla sua prima sessione.

Con i saluti pasquali di benedizione, suo nel Signore.

Benedictus PP XVI
14 aprile 2012
(Traduzione dall'originale tedesco di Simona Storioni)



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Il card. Arinze ai presidenti delle Conferenze episcopali: La traduzione "per tutti" va cambiata in "per molti"

Lettera della Congregazione per il Culto Divino sulla traduzione di "pro multis" nella Consacrazione del Calice

Congregatio de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum

Prot. N. 467/05/L
Roma, 17 Ottobre 2006

Eminenza / Eccellenza,
Nel mese di luglio del 2005 questa Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, d'accordo con la Congregazione per la Dottrina della Fede, ha scritto a tutti i presidenti delle conferenze episcopali per chiedere il loro parere autorizzato sulla traduzione nelle diverse lingue nazionali dell'espressione pro multis nella formula della consacrazione del prezioso Sangue durante la celebrazione della santa Messa (rif. Prot. N. 467/05/L del 9 luglio 2005).

Le risposte ricevute dalle conferenze episcopali sono state studiate dalle due Congregazioni e un rapporto è stato inviato al Santo Padre. Secondo le sue direttive, questa Congregazione scrive ora a Vostra Eminenza / Vostra Eccellenza nei termini seguenti:

  1. Un testo corrispondente alle parole pro multis, tramandato dalla Chiesa, costituisce la formula che è stata in uso nel rito romano in latino fin dai primi secoli. Negli ultimi trent'anni, più o meno, alcuni testi approvati in lingua moderna hanno riportato la traduzione interpretativa "for all", "per tutti", o equivalente.
  2. Non vi è alcun dubbio sulla validità delle messe celebrate con l'uso di una formula debitamente approvata contenente una formula equivalente a "per tutti", come già ha dichiarato la Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr. Sacra Congregatio pro Doctrina Fidei, Declaratio de sensu tribuendo adprobationi versionum formularum sacramentalium, 25 Ianuarii 1974, AAS 66 [1974], 661). Effettivamente, la formula "per tutti" corrisponderebbe indubbiamente a un'interpretazione corretta dell'intenzione del Signore espressa nel testo. È un dogma di fede che Cristo è morto sulla Croce per tutti gli uomini e le donne (cfr. Gv 11,52; 2Cor 5,14-15; Tit 2,11; 1Gv 2,2).
  3. Ci sono, tuttavia, molti argomenti a favore di una traduzione più precisa della formula tradizionale pro multis:
  1. I Vangeli Sinottici (Mt 26,28; Mc 14,24) fanno specifico riferimento ai "molti" (polloi) per i quali il Signore offre il sacrificio, e questa espressione è stata messa in risalto da alcuni esegeti in relazione alle parole del profeta Isaia (53,11-12). Sarebbe stato del tutto possibile nei testi evangelici dire "per tutti" (per esempio, cfr. Lc 12,41); invece, la formula data nel racconto dell'istituzione è "per molti", e queste parole sono state tradotte fedelmente così nella maggior parte delle versioni bibliche moderne.
  2. Il rito romano in latino ha sempre detto pro multis e mai pro omnibus nella consacrazione del calice.
  3. Le anafore dei vari riti orientali, in greco, in siriaco, in armeno, nelle lingue slave, ecc., contengono l'equivalente verbale del latino pro multis nelle loro rispettive lingue.
  4. "Per molti" è una traduzione fedele di pro multis, mentre "per tutti" è piuttosto una spiegazione del tipo che appartiene propriamente alla catechesi.
  5. L'espressione "per molti", pur restando aperta all'inclusione di ogni persona umana, riflette inoltre il fatto che questa salvezza non è determinata in modo meccanico, senza la volontà o la partecipazione dell’uomo. Il credente, invece, è invitato ad accettare nella fede il dono che gli è offerto e a ricevere la vita soprannaturale data a coloro che partecipano a questo mistero, vivendolo nella propria vita in modo da essere annoverato fra "i molti" cui il testo fa riferimento.
  6. In conformità con l’istruzione Liturgiam authenticam, dovrebbe essere fatto uno sforzo per essere più fedeli ai testi latini delle edizioni tipiche.
Le Conferenze episcopali di quei paesi in cui la formula "per tutti" o il relativo equivalente è attualmente in uso sono quindi invitate a intraprendere la catechesi necessaria ai fedeli su questa materia nei prossimi uno o due anni per prepararli all'introduzione di una traduzione precisa in lingua nazionale della formula pro multis (per esempio, "for many", "per molti", ecc.) nella prossima traduzione del Messale Romano che i vescovi e la Santa Sede approveranno per l’uso in quei paesi.

Con l'espressione della mia alta stima e rispetto, rimango della Vostra Eminenza / Vostra Eccellenza
devotissimo in Cristo

+ Card. Francis Arinze, Prefetto

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Nota di monsignor Juan Andrés Caniato

“IL TRADUTTORE ITALIANO HA SCIAGURATAMENTE PENSATO…” I problemi di traduzione non sono poca cosa e stanno emergendo ogni giorno di più nella loro drammatica problematicità.

Per rimanere nel rito della messa, basterebbe pensare al “Padre nostro”: è un testo biblico o liturgico? Se è testo liturgico, va tradotto dal latino liturgico e non dal greco, con criteri liturgici e non biblici. “Et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo”.

(Nel novembre del 2011 i vescovi italiani votarono per cambiare il “non ci indurre in tentazione” in “non abbandonarci alla tentazione”, con 111 voti contro 68 dati a “non abbandonarci nella tentazione” – ndr). Oppure al “Gloria”: cosa significa “bonae voluntatis”? Così come è tradotto adesso parrebbe la “buona volontà” degli uomini, quando invece si tratta della buona disposizione di Dio verso gli uomini, con tutto quello che consegue.

(Ancora nel novembre del 2011 i vescovi italiani votarono per cambiare il “pace in terra agli uomini di buona volontà” con “pace in terra agli uomini che egli ama”, con 151 voti contro 36 andati alla versione in uso – ndr).

Ma tornando alle parole della consacrazione nella grande preghiera eucaristica non si percepisce la gravità teologica della traduzione italiana, che ha reso con due participi passati ciò che nel testo latino è addirittura al futuro:
– corpo “offerto in sacrificio” al posto di “tradetur”, “che sarà consegnato”;
– e sangue “versato” al posto di ” effundetur”, “che sarà versato”.

Ne va della comprensione stessa della messa e del suo rapporto con l’ultima cena e con la passione, morte e risurrezione di Cristo. 
Il traduttore italiano ha sciaguratamente pensato che il fedele italiano, se avesse ascoltato quei due verbi al futuro avrebbe potuto immaginare che il Signore non avesse ancora donato la sua vita per noi…
In realtà è proprio quel futuro che ci aiuta a comprendere il rapporto tra eucaristia e Pasqua: gli apostoli, nell’ultima cena parteciparono realmente alla Pasqua di Gesù, prima che avvenisse storicamente, esattamente come noi oggi vi partecipiamo dopo che è avvenuta.
L’eucaristia non è memoriale dell’ultima cena, con enfatizzazione del “banchetto”, ma della passione, morte e risurrezione del Signore, attraverso il rito compiuto da Gesù nell’ultima cena. L’eucaristia spezza la barriera del tempo cronologico, e ci rende partecipi “qui e ora” del mistero pasquale.
Se un fedele italiano avesse avuto dei dubbi su quel futuro, sarebbe stata una occasione preziosissima di catechesi semplice e persuasiva sul significato del sacramento.

AMDG et BVM




 


giovedì 29 ottobre 2015

LA SANTA VERGINE AI TEMPI DELL’ANTICRISTO

ottobre 2015

LA SANTA VERGINE AI TEMPI DELL’ANTICRISTO
Estratto dal libro “Breve apologia della Chiesa di sempre”,
di Padre Roger-Thomas Calmel O.P.
(1914-1975), ed. Ichthys

Signora della storia
«Vorrei vivere ai tempi dell'anticristo» scriveva la piccola Teresa nel suo letto d’agonia. 

Non vi è dubbio che la Carmelitana che si era offerta vittima d'olocausto all’amore misericordioso, intercederà per noi in modo particolare quando si ergerà l'anticristo; 

non vi è dubbio che interceda già in modo speciale in questa nostra epoca  nella quale i precursori dell'anticristo sono già penetrati in seno alla chiesa; 

non vi è dubbio che la sua preghiera si perde in una supplica che è, per cosi dire, infinitamente più potente e cioè quella della Vergine Madre di Dio. Lei, che schiaccia il serpente per mezzo della Sua Immacolata Concezione e della Sua maternità verginale, Lei, che vien glorificata fin nel Suo corpo e regna nel cielo accanto al Figlio Suo. Lei che domina qual sovrana tutti i tempi della nostra storia e particolarmente i tempi più pericolosi per le anime: i tempi della venuta dell'anticristo o quelli della sua preparazione tramite i suoi diabolici precursori.

Tempi difficili e tempi di Apocalisse

Maria non si manifesta solamente come Vergine potente e consolatrice nelle ore di pericolo per la città terrestre e la vita corporale, si manifesta principalmente come la Vergine soccorritrice “forte come un’armata schierata in battaglia” nei periodi di devastazione della Santa Chiesa e d'agonia spirituale dei suoi fidi. Lei è la regina per tutta la storia del genere umano, non solo per i tempi difficili, ma per i tempi dell'Apocalisse.

Un tempo difficile fu quello della grande Guerra: un'ecatombe di offensive mal preparate, una distruzione implacabile sotto un uragano di ferro e di fuoco. Quanti uomini, che, avendo allacciato il loro cinturone, partivano con la terribile certezza di perire in questa impresa allucinante - senza mai veder apparire la vittoria! – talvolta anche, ed era la cosa più atroce, un dubbio sul valore dei loro capi e sulla validità del comando sfiorava i loro animi. 

Ma su un punto non avevano alcun dubbio, su una questione superiore ad ogni altra: quella dell'autorità spirituale. Il cappellano, che assisteva questi uomini votati a servire la patria fino alla morte, era di assoluta fermezza su tutti gli articoli di Fede e non gli sarebbe mai venuto in mente di inventare una qualsiasi trasformazione "pastorale" della Santa Messa; 

celebrava il Santo Sacrificio secondo il rito e le parole antiche; lo celebrava con una pietà tanto più profonda, con una supplica tanto più ardente perché potevano essere chiamati da un momento all'altro, lui sacerdote disarmato e i suoi parrocchiani in anni, ad unire il loro sacrificio di poveri peccatori riscattati all'unico Sacrificio del Figlio di Dio che toglie i peccati del mondo. 


Anche la fedeltà stessa del cappellano si basava tranquillamente sulla fedeltà dell’autorità gerarchica, che custodiva e difendeva la dottrina cristiana e il culto tradizionale; che non esitava ad escludere dalla comunione cattolica gli eretici e i traditori. 
Sul fronte di battaglia, ben presto, forse qualche istante dopo, i corpi potevano essere straziati, lacerati, in un orrore senza nome; poteva essere l'inesorabile soffocamento  la lenta asfissia sotto una coltre di gas, ma, malgrado il supplizio del corpo, l"anima rimaneva intatta, la sua serenità restava inalterata. Il suo intimo recesso non era minacciato; il più nero dei demoni, quello delle supreme menzogne, non faceva udire il suo ghigno; l'anima non era abbandonata al perfido attacco, vigliaccamente tollerato, degli pseudo-profeti, della pseudo-Chiesa; malgrado il supplizio del corpo l’anima si librava dalla dimora tranquilla di una Fede protetta verso la dimora luminosa della visione beatifica del cielo.

La Grande Guerra fu un tempo difficile. Ma eccoci ormai entrati in un tempo d’Apocalisse. Senza dubbio non siamo ancora all’uragano di fuoco che soffoca i corpi, ma siamo già all’agonia delle anime perché l’autorità spirituale sembra non si curi più di difendere, sembra che si disinteressi sia della verità della dottrina che dell’integrità del culto, dal momento che ostentatamente rinuncia a condannare i colpevoli. 
E' l’agonia delle anime della Santa Chiesa minata all’interno da traditori ed eretici che continuano a non essere cacciati. (Durante tutta la storia vi sono stati altri momenti d’Apocalisse. Ricordiamoci, per esempio, degli interrogatori a Santa Giovanna d’Arco, privata dei Sacramenti da uomini di Chiesa, relegata nella sua oscura cella sotto la guardia di orribili carcerieri)

Ma i tempi dell’Apocalisse sono sempre contrassegnati dalle vittorie della Grazia. Perché anche quando le bestie dell’Apocalisse penetrano fin nella Città Santa e l’espongono agli ultimi pericoli, la [vera] Chiesa non cesserà di restare la Chiesa: città prediletta, inespugnabile al demonio e ai suoi ministri, città pura e senza macchia di cui la Santa Vergine è Regina.

Mediatrice onnipotente e garanzia di vittoria

È Lei, la Regina Immacolata che farà abbreviare dal Cristo Suo Figlio gli anni sinistri dell’anticristo. Anche in questo periodo, ci otterrà di perseverare e santificarci. Ci conserverà quella porzione di legittima autorità spirituale di cui abbiamo assoluto bisogno. 
La Sua presenza al Calvario, ai piedi della Croce, ce lo assicura infallibilmente. Era immobile ai piedi della Croce di Suo Figlio, il Figlio di Dio in persona, per potersi unire più perfettamente al Suo Sacrificio redentore, per meritare in Lui ogni grazia per i suoi figli di adozione. 

Ogni grazia: la grazia per affrontare le tentazioni e le tribolazioni che cospargono le esistenze più serene, ma anche la grazia per perseverare, rialzarsi, santificarsi nelle prove peggiori, le prove della stanchezza fisica e le prove, ben più dure, dell’agonia dell’anima; il tempo durante il quale la città terrena diventa preda degli invasori e soprattutto il tempo durante il quale la Chiesa di Gesù Cristo deve resistere all’autodemolizione [o smantellamento]. 

Tenendosi ai piedi della croce del Suo Figlio, la Vergine Madre, la cui anima fu trapassata da una spada di dolore, la Divina Vergine che fu straziata e oppressa come nessun’altra creatura lo sarà mai, ci fa comprendere senza possibilità di dubbio che Ella sarà capace di sostenere i redenti durante le più inaudite prove, grazie ad una materna intercessione infinitamente pura e infinitamente potente. 

Ci persuade questa Vergine dolcissima, Regina dei martiri, che la vittoria si nasconde nella stessa Croce e che questa vittoria diverrà manifesta: il mattino radioso della resurrezione sorgerà presto per il giorno senza declino della Chiesa trionfante.

Dramma senza precedenti

Nella Chiesa di Gesù, in preda al modernismo fin nei suoi capi, a tutti i livelli della gerarchia, la sofferenza delle anime, la gravità dello scandalo raggiungono una intensità sconvolgente. Questo dramma è senza precedenti, ma la grazia del Figlio di Dio Redentore è più profonda di questo dramma e l’intercessione del Cuore Immacolato di Maria che ottiene ogni grazia non viene mai meno. Nelle anime più abbattute, le più prossime a soccombere, la Vergine Madre interviene notte e giorno per dissipare misteriosamente questo dramma, per rompere misteriosamente le catene che il demonio immagina infrangibili. Solve vincla reis!

Il ricorso a Maria

Noi tutti che il Signore Gesù, per un singolare segno d’onore, chiama alla fedeltà in questi periodi nuovi, in questa forma di lotta della quale non avevamo esperienza – la lotta contro i precursori dell’anticristo introdottisi nella Chiesa – ritorniamo al nostro cuore, ritorniamo alla nostra Fede; ricordiamoci che crediamo nella divinità di Gesù, nella maternità spirituale di Maria Immacolata. Scorgiamo almeno la pienezza di grazia e di saggezza che si trova nascosta nel cuore del Figlio di Dio fatto Uomo e che scorre efficacemente verso tutti coloro che credono; scorgiamo anche la pienezza di tenerezza e di intercessione che è unicamente privilegio del Cuore Immacolato della Divina Vergine Maria. 

Ricorriamo alla santa Vergine come Suoi figli e faremo allora l’ineffabile esperienza che i tempi dell’anticristo sono i tempi della vittoria: vittoria della totale Redenzione di Gesù Cristo e dell’intercessione sovrana di Maria.

AVE MARIA!

Il latino, vincolo di unità tra popoli e culture

 ottobre 2015

L'evoluzione storica della lingua liturgica nel rito romano.
L'autore di questo articolo, Padre Uwe Michael Lang, già Officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, ora è membro dell’oratorio di San Filippo Neri a Londra. [vedi anche il suo magistrale intervento al primo Convegno su il Motu Proprio Summorum Pontificum - Una ricchezza spirituale per tutta la Chiesa, Roma 16-18- settembre 2008 e Tamquam cor in pectore: Il Tabernacolo sull'Altare maggiore].
Lo ricordiamo anche come autore del libro Rivolti al Signore [vedi qui la Prefazione del card. Ratzinger]

L'unità culturale e politica del mondo mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della fede cristiana. In particolare, la diffusione della lingua greca nei centri urbani dell'Impero Romano favorì l'annuncio del Vangelo. Il greco parlato a Oriente e Occidente non era l'idioma classico, bensì la koiné semplificata, il linguaggio comune delle varie nazioni della parte orientale del mondo mediterraneo: Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto.

La koiné greca era anche la lingua del proletariato urbano in Occidente che vi era emigrato dai territori orientali dell'Impero. Roma era divenuta una città multi-etnica e multi-culturale. In essa viveva anche una consistente popolazione ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco. La lingua delle prime comunità cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai Romani di Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che videro la luce a Roma, per esempio laPrima Lettera di Clemente, il Pastore di Erma e gli scritti di Giustino.

Nei primi due secoli si avvicendarono parecchi papi con nomi greci e le iscrizioni tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo periodo, greca era anche la lingua comune della liturgia romana. 

Lo spostamento verso il latino non cominciò a Roma, ma nell'Africa settentrionale, dove i convertiti al cristianesimo erano in maggioranza nativi di lingua madre latina piuttosto che immigrati greco parlanti. Verso la metà del terzo secolo questa transizione era molto avanzata: membri del clero romano scrivevano a Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la lingua in cui Novaziano compose il suo De trinitate e altre opere, citando una versione latina esistente della Bibbia. Nessun riferimento si fa qui alla cosiddetta Traditio Apostolica, attribuita a Ippolito da Roma, a causa dell'incertezza sulla data, sull'origine e sul vero autore. 

Sembrerebbe che nella seconda metà del terzo secolo il flusso immigratorio dall'Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio demografico comportò un peso crescente dei nativi latino parlanti nella vita della Chiesa di Roma. Ciò nonostante il greco continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno a un certo livello, fino alla seconda metà del IV secolo; questo si evince da una citazione greca della preghiera eucaristica nell'autore latino Mario Vittorino, risalente al 360. 

Intorno a quell'epoca, comunque, la transizione al latino era in fase molto avanzata; ciò risulta molto evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive fra il 374 e il 382, il quale sostiene che la preghiera eucaristica a Roma si riferisce a Melchisedek come summus sacerdos - un titolo che ci suona familiare dal più tardo Canone della messa.

La più importante risorsa per la storia della prima liturgia latina è Ambrogio di Milano. Nel suo De sacramentis, una serie di catechesi per i neo battezzati tenute intorno al 390, egli cita estesamente la preghiera eucaristica usata a quell'epoca a Milano. I passaggi citati sono le forme più antiche delle preghiere Quam oblationemQui pridieUnde et memoresSupra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. Altrove, nel De sacramentis, Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire l'uso della Chiesa romana in tutto; per questa ragione, possiamo ritenere con certezza che questa preghiera eucaristica fosse di origine romana. Anche nei sermoni di Zeno, vescovo di Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano la diffusione geografica di questa forma originaria del Canone Romano.

La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone che Gregorio Magno promulgò alla fine del VI secolo ed è giunto fino a noi con poche modifiche di scarso rilievo rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano, risalente alla metà dell'VIII secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi. 

In ogni caso le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi furono un periodo di intenso sviluppo liturgico.

Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu completato sotto il pontificato di Damaso I (366-384). Da allora in poi la liturgia a Roma fu celebrata in latino, con l'eccezione di poche reminiscenze dell'uso più antico, come il Kyrie eleison nell'Ordo e le letture in greco nella messa papale.

Stando a Ottato di Milevi, che scrive intorno al 360, c'erano più di quaranta chiese a Roma prima dell'editto di Costantino. Se questa informazione è vera, sarebbe ragionevole opinare che ci fossero comunità latino parlanti nel III secolo, se non prima, che celebravano la liturgia in latino, in particolare la lettura della Sacra Scrittura. 

I Salmi erano stati cantati in latino sin dalle origini e l'antica versione usata nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che Girolamo la corresse soltanto con molta cautela. In seguito egli tradusse il Salterio dall'ebraico non per uso liturgico, come disse, ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito. Christine Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse tradotta in latino sin dal II secolo. Nessuna certezza si può avere su questi punti, ma è chiaro che ci fu un periodo di transizione e che esso fu lungo.
Mohrmann introduce una distinzione utile fra, primo, "testi di preghiera", dove la lingua è soprattutto un mezzo di espressione, secondo, testi "destinati a essere letti, l'Epistola e il Vangelo", e, terzo, "testi confessionali", come il credo. Nei testi di preghiera ci troviamo di fronte a modi di esprimersi; negli altri primariamente a forme di comunicazione.
Recenti ricerche su lingua e rito, come l'opera di Catherine Bell, confermano l'intuizione di Mohrmann che la lingua ha differenti funzioni in differenti parti della liturgia, che vanno oltre la mera comunicazione o informazione. Queste riflessioni teoretiche ci aiutano a capire lo sviluppo della prima liturgia romana: quelle parti in cui gli elementi di comunicazione erano prevalenti, come la lettura delle Scritture, furono tradotte prima, mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere recitata in greco per un periodo molto più lungo. 

La "sociolinguistica" - una disciplina accademica relativamente nuova - ci mette in guardia sul fatto che la scelta di una lingua rispetto a un'altra non è mai questione neutrale o trasparente. Di conseguenza è importante considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei suoi contesti storici, sociali e culturali.

Gli storici dell'antichità hanno indicato che la formazione di lingua latina liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio di cristianizzazione della cultura e della civiltà romana.

Nella seconda metà del IV secolo i vescovi più influenti in Italia, soprattutto Damaso a Roma e Ambrogio a Milano, erano impegnati a cristianizzare la cultura dominante dei loro giorni. Nella città di Roma c'era una forte presenza pagana e specialmente l'aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche se nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro del potere politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici nella mentalità delle sue élites. 

Il IV secolo è ora considerato un periodo di rinascimento letterario, con un rinnovato interesse per i "classici" della poesia e della prosa romane. Gli imperatori del IV secolo coltivarono questaLatinitas, e ci fu una riscoperta del latino anche ad Oriente. Con tenacia caratteristica, Roma mantenne le sue antiche tradizioni. 

In relazione a ciò, i papi del tardo IV secolo promossero un progetto consapevole e comprensivo di appropriazione dei simboli della civiltà romana da parte della fede cristiana. Parte di questo tentativo fu l'appropriazione di spazio pubblico tramite impegnativi progetti edilizi. Dopo che gli Imperatori della dinastia di Costantino avevano dato il via con le monumentali basiliche del Laterano e San Pietro, come pure con le basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, i papi continuarono questo programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città dominata da chiese.
Il progetto più prestigioso fu la costruzione di una nuova basilica dedicata a San Paolo sulla Via Ostiense, sostituendo il piccolo edificio costantiniano con una nuova chiesa simile per dimensioni a San Pietro. Un altro aspetto importante fu l'appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane lungo il corso dell'anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il calendario Filocalianodell'anno 354). La formazione del latino liturgico fece parte di questo sforzo onnicomprensivo di evangelizzare la cultura classica.
Christine Mohrmann ravvisa in essa il fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo romano. Il latino liturgico ha la gravitas romana ed evita l'esuberanza dello stile di preghiera dell'Oriente cristiano, che si ritrova anche nella tradizione gallicana. Questa non fu un'adozione della lingua "vernacola" nella liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei prefazi della messa, fu rimosso dall'idioma della gente comune. Essa era una lingua fortemente stilizzata che difficilmente avrebbe capito un cristiano medio di Roma della tarda antichità, considerato specialmente che il livello di istruzione era molto basso rispetto ai nostri tempi. Inoltre lo sviluppo della Latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Milano o Roma, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l'iberico o il punico. 

È possibile immaginare una Chiesa occidentale con lingue locali nella sua liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il siriano, il copto, l'armeno, il georgiano e l'etiope.

Ad ogni modo la situazione in Occidente era fondamentalmente differente; la forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l'unica lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per favorire la coesione ecclesiastica, culturale e politica.

Il latino liturgico fu sin dai primordi una lingua sacra separata dalla lingua del popolo; tuttavia la distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. 

"La prima opposizione al latino liturgico - ha scritto Christine Mohrmann - coincise con la fine del latino medievale come "seconda lingua viva", che fu rimpiazzato da una lingua veramente "morta", il latino degli umanisti. E l'opposizione dei nostri giorni al latino liturgico ha qualcosa a che fare con l'indebolimento dello studio del latino - e con la tendenza al "secolarismo"" ("The Ever-Recurring Problem of Language in the Church", in Études sur le latin des chrétiens, IV, Roma, 1977). 

Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione estendendo l'uso del vernacolo nella liturgia, soprattutto nelle letture (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2).

Allo stesso tempo, esso sottolineò che "l'uso della lingua latina ... sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 1; cfr anche art. 54). I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo.

La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes.

In un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001.
Uwe Michael Lang
(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2007)